“Adele, desidero parlarti” le disse con voce tremante.

La fanciulla, un po’ rassicurata nel vederlo cosí commosso, rispose ingenuamente:

“Andiamo in giardino.”

“No… stanotte, quando tutti saranno a dormire… Allorché sentirai picchiare tre colpi alla tua finestra… sarò io…”

Ella sorpresa stava per domandargli la ragione di tutti quei misteri che non capiva, quando Alberto la interruppe vivamente:

“Zitta! ci osservano!”

E tirò di lungo colla guardinga disinvoltura di un cospiratore di melodramma.

Velleda s’era fermata ad aggiustarsi un nastro, e lo zio Bartolomeo in quell’istante era tutto intento a far vedere ai suoi ospiti che la sera era bellissima.

Alberto afferrò Gemmati per mano, al momento in cui stava per ritirarsi nella sua camera, e lo condusse seco in giardino.

“Stanotte le parlerò!” gli disse all’orecchio con voce soffocata.

Gemmati si fermò a guardarlo sorpreso, e gli rispose dolcemente:

“Perché cotesta pazzia? Non la vedi sempre? Non puoi parlarle quando vuoi?”

“No!… non è la stessa cosa… Tu non mi intendi… non puoi intendermi… non l’ami come io l’amo… L’hai vista? Com’è bella! non è vero?”

“Sí, è un angioletto.”

“Anche la Velleda è bella… forse piú bella… in modo diverso… Tutti lo dicono… e alcune volte, vedendole l’una accanto all’altra, anche io… Ma perché sembrami piú bella l’Adelina?”

“Perché l’ami.”

“E perché devo amar lei e non Velleda, che è bella per lo meno quanto lei?”

“To! perché ella ti ama.”

VII

Il tocco era suonato da un pezzo quando Alberto aprí la sua finestra - ora deliziosa che precedeva il primo appuntamento, ora piena di agitazione voluttuosa e di ansia inesplicabile. La finestra di Adele era chiusa: che fisonomia singolare avea quella finestra buia, e come lo guardava! Egli esitò alcuni istanti, come ogni Cesare che stia per passare un Rubicone; poi saltò sull’erba col cuore di un ladro che scassina per la prima volta un uscio. Il silenzio era profondo, e il giovane non aveva fatto il menomo rumore cadendo sulla punta dei piedi. Le frondi del pergolato stormivano appena. Egli si fermò, inquieto, guardando attorno, coll’orecchio teso, come se i menomi rumori venissero dallo zio che stesse soffiandosi il naso e prendendo tabacco.

Poi si avanzò a passi di lupo fin sotto la finestra della cugina. Trattavasi adesso di picchiare quei tre famosi colpi, promessi quando ci volevano ancora due ore per picchiarli, quando il cuore, sotto gli occhi di lei, picchiava piú forte, e il chiacchierío che regnava nel salotto faceva supporre che non si sarebbero quasi uditi. Tutta la poesia dei romanzeschi convegni, delle scale di seta e 13

dei segnali misteriosi, sfumò dinanzi al timore di udir tossire lo zio Forlani. Sentí di aver paura, e poi cotesta confessione che dovette farsi gli infuse coraggio. Allorché bussò leggermente alla finestra, gli parve di aver destato tutti gli echi della montagna e tutti gli zii del mondo.

Quanti palpiti in quel minuto che la finestra indugiò ad aprirsi! Quanti palpiti allorché l’udí schiudersi pian pianino: con una circospezione che confessava il peccato ad alta voce! Una striscia luminosa si disegnò sull’erba dell’aiuola, e la leggiadra testolina di Adele si mostrò timidamente. Essa tremava un po’; la luna che si era levata tardi, illuminava il muro di contro e riverberava un barlume livido e dolce sul candido viso di lei, che sorrideva con ineffabile imbarazzo, e guardava qua e là, senza osare di fissare gli occhi su di lui. Certamente si erano detto abbastanza; ma il cugino, messo alle strette da quel silenzio eloquente, incominciò:

“Come sei buona, Adele!”

Ella spalancò i suoi occhioni, e domandò con graziosa ingenuità:

“O perché?”

“Perché hai accondisceso…”

“Non me lo domandasti tu?…”

“Sí… ma a quest’ora dormiresti… ed invece io…”

L’Adele fece certo sorrisetto e rispose:

“No, non aveva sonno… Non ho sonno da parecchie notti.”

“Da quando?…”

“Sa che è molto curioso, signor cugino!” gli diss’ella dopo un istante d’esitazione.

Il cugino, senza aprir bocca, la guardò per la prima volta negli occhi coll’amore dell’uomo. Ella abbassò i suoi e non rise piú.

“Sei ben sicuro che dorman tutti?” gli domandò poco dopo, rispondendo senza saperlo a quello sguardo.

“Sí, da piú di un’ora non si vede un sol lume.”

Ella ritirò bruscamente la sua mano. Successe un silenzio che le diede animo e la fece sorridere: “Ebbene” gli domandò “son qua, che cosa devi dirmi?”

“Volevo… desideravo chiederti scusa.”

“Di che?”

“Sono stato cattivo…”

Ella scosse il capo lentamente: “No”.

Alberto avrebbe preferito dei rimproveri, onde aver agio di menare il can per l’aia. Non seppe piú che dire, e rimase imbarazzato.

“Senti l’usignolo?”

“No, è il passero solitario.”

“Che notte deliziosa!”

Ella non rispose.

“A che pensi?”

“A nulla.”

“Non ti senti felice?”

“… Sí!”

“Che ora è?” domandò la fanciulla dopo alcuni istanti, come se si svegliasse.

“Sarà il tocco e mezzo…”

“È tardi, sai!”

“Vuoi andartene?”

“Sí” e non si muoveva.

“Perché hai detto che sei stato cattivo?” gli domandò sorridendo cheta cheta.

“Perché… è inutile adesso che te lo dica… tu mi hai perdonato!” E pose un sospirone per punto.