Spesso, nel riflettere sul caso, mi aveva assalito il pensiero che se l’alterco fosse scoppiato nella pubblica via o in un’abitazione privata, non si sarebbe concluso in quel modo. Era stata la circostanza di trovarsi da solo nell’ufficio deserto, al primo piano di uno stabile mai benedetto dall’influsso umanizzante dei rapporti familiari, un ufficio dall’assito nudo, indubbiamente polveroso e squallido - ecco che cosa doveva aver contribuito a esacerbare la rabbia disperata dello sfortunato Colt.
Ma quando in me sorse questo rancore, quando in me si svegliò il vecchio Adamo, per tentarmi contro Bartleby, lo abbrancai e lo respinsi. Come? Limitandomi a ricordare il comando divino: «Un nuovo comandamento io do a tutti voi, che vi amiate l’un l’altro».? Sì, fu questo a salvarmi. A prescindere da nobili considerazioni, la carità spesso opera alla stregua di un principio saggio e prudente - una grande salvaguardia per chi la possiede. Gli uomini hanno ucciso per gelosia, per rabbia, per odio, per egoismo, per orgoglio spirituale, ma nessun uomo, per quanto ne sappia, ha mai ucciso per la dolce carità. Per mero interesse personale allora, in mancanza di un motivo migliore, tutti, specie le persone colleriche, dovrebbero praticare la carità e la filantropia. In ogni modo, nell’attuale situazione, cercai con tutte le forze di soffocare la mia esasperazione nei confronti dello scrivano interpretando benevolmente la sua condotta. «Poveretto, poveretto!», pensai. «Non ha cattive intenzioni, senza contare che ne ha conosciuti di momenti difficili e bisogna aver pazienza con lui».
Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Tacchino cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Pince- Nez si acquietò in una cortese compostezza; Zenzero prese a rosicchiare la mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco. Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai l’ufficio senza rivolgergli altra parola.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali, negli intervalli liberi, leggiucchiavo il trattato di Edwards Sulla volontà e quello di Priestley Sulla necessità. Date le circostanze, quei libri mi ispirarono sentimenti salutari. A poco a poco mi abbandonai alla convinzione che i miei affanni, riguardanti lo scrivano, fossero stati predestinati dall’eternità e che Bartleby mi fosse stato assegnato per qualche misterioso scopo da una onnisciente Provvidenza, imperscrutabile per un semplice mortale come me. «Sì Bartleby, stattene lì, dietro il tuo paravento», pensavo. «Non ti perseguiterò più; sei innocuo e silenzioso come una di queste vecchie sedie. In breve, non mi sento mai così solo come quando so che sei lì. Perlomeno lo vedo, lo percepisco, intuisco lo scopo predestinato della mia vita. Mi basta. Altri forse avranno ruoli più nobili da interpretare, ma la mia missione nel mondo, Bartleby, è di darti una stanza d’ufficio per tutto il tempo che ti andrà di rimanervi».
Sono convinto che avrei persistito in questa saggia e beata disposizione, se non fosse stato per le osservazioni gratuite e impietose lanciatemi dai colleghi che venivano nel mio studio. Spesso accade che la contiguità con animi poco liberali finisca con il logorare i migliori propositi degli animi generosi. Riflettendoci tuttavia, non era strano, a ben pensarci, che quanti entravano nel mio ufficio, colpiti dall’aspetto peculiare dell’inesplicabile Bartleby, fossero tentati di buttare lì qualche commento perfido su di lui. A volte veniva nello studio questo o quel procuratore, che aveva affari con me, e, non trovando nessuno tranne lo scrivano, si adoperava per ottenere da lui qualche indicazione su dove io fossi, ma Bartleby, indifferente a quelle vane chiacchiere, se ne rimaneva immobile, in piedi in mezzo alla stanza. E il procuratore, dopo averlo contemplato in quella posizione per qualche tempo, se ne andava senza aver saputo nulla.
Oppure, quando si svolgeva un arbitrato, con l’ufficio gremito di avvocati e testimoni, mentre il lavoro urgeva, qualche legale presente, immerso nelle sue occupazioni, vedendo Bartleby che non faceva assolutamente nulla, gli chiedeva di andare di corsa nel suo ufficio (del legale) a prendergli qualche documento. Al che Bartleby tranquillamente rifiutava, restandosene con le mani in mano come prima. Il legale, a questo punto, sgranando gli occhi, si volgeva verso di me. Che cosa potevo dire? Alla fine mi resi conto che nella cerchia delle mie conoscenze professionali circolavano sussurri di sorpresa per la strana creatura che tenevo nello studio. Questo mi preoccupò molto. E mentre si faceva strada il pensiero che potesse magari essere un uomo longevo e continuare a occupare i miei locali, a rifiutare la mia autorità, a mettere in imbarazzo i miei visitatori, a screditare la mia reputazione professionale, a gettare un’ombra sinistra sull’ufficio, tenendo l’anima stretta coi denti fino all’ultimo centesimo dei suoi risparmi (non c’era dubbio, infatti, che spendesse al massimo cinque centesimi al giorno), e finisse con il sopravvivermi, avanzando pretese sulla proprietà degli uffici per usucapione con la sua occupazione perpetua; mentre tutti questi cupi presagi mi si affollavano in mente sempre più pressanti, e mentre i miei amici, irriducibili, di continuo mi imponevano le loro osservazioni sul fantasma dell’ufficio, un grande mutamento si operò in me.
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