Soltanto, devo dichiararle lealmente che si tratta di danaro buttato dalla finestra».
«È lo stesso per me».
«In questo caso... E poi, dopotutto, mica si sa con quel diavolo di Lupin! Deve avere ai suoi ordini una banda intera. È sicuro dei suoi domestici?»
«Veramente...».
«Allora, non contiamo su di loro. Avvertirò con un dispaccio due giovani amici che ci daranno più sicurezza. E ora, se ne vada, non ci devono vedere insieme. A domani, verso le nove».
L’indomani, data fissata da Arsène Lupin, il barone Cahorn sganciò la sua panoplia, si preparò alla guerra, e passeggiò nei dintorni del Malaquis. Nulla di equivoco lo colpì.
La sera, alle otto e mezzo, congedò i domestici, che occupavano un’ala che dava sulla strada, ma un po’ indietro, e in fondo al castello. Solo una volta, aprì pian piano le quattro porte. Dopo alcuni istanti, sentì dei passi che si avvicinavano.
Ganimard presentò i suoi due ausiliari, ragazzi alti e solidi, dal collo taurino e dalle mani possenti, poi chiese alcune spiegazioni. Resosi conto della disposizione dei luoghi, chiuse accuratamente e barricò tutte le uscite attraverso cui si poteva penetrare nelle sale prese di mira. Ispezionò i muri, sollevò le tappezzerie, infine collocò gli agenti nella galleria centrale.
«Niente sciocchezze, eh? Non siamo qui per dormire. Alla minima allerta, aprite le finestre della corte e chiamatemi. Attenzione anche dal lato dell’acqua. Dieci metri di scogliera ripida non spaventano diavoli del loro calibro».
Li chiuse dentro, portò via le chiavi e disse al barone:
«E ora, al nostro posto».
Aveva scelto, per passarvi la notte, uno stanzino ricavato nello spessore del muro di cinta, tra le due porte principali, e che era, una volta, il ridotto del guardiano notturno. Uno spioncino si apriva sul ponte, un altro sul cortile. In un angolo si scorgeva l’apertura d’un pozzo.
«Lei mi ha detto, signor barone, che questo pozzo era l’unico ingresso dei sotterranei, e che, a memoria d’uomo, è ostruito?»
«Sì».
«Quindi, a meno che non esista un’altra uscita ignorata da tutti, a eccezione di Arsène Lupin, il che sembra un po’ problematico, siamo tranquilli».
Allineò tre sedie, si distese confortevolmente, accese la pipa e sospirò:
«Veramente, signor barone, bisogna che io abbia molta voglia di aggiungere un piano alla casetta in cui devo finire i miei giorni, per accettare un compito tanto elementare. Racconterò la storia all’amico Lupin, si terrà i fianchi dal ridere».
Il barone non rideva. L’orecchio in ascolto, interrogava il silenzio con un’inquietudine crescente. Di tanto in tanto, si affacciava sul pozzo e gettava un occhio ansioso nel buco spalancato.
Le undici, mezzanotte, l’una suonarono.
«Ha sentito?»
«Sì».
«Che cos’è?»
«Sono io che russo».
«Ma no, ascolti».
«Ah! Sicuro, è il clacson di un’automobile».
«Ebbene?»
«Ebbene! È poco probabile che Lupin si serva di un’automobile come d’un ariete per demolire il suo castello. Perciò, signor barone, al suo posto, io dormirei... Come avrò l’onore di fare io. Buonasera».
Fu il solo allarme. Ganimard poté riprendere il sonno interrotto, e il barone non sentì più che il suo russare sonoro e regolare.
All’alba, uscirono dalla loro cella. Una grande pace serena, la pace del mattino in riva all’acqua fresca, avvolgeva il castello. Cahorn radioso di gioia, Ganimard sempre tranquillo, salirono per le scale. Nessun rumore. Niente di sospetto.
«Che cosa le avevo detto, signor barone? In fondo, io non avrei dovuto accettare... Sono confuso...».
Prese le chiavi ed entrò nella galleria.
Sulle due sedie, curvi, le braccia ciondoloni, i due agenti dormivano.
«Porco cane!», brontolò l’ispettore.
Nello stesso momento, il barone cacciava un grido:
«I quadri!... La credenza!...».
Balbettava, soffocava, con la mano tesa a indicare i posti vuoti, i muri denudati dove spuntavano i chiodi, dove pendevano le corde inutili. Il Watteau, scomparso! I Rubens, portati via! Le tappezzerie, staccate! Le vetrine, vuotate dei loro gioielli!
«E i miei candelabri Luigi XVI!...
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