Un giorno d’inverno regalai a Tacchino una mia giacca dall’aria molto rispettabile grigia, imbottita, dava un delizioso calduccio e si abbottonava dalle ginocchia su su fino al collo. Pensavo che Tacchino, apprezzando quel favore, avrebbe mitigato la sventatezza e la chiassosità pomeridiane. Macché: credo davvero che l’abbottonarsi in quella giacca morbida che pareva una coperta avesse su di lui un effetto pernicioso - per lo stesso principio che la troppa biada fa male ai cavalli. Infatti proprio come di un cavallo impetuoso e recalcitrante si dice che senta la biada, così Tacchino sentiva la giacca. Lo rendeva insolente. Era un uomo che la prosperità guastava.

Sebbene sulle abitudini in cui indulgeva di Tacchino io avessi le mie opinioni personali, nei confronti di Pince- Nez ero davvero convinto che, a prescindere dai suoi difetti, sotto altri punti di vista fosse perlomeno un giovanotto morigerato. Anzi, la natura stessa pareva avergli fatto da oste, e alla nascita gli aveva istillato, da capo a piedi, un temperamento così irritabile, di tipo alcolico, da rendere superflue tutte le successive libagioni. Quando ricordo come, nella quiete immobile del mio ufficio, Pince-Nez a volte si alzava dalla sedia con impazienza e, chinandosi sul tavolo, spalancava le braccia, afferrava l’intera scrivania, la spostava, la sbatacchiava grattando il pavimento con un movimento sinistro, quasi che il tavolo avesse una sua volontà perversa, tesa a ostacolarlo e tormentarlo, capisco chiaramente come per Pince-Nez acqua e cognac fossero del tutto superflui.

Per mia fortuna, visto che la causa specifica ne era la cattiva digestione, l’irritabilità e il conseguente nervosismo di Pince-Nez si manifestavano soprattutto al mattino, mentre nel pomeriggio era relativamente tranquillo. Quindi, poiché gli attacchi parossistici di Tacchino maturavano soltanto intorno al mezzogiorno, non dovevo mai vedermela con le loro eccentricità contemporaneamente. Le crisi si alternavano, come le sentinelle nei turni di guardia. Quando era in servizio Pince-Nez, Tacchino era in licenza, e viceversa. In quelle circostanze era una buona intesa naturale.

Zenzero, il terzo della lista, era un ragazzotto di circa dodici anni. Il padre, carrettiere, nutriva l’ambizione di vedere, prima di morire, il figlio seduto sul seggio di un tribunale invece che sul sedile di un carro. Ecco perché me lo mandò in ufficio in qualità di studente di legge, fattorino, addetto a pulire e spazzare, al salario di un dollaro alla settimana. Aveva una piccola scrivania per sé, ma non la usava molto. A chi gli ispezionasse il cassetto si parava davanti una collezione di gusci di noce di ogni genere. Per questo ragazzo sveglio, infatti, tutta la nobile scienza del diritto stava in un guscio di noce. Non infima fra le mansioni di Zenzero - e quella che svolgeva con la massima alacrità - era il compito di approvvigionare di dolci e mele Tacchino e Pince-Nez. Copiare documenti legali è proverbialmente un compito arido e secco, ragion per cui i miei due scrivani erano desiderosi di inumidirsi spesso la bocca con mele Spitzenberg che si potevano acquistare in varie bancarelle nei pressi della dogana e della posta. Molto di frequente inoltre mandavano Zenzero a comprare quelle particolari focaccine - piccole, piatte, rotonde, molto speziate - che avevano suggerito quel soprannome. Nelle mattine fredde, mentre il lavoro era torpido, Tacchino ingoiava dozzine di queste focaccine, quasi fossero cialde sottilissime - ne danno addirittura sei o otto per un centesimo - mentre lo scricchiolio della penna si mescolava al rumore della bocca che sgranocchiava quelle focaccine croccanti. Fra i clamorosi sbagli pomeridiani commessi da Tacchino nella sua smania pasticciona ce ne fu uno che per un pelo non mi indusse a licenziarlo: gli capitò di inumidire fra le labbra una cialda allo zenzero e appiccicarla su un’ipoteca a mo’ di sigillo. Ma mi intenerì con un inchino di orientale cerimoniosità e con queste parole:

«Con rispetto, signore, è stato un gesto generoso rifornirla, a mie spese, di cancelleria».

Ora la mia attività originaria - quella di redigere atti notarili, di spulciare sulla regolarità dei titoli, di stendere oscuri documenti di varia natura - ebbe un considerevole incremento dopo che fui nominato all’Alta Corte di Equità. C’era quindi molto lavoro per i copisti. Non soltanto dovevo mettere sotto il torchio gli impiegati già con me, ma dovevo procurarmi altro aiuto.

In risposta a un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane - la porta infatti era aperta, perché era estate. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.

Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomo dall’aspetto così singolarmente mite, che - pensavo - forse avrebbe avuto un benefico influsso sull’irrequietezza di Tacchino e l’irruenza di Pince-Nez.

Avrei dovuto già accennare alle porte pieghevoli di vetro smerigliato che dividevano in due il mio ufficio: da una parte c’erano i miei scrivani, dall’altra c’ero io. A seconda dell’umore aprivo le porte oppure le chiudevo. Decisi di assegnare a Bartleby un angolo accanto alle porte pieghevoli, ma dalla mia parte, in modo da avere a portata di voce quell’uomo tranquillo, se, per caso; si fosse dovuto sbrigare qualche lavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quella parte della stanza, accanto a una finestrina laterale che in origine offriva uno scorcio sul retro, affacciandosi su certi cortili sporchi e muri di mattoni, ma che allora, a seguito di successive costruzioni, non si affacciava più su nulla, sebbene lasciasse entrare un po’ di luce. A meno di tre piedi dai vetri della finestra c’era un muro, e la luce veniva da molto in alto, filtrando tra due alti edifici, quasi piovesse dal pertugio di una cupola.