- E si potrebbe mai credere all’impressione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia stato finora mai posto - che siamo stati noi per primi ad averlo intravisto, preso di mira, “osato”? Giacché esso comporta un rischio e forse non esiste rischio più grande.
2. «Come “potrebbe” qualcosa nascere dal suo contrario? Per esempio la verità dall’errore? O la volontà di verità dalla volontà d’illusione?
O l’azione disinteressata dal proprio tornaconto? O la pura solare contemplazione dei saggi dalla concupiscenza? Una tale origine è impossibile; chi sogna una cosa del genere è un folle, anzi qualcosa di peggio; le cose di valore supremo devono avere un’origine diversa, un’origine “loro propria” - non possono essere derivate da questo mondo effimero, seduttore, ingannatore, irrilevante, da questo guazzabuglio di delirio e bramosia! Piuttosto la loro origine deve essere in seno all’essere, nel non transeunte, nel nascosto Iddio, nella ‘cosa in sé’ - “là” e in nessun altro luogo!». - Questa maniera di giudicare costituisce il tipico pregiudizio, da cui si rendono riconoscibili i metafisici di tutti i tempi; questa specie di apprezzamenti di valore sta sullo sfondo di tutti i loro procedimenti logici; prendendo questa loro «fede» come punto di partenza, essi si sforzano di raggiungere il loro «sapere», qualcosa che alla fine viene battezzato come «la verità». La credenza fondamentale dei metafisici è
“la credenza nelle antitesi dei valori”. Neppure ai più cauti di loro è mai venuto in mente di dubitare già su questa soglia, dove il dubitare era quanto mai necessario; perfino quando del «de omnibus dubitandum» avevano tessuto la loro lode. E’ infatti lecito dubitare, in primo luogo, se esistano in generale antitesi, e in secondo luogo, se quei popolari apprezzamenti e antitesi di valori, sui quali i metafisici hanno stampato il loro suggello, non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali, prospettive provvisorie, ricavate, per di più, forse da un angolo, forse dal basso in alto, prospettive-di-batrace per così dire, per prendere in prestito un’espressione che ricorre frequentemente nei pittori? Nonostante il valore che può essere attribuito al vero, al verace, al disinteressato, c’è la possibilità che debba ascriversi all’apparenza, alla volontà d’illusione, all’interesse personale e alla cupidità un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre persino possibile che “quanto” costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste essenzialmente simili. Forse!
- Ma chi mai vorrà preoccuparsi di siffatti pericolosi «forse»! Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbiano gusti e inclinazioni diverse ed opposte rispetto a quelle fino ad oggi esistite - filosofi del pericoloso «forse» in ogni senso.
- E per dirla con tutta serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi.
3. Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, mi sono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell’istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l’ereditarietà e l’«innatismo». Come l’atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell’ereditarietà, così l’«esser cosciente» non può essere
“contrapposto”, in una qualche maniera decisiva, all’istintivo, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze fisiologiche di una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell’indeterminato, che l’apparenza sia meno valida della
«verità»: simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per “noi”, potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di “niaiserie”, come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. Supposto, cioè, che non sia proprio l’uomo la «misura delle cose»…
4. La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici “a priori”) sono per noi i più indispensabili, e che senza mantenere in vigore le finzioni logiche, senza una misurazione della realtà alla stregua del mondo, puramente inventato, dell’assoluto, dell’eguale-a-se-stesso, senza una costante falsificazione del mondo mediante il numero, l’uomo non potrebbe vivere - che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita. Ammettere la non verità come condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male.
5. Quel che ci stimola a guardare, con aria tra diffidente e sarcastica, tutti i filosofi, non consiste nel fatto che si scopre continuamente quanto essi siano ingenui - quanto spesso e con quanta facilità si ingannino e si smarriscano, insomma nella loro puerilità e nel loro candore - bensì nel fatto che non c’è in loro sufficiente onestà: pur levando, tutti quanti sono, un grande e virtuoso strepito, non appena, anche soltanto da lontano, viene sfiorato il problema della veracità. Fanno tutti le viste d’aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l’autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei -
giacché parlano d’«ispirazione»): mentre invece, in fondo, una tesi pregiudizialmente adottata, un’idea improvvisa, una «suggestione», per lo più un desiderio interiore reso astratto e filtrato al setaccio vengono sostenuti da costoro con ragioni posteriormente cercate - sono tutti quanti degli avvocati che non vogliono farsi chiamare tali e in realtà, il più delle volte, persino scaltriti patrocinatori dei loro stessi pregiudizi, cui dànno il battesimo di «verità» - e assai lontani, altresì, dal coraggio morale della coscienza che confessa a se stessa questo, proprio questo, assai lontani dal buon gusto del coraggio, che sa far intendere anche ciò, sia per mettere in guardia un nemico o un amico, sia per tracotanza e per prendersi beffa di se stesso. La tartuferia altrettanto rigida quanto morigerata del vecchio Kant, con la quale egli ci adesca sulle vie traverse della dialettica, che ci conducono o più esattamente ci seducono al suo «imperativo categorico» - questo spettacolo ci fa sorridere, noi di gusto così sottile, noi per i quali è un non piccolo diletto rivedere le bucce alle raffinate malizie di vecchi moralisti e predicatori di morale.
Oppure quel giuoco di prestigio in forma matematica con cui Spinoza fasciava come d’una bronzea corazza e mascherava la sua filosofia - in definitiva, «l’amore per la “propria” saggezza», interpretando queste parole nel loro esatto e ragionevole significato, - allo scopo di intimidire fin da principio il coraggio dell’attaccante che osasse gettare lo sguardo su questa invincibile vergine, questa Pallade Atena
- quanta timidezza e vulnerabilità tradisce questa mascherata di un infermo solitario!
6. (2) Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite “mémoires”; come pure il fatto che le intenzioni morali (o immorali) hanno costituito in ogni filosofia il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata ogni volta l’intera pianta. In realtà si agisce bene (e saggiamente) se, per dare una spiegazione a ciò, si comincia col domandarci sempre in che modo le più lontane asserzioni metafisiche di un filosofo si siano determinate: quale morale tutto questo abbia di mira (“lui”
stesso abbia di mira). Conseguentemente io non credo che un «istinto di conoscenza» sia il padre della filosofia, ma che piuttosto un altro istinto, in questo come in altri casi, si sia servito della conoscenza (e della errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento. Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni
“ispiratori” (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che certamente una volta essi hanno tutti praticato la filosofia - e che ognuno di questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo volentieri a presentare precisamente “se stesso” come l’ultimo fine dell’esistenza e come il più legittimo “signore” di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come “tale”
cerca di filosofare. - Indubbiamente, nei dotti, negli uomini di scienza in senso specifico, la cosa può porsi in altri termini -
«migliori», se si vuole -, effettivamente può darsi qualcosa come un istinto di conoscenza, un qualche piccolo meccanismo d’orologeria che, caricato a dovere, svolge alacremente il suo bravo lavoro “senza” che tutti quanti gli altri istinti del dotto ne siano sostanzialmente coinvolti.
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