Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
Questa sovr'ogni cura,
Che di fortuna amici
Non crescano i tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o di speme: onde felici
Sarete detti nell'età futura:
Poiché (nefando stile,
Di schiatta ignava e finta)
Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.
Donne, da voi non poco
La patria aspetta; e non in danno e scorno
Dell'umana progenie al dolce raggio
Delle pupille vostre il ferro e il foco
Domar fu dato. A senno vostro il saggio
E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
Col divo carro accerchia, a voi s'inchina.
Ragion di nostra etate
Io chieggo a voi. La santa
Fiamma di gioventù dunque si spegne
Per vostra mano? attenuata e franta
Da voi nostra natura? e le assonnate
Menti, e le voglie indegne,
E di nervi e di polpe
Scemo il valor natio, son vostre colpe?
Ad atti egregi è sprone
Amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto
Maestra è la beltà. D'amor digiuna
Siede l'alma di quello a cui nel petto
Non si rallegra il cor quando a tenzone
Scendono i venti, e quando nembi aduna
L'olimpo, e fiede le montagne il rombo
Della procella. O spose,
O verginette, a voi
Chi de' perigli è schivo, e quei che indegno
È della patria e che sue brame e suoi
Volgari affetti in basso loco pose,
Odio mova e disdegno;
Se nel femmineo core
D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.
Madri d'imbelle prole
V'incresca esser nomate. I danni e il pianto
Della virtude a tollerar s'avvezzi
La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
La vergognosa età, condanni e sprezzi;
Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
Agli avi suoi deggia la terra impari.
Qual de' vetusti eroi
Tra le memorie e il grido
Crescean di Sparta i figli al greco nome;
Finché la sposa giovanetta il fido
Brando cingeva al caro lato, e poi
Spandea le negre chiome
Sul corpo esangue e nudo
Quando e' reddia nel conservato scudo.
Virginia, a te la molle
Gota molcea con le celesti dita
Beltade onnipossente, e degli alteri
Disdegni tuoi si sconsolava il folle
Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
Nella stagion ch'ai dolci sogni invita,
Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
Il bianchissimo petto,
E all'Erebo scendesti
Volonterosa. A me disfiori e scioglia
Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,
Dicea, la tomba, anzi che l'empio letto
Del tiranno m'accoglia.
E se pur vita e lena
Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.
O generosa, ancora
Che più bello a' tuoi dì splendesse il sole
Ch'oggi non fa, pur consolata e paga
È quella tomba cui di pianto onora
L'alma terra nativa. Ecco alla vaga
Tua spoglia intorno la romulea prole
Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
Lorda il tiranno i crini;
E libertade avvampa
Gli obbliviosi petti; e nella doma
Terra il marte latino arduo s'accampa
Dal buio polo ai torridi confini.
Così l'eterna Roma
In duri ozi sepolta
Femmineo fato avviva un'altra volta.
V. A UN VINCITORE NEL PALLONE
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
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