E lui amava la vita laboriosa, sì, ma semplice, all'aperto. Tutti gli consigliavano di recarsi nell'isola di sua madre, per tentar la fortuna con un onesto lavoro.
Le zie cominciarono a discutere; e più discutevano meno si trovavano d'accordo.
“Lavorare?”, diceva donna Ruth, la più calma. Se il paesetto non dava risorse neppure a quelli che c'eran nati?
Donna Ester, invece, favoriva i progetti del nipote, mentre donna Noemi, la più giovane, sorrideva fredda e beffarda.
“Egli forse crede di venir qui a fare il signore. Venga, venga! Andrà a pescare al fiume...”
“Egli stesso dice che vuol lavorare, Noemi, sorella mia! Lavorerà dunque: farà il negoziante come suo padre.”
“Doveva farlo prima, allora. I nostri parenti non hanno mai comprato buoi.”
“Altri tempi, Noemi, sorella mia! Del resto i signori sono appunto i mercanti, adesso. Vedi il Milese? Egli dice: il Barone di Galte adesso sono io.”
Noemi rideva, con uno sguardo cattivo negli occhi profondi, e il suo riso scoraggiava donna Ester più che tutti gli argomenti dell'altra sorella.
Tutti i giorni era la stessa storia: il nome di Giacinto risuonava per tutta la casa, e anche quando le tre sorelle tacevano egli era in mezzo a loro, come del resto lo era sempre fin dal giorno della sua nascita, e la sua figura ignota riempiva di vita la casa in rovina.
Efix non ricordava di aver mai preso parte diretta alle discussioni delle sue padrone: non osava, anzitutto perché esse non lo interpellavano, poi per non aver scrupoli di coscienza: ma desiderava che il ragazzo venisse.
Egli lo amava, lo aveva sempre amato come una persona di famiglia.
Dopo la morte di don Zame, egli era rimasto con le tre dame per aiutarle a sbrigare i loro affari imbrogliati. I parenti non si curavano di loro, anzi le disprezzavano e le sfuggivano; esse non erano capaci che delle faccende domestiche e neppure conoscevano il poderetto, ultimo avanzo del loro patrimonio.
“Starò ancora un anno al loro servizio”, aveva detto Efix, mosso a pietà del loro abbandono. Ed era rimasto venti anni.
Le tre donne vivevano della rendita del podere coltivato da lui. Nelle annate scarse donna Ester diceva al servo, giunto il momento di pagarlo (trenta scudi all'anno e un paio di scarponi):
“Abbi pazienza, per l'amor di Cristo: il tuo non ti mancherà”.
E lui aveva pazienza, e il suo credito aumentava di anno in anno, tanto che donna Ester, un po' scherzando, un po' sul serio gli prometteva di lasciarlo erede del podere e della casa, sebbene egli fosse più vecchio di loro.
Vecchio, oramai, e debole; ma era sempre un uomo, e bastava la sua ombra per proteggere ancora le tre donne.
Adesso era lui che sognava per loro la buona fortuna: almeno che Noemi trovasse marito! Se la lettera gialla, dopo tutto, portasse una buona notizia? Se annunziava una eredità? Se fosse appunto una domanda di matrimonio per Noemi? Le dame Pintor avevano ancora ricchi parenti a Sassari e a Nuoro: perché uno di loro non poteva sposar Noemi? Lo stesso don Predu poteva aver scritto la lettera gialla...
Ed ecco nella fantasia stanca del servo le cose a un tratto cambiano aspetto come dalla notte al giorno; tutto è luce, dolcezza: le sue nobili padrone ringiovaniscono, si risollevano a volo come aquile che han rimesso le penne; la loro casa risorge dalle sue rovine e tutto intorno rifiorisce come la valle a primavera.
E a lui, al povero servo, non rimane che ritirarsi per il resto della vita nel poderetto, spiegar la sua stuoia e riposarsi con Dio, mentre nel silenzio della notte le canne sussurrano la preghiera della terra che s'addormenta.
Capitolo secondo
All'alba partì, lasciando il ragazzo a guardare il podere.
Lo stradone, fino al paese era in salita ed egli camminava piano perché l'anno passato aveva avuto le febbri di malaria e conservava una gran debolezza alle gambe: ogni tanto si fermava volgendosi a guardare il poderetto tutto verde fra le due muraglie di fichi d'India; e la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il bianco della roccia gli pareva un nido, un vero nido. Ogni volta che se ne allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.
Ma sia fatta la volontà di Dio e andiamo avanti. Ecco a un tratto la valle aprirsi e sulla cima a picco d'una collina simile a un enorme cumulo di ruderi, apparire le rovine del Castello: da una muraglia nera una finestra azzurra vuota come l'occhio stesso del passato guarda il panorama melanconico roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo come il pistillo nel fiore, i monticoli sopra i paesetti e in fondo la nuvola color malva e oro delle montagne Nuoresi.
Efix cammina, piccolo e nero fra tanta grandiosità luminosa. Il sole obliquo fa scintillare tutta la pianura; ogni giunco ha un filo d'argento, da ogni cespuglio di euforbia sale un grido d'uccello; ed ecco il cono verde e bianco del monte di Galte solcato da ombre e da strisce di sole, e ai suoi piedi il paese che pare composto dei soli ruderi dell'antica città romana.
Lunghe muriccie in rovina, casupole senza tetto, muri sgretolati, avanzi di cortili e di recinti, catapecchie intatte più melanconiche degli stessi ruderi fiancheggiano le strade in pendìo selciate al centro di grossi macigni; pietre vulcaniche sparse qua e là dappertutto danno l'idea che un cataclisma abbia distrutto l'antica città e disperso gli abitanti; qualche casa nuova sorge timida fra tanta desolazione, e pinte di melograni e di carrubi, gruppi di fichi d'India e palmizi danno una nota di poesia alla tristezza del luogo.
Ma a misura che Efix saliva questa tristezza aumentava, e a incoronarla si stendevano sul ciglione, all'ombra del Monte, fra siepi di rovi e di euforbie, gli avanzi di un antico cimitero e la Basilica pisana in rovina. Le strade erano deserte e le rocce a picco del Monte apparivano adesso come torri di marmo.
Efix si fermò davanti a un portone attiguo a quello dell'antico cimitero. Erano quasi eguali, i due portoni, preceduti da tre gradini rotti invasi d'erba; ma mentre il portone dell'antico cimitero era sormontato appena da un'asse corrosa, quello delle tre dame aveva un arco in muratura e sull'architrave si notava l'avanzo di uno stemma: una testa di guerriero con l'elmo e un braccio armato di spada; il motto era: quis resistit hujas?
Efix attraversò il vasto cortile quadrato, lastricato al centro, come le strade, da una specie di solco in macigni per lo scolo delle acque piovane, e si tolse la bisaccia dalle spalle guardando se qualcuna delle sue padrone s'affacciava. La casa, a un sol piano oltre il terreno, sorgeva in fondo al cortile, subito dominata dal Monte che pareva incomberle sopra come un enorme cappuccio bianco e verde.
Tre porticine s'aprivano sotto un balcone di legno a veranda che fasciava tutto il piano superiore della casa, al quale si saliva per una scala esterna in cattivo stato. Una corda nerastra, annodata e fermata a dei piuoli piantati agli angoli degli scalini, sostituiva la ringhiera scomparsa. Le porte, i sostegni e la balaustrata del balcone erano in legno finemente scolpito: tutto però cadeva, e il legno corroso, diventato nero, pareva al minimo urto sciogliersi in polvere come sgretolato da un invisibile trivello.
Qua e là però, nella balaustrata del balcone, oltre le colonnine svelte ancora intatte, si osservavano avanzi di cornice su cui correva una decorazione di foglie, di fiori e di frutta in rilievo, ed Efix ricordava che fin da bambino quel balcone gli aveva destato un rispetto religioso, come il pulpito e la balaustrata che circondava l'altare della Basilica.
Una donna bassa e grossa, vestita di nero e con un fazzoletto bianco intorno al viso duro nerastro, apparve sul balcone; si curvò, vide il servo, e i suoi occhi scuri a mandorla scintillarono di gioia.
“Donna Ruth, buon giorno, padrona mia!”
Donna Ruth scese svelta, lasciando vedere le grosse gambe coperte di calze turchine: gli sorrideva, mostrando i denti intatti sotto il labbro scuro di peluria.
“E donna Ester? E donna Noemi?”
“Ester è andata a messa, Noemi s'alza adesso. Bel tempo, Efix! Come va laggiù?”
“Bene, bene, grazie a Dio, tutto bene.”
Anche la cucina era medioevale: vasta, bassa, col soffitto a travi incrociate nere di fuliggine; un sedile di legno lavorato poggiava lungo la parete al di qua e al di là del grande camino; attraverso l'inferriata della finestra verdeggiava lo sfondo della montagna. Sulle pareti nude rossicce si notavano ancora i segni delle casseruole di rame scomparse; e i piuoli levigati e lucidi ai quali un tempo venivano appese le selle, le bisacce, le armi, parevano messi lì per ricordo.
“Ebbene, donna Ruth?...”, interrogò Efix, mentre la donna metteva una piccola caffettiera di rame sul fuoco. Ma ella volse il gran viso nero incorniciato di bianco e ammiccò accennandogli di pazientare.
“Vammi a prendere un po' d'acqua, intanto che scende Noemi...”
Efix prese il secchio di sotto al sedile; s'avviò, ma sulla porta si volse timido, guardando il secchio che dondolava.
“La lettera è di don Giacintino?”
“Lettera? È un telegramma...”
“Gesù grande! Non gli e accaduto nulla di male?”
“Nulla, nulla! Va'...”
Era inutile insistere, prima che scendesse donna Noemi; donna Ruth, sebbene fosse la più vecchia delle tre sorelle e tenesse le chiavi di casa (del resto non c'era più nulla da custodire) non prendeva mai nessuna iniziativa e nessuna responsabilità.
Egli andò al pozzo che pareva un nuraghe scavato in un angolo del cortile e protetto da un recinto di macigni sui quali, entro vecchie brocche rotte, fiorivano piante di violacciocche e cespugli di gelsomini: uno di questi si arrampicava sul muro e vi si affacciava come per guardare cosa c'era di là, nel mondo.
Quanti ricordi destava nel cuore del servo quest'angolo di cortile, triste di musco, allegro dell'oro brunito delle violacciocche e del tenero verde dei gelsomini!
Gli sembrava di veder ancora donna Lia, pallida e sottile come un giunco, affacciata al balcone, con gli occhi fissi in lontananza a spiare anch'essa cosa c'era di là, nel mondo. Così egli l'aveva veduta il giorno della fuga, immobile lassù, simile al pilota che esplora con lo sguardo il mistero del mare...
Come pesano questi ricordi! Pesano come il secchio pieno d'acqua che tira giù, giù nel pozzo.
Ma sollevando gli occhi Efix vide che non era Lia la donna alta che si affacciava agile al balcone agganciandosi i polsi della giacca nera a falde.
“Donna Noemi, buon giorno, padrona mia! Non scende?”
Ella si chinò alquanto, coi folti capelli neri dorati splendenti intorno al viso pallido come due bande di raso: rispose al saluto con gli occhi anch'essi neri dorati sotto le lunghe ciglia, ma non parlò e non scese.
Spalancò porte e finestre - tanto non c'era pericolo che la corrente sbattesse e rompesse i vetri (mancavano da tanti anni!) - e portò fuori stendendola bene al sole una coperta gialla.
“Non scende, donna Noemi?”, ripetè Efix a testa in su sotto il balcone.
“Adesso, adesso.”
Ma ella stendeva bene la coperta e pareva s'indugiasse a contemplare il panorama a destra, il panorama a sinistra, tutti e due d'una bellezza melanconica, con la pianura sabbiosa solcata dal fiume, da file di pioppi, di ontani bassi, da distese di giunchi e d'euforbie, con la Basilica nerastra di rovi, l'antico cimitero coperto d'erba in mezzo al cui verde biancheggiavano come margherite le ossa dei morti; e in fondo la collina con le rovine del Castello.
Nuvole d'oro incoronavano la collina e i ruderi, e la dolcezza e il silenzio del mattino davano a tutto il paesaggio una serenità di cimitero. Il passato regnava ancora sul luogo; le ossa stesse dei morti sembravano i suoi fiori, le nuvole il suo diadema.
Noemi non s'impressionava per questo; fin da bambina era abituata a veder le ossa che in inverno pareva si scaldassero al sole e in primavera scintillavano di rugiada. Nessuno pensava a toglierle di lì: perché avrebbe dovuto pensarci lei? Donna Ester, invece, mentre risale a passo lento e calmo la strada su dalla chiesa nuova del villaggio (quando è in casa ha sempre fretta, ma fuori fa le cose con calma perché una donna nobile dev'essere ferma e tranquilla) giunta davanti all'antico cimitero si fa il segno della croce e prega per le anime dei morti...
Donna Ester non dimentica mai nulla e non trascura di osservar nulla: così, appena nel cortile, s'accorge che qualcuno ha attinto acqua al pozzo e rimette a posto la secchia; toglie una pietruzza da un vaso di violacciocche, ed entrata in cucina saluta Efix domandandogli se gli han già dato il caffè.
“Dato, dato, donna Ester, padrona mia!”
Intanto donna Noemi era scesa col telegramma in mano, ma non si decideva a leggerlo, quasi prendesse gusto ad esasperare l'ansia curiosa del servo.
“Ester”, disse, sedendosi sulla panca accanto al camino, “perché non ti levi lo scialle?”
“C'è messa nella Basilica, stamattina; esco ancora. Leggi.”
Sedette anche lei sulla panca e donna Ruth la imitò; così sedute le tre sorelle si rassomigliavano in modo straordinario; solo che rappresentavano tre età differenti: donna Noemi ancora giovane, donna Ester anziana e donna Ruth già vecchia, ma d'una vecchiaia forte, nobile, serena. Gli occhi di donna Ester, un po' più chiari di quelli delle sorelle, d'un color nocciola dorato, scintillavano però infantili e maliziosi.
Il servo s'era messo davanti a loro, aspettando; ma donna Noemi dopo aver spiegato il foglio giallo lo guardava fisso quasi non riuscisse a decifrarne le parole, e infine lo scosse indispettita.
“Ebbene, dice che fra pochi giorni arriverà. È questo!”
Sollevò, gli occhi e arrossì guardando severa il viso di Efix: anche le altre due lo guardavano.
“Capisci? Così, senz'altro, quasi venga a casa sua!”
“Che ne dici?”, domandò donna Ester, mettendo un dito fuor dell'incrociatura dello scialle.
Efix aveva un viso beato: le fitte rughe intorno ai suoi occhi vivaci sembravano raggi, ed egli non cercava di nascondere la sua gioia.
“Sono un povero servo, ma dico che la provvidenza sa quello che fa!”
“Signore, vi ringrazio! C'è almeno qualcuno che capisce la ragione”, disse donna Ester.
Ma Noemi era ridiventata pallida: parole di protesta le salivano alle labbra, e sebbene come sempre riuscisse a dominarsi davanti al servo al quale pareva non desse molta importanza, non poté fare a meno di ribattere:
“Qui non c'entra la provvidenza, e non si tratta di questo. Si tratta...”, aggiunse dopo un momento di esitazione, “si tratta di rispondergli netto e chiaro che in casa nostra non c'è posto per lui!”.
Allora Efix aprì le mani e reclinò un poco la testa come per dire: e allora perché mi consultate? - ma donna Ester si mise a ridere e alzò sbattendo con impazienza le due ali nere del suo scialle.
“E dove vuoi che vada, allora? In casa del Rettore come i forestieri che non trovano alloggio?”
“Io piuttosto non gli risponderei niente”, propose donna Ruth, togliendo di mano a Noemi il telegramma che quella piegava e ripiegava nervosamente. “Se arriva, ben arrivato. Lo si potrebbe accogliere appunto come un forestiere. Ben venuto l'ospite!”, aggiunse, come salutando qualcuno che entrasse dalla porta.
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