Alcuno

Non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce

Un altrettale amor. Quanto, deh quanto

Dal misero Consalvo in sì gran tempo

Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!

Come al nome d'Elvira, in cor gelando,

Impallidir; come tremar son uso

All'amaro calcar della tua soglia,

A quella voce angelica, all'aspetto

Di quella fronte, io ch'al morir non tremo!

Ma la lena e la vita or vengon meno

Agli accenti d'amor. Passato è il tempo,

Né questo di rimemorar m'è dato.

Elvira, addio. Con la vital favilla

La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave

Non ti fu quest'affetto, al mio feretro

Dimani all'annottar manda un sospiro.

Tacque: né molto andò, che a lui col suono

Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo

Suo dì felice gli fuggia dal guardo.

 

 

 

XVIII. ALLA SUA DONNA

 

Cara beltà che amore

Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

Fuor se nel sonno il core

Ombra diva mi scuoti,

O ne' campi ove splenda

Più vago il giorno e di natura il riso;

Forse tu l'innocente

Secol beasti che dall'oro ha nome,

Or leve intra la gente

Anima voli? o te la sorte avara

Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

 

Viva mirarti omai

Nulla spene m'avanza;

S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

Per novo calle a peregrina stanza

Verrà lo spirto mio. Già sul novello

Aprir di mia giornata incerta e bruna,

Te viatrice in questo arido suolo

Io mi pensai. Ma non è cosa in terra

Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,

Saria, così conforme, assai men bella.

 

Fra cotanto dolore

Quanto all'umana età propose il fato,

Se vera e quale il mio pensier ti pinge,

Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora

Questo viver beato:

E ben chiaro vegg'io siccome ancora

Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni

L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse

Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

E teco la mortal vita saria

Simile a quella che nel cielo india.

 

Per le valli, ove suona

Del faticoso agricoltore il canto,

Ed io seggo e mi lagno

Del giovanile error che m'abbandona;

E per li poggi, ov'io rimembro e piagno

I perduti desiri, e la perduta

Speme de' giorni miei; di te pensando,

A palpitar mi sveglio. E potess'io,

Nel secol tetro e in questo aer nefando,

L'alta specie serbar; che dell'imago,

Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

 

Se dell'eterne idee

L'una sei tu, cui di sensibil forma

Sdegni l'eterno senno esser vestita,

E fra caduche spoglie

Provar gli affanni di funerea vita;

O s'altra terra ne' supremi giri

Fra' mondi innumerabili t'accoglie,

E più vaga del Sol prossima stella

T'irraggia, e più benigno etere spiri;

Di qua dove son gli anni infausti e brevi,

Questo d'ignoto amante inno ricevi.

 

 

 

XIX. AL CONTE CARLO PEPOLI

 

Questo affannoso e travagliato sonno

Che noi vita nomiam, come sopporti,

Pepoli mio? di che speranze il core

Vai sostentando? in che pensieri, in quanto

O gioconde o moleste opre dispensi

L'ozio che ti lasciàr gli avi remoti,

Grave retaggio e faticoso? È tutta,

In ogni umano stato, ozio la vita,

Se quell'oprar, quel procurar che a degno

Obbietto non intende, o che all'intento

Giunger mai non potria, ben si conviene

Ozioso nomar. La schiera industre

Cui franger glebe o curar piante e greggi

Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita

È per campar la vita, e per sé sola

La vita all'uom non ha pregio nessuno,

Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie

Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;

E il mercatante avaro in ozio vive:

Che non a sé, non ad altrui, la bella

Felicità, cui solo agogna e cerca

La natura mortal, veruno acquista

Per cura o per sudor, vegghia o periglio.

Pure all'aspro desire onde i mortali

Già sempre infin dal dì che il mondo nacque

D'esser beati sospiraro indarno,

Di medicina in loco apparecchiate

Nella vita infelice avea natura

Necessità diverse, a cui non senza

Opra e pensier si provvedesse, e pieno,

Poi che lieto non può, corresse il giorno

All'umana famiglia; onde agitato

E confuso il desio, men loco avesse

Al travagliarne il cor. Così de' bruti

La progenie infinita, a cui pur solo,

Né men vano che a noi, vive nel petto

Desio d'esser beati; a quello intenta

Che a lor vita è mestier, di noi men tristo

Condur si scopre e men gravoso il tempo,

Né la lentezza accagionar dell'ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano

Provveder commettiamo, una più grave

Necessità, cui provveder non puote

Altri che noi, già senza tedio e pena

Non adempiam: necessitate, io dico,

Di consumar la vita: improba, invitta

Necessità, cui non tesoro accolto,

Non di greggi dovizia, o pingui campi,

Non aula puote e non purpureo manto

Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno

I vòti anni prendendo, e la superna

Luce odiando, l'omicida mano,

I tardi fati a prevenir condotto,

In se stesso non torce; al duro morso

Della brama insanabile che invano

Felicità richiede, esso da tutti

Lati cercando, mille inefficaci

Medicine procaccia, onde quell'una

Cui natura apprestò, mal si compensa.

Lui delle vesti e delle chiome il culto

E degli atti e dei passi, e i vani studi

Di cocchi e di cavalli, e le frequenti

Sale, e le piazze romorose, e gli orti,

Lui giochi e cene e invidiate danze

Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro

Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,

Nell'imo petto, grave, salda, immota

Come colonna adamantina, siede

Noia immortale, incontro a cui non puote

Vigor di giovanezza, e non la crolla

Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,

Di due nere pupille, il caro sguardo,

La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista

Umana sorte, in cangiar terre e climi

L'età spendendo, e mari e poggi errando

Tutto l'orbe trascorre, ogni confine

Degli spazi che all'uom negl'infiniti

Campi del tutto la natura aperse,

Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside

Su l'alte prue la negra cura, e sotto

Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno

Felicità, vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di marte

Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno

Sangue la man tinge per ozio; ed havvi

Chi d'altrui danni si conforta, e pensa

Con far misero altrui far sé men tristo,

Sì che nocendo usar procaccia il tempo.