“Non ne potevo piú!” disse ridendo.

Il povero giovane si sentí tutto sossopra.

“È naturale che tutti le facciano la corte…” balbettò.

“Vorrebbe farmela anche lei?” diss’ella con un accento e un sorriso singolari.

Alberto ammutolí, e a lei il sorriso morí sulle labbra.

Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.

“Com’è bello!” esclamò Alberto.

“È Strauss,” rispose ella distratta.

“O perché non si balla un giro?”

“A proposito della corte?” diss’ella sorridendo.

Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescí assai male.

“Ebbene…” disse “sí!”

“No!” rispose ella col medesimo tono, ma un po’ piú recisamente.

Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva piú capricciosa e piú ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava piú ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.

Essa ballava in modo singolare, un po’ diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidí leggermente.

“Non ballo piú” gli disse “sono stanca.”

La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:

“Che bella coppia!”

Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossí di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.

“Non balli?” domandò il cugino, allorché furono soli.

“Non mi hai invitato a ballare!” rispose Adele timidamente carezzevole.

“Ci son tanti giovanotti…!”

“Non voglio ballare cogli altri…”

“Perché?”

“Perché… perché… perché non voglio.”

20

Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò soprapensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscío di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.

“Non balla il cotillon?…” gli domandò.

“No, contessa.”

Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinío di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica - poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.

“Voglio conoscerla meglio:” gli disse “facciamo un giro.” Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.