“Desidero risparmiarvi tutti i piccoli disturbi della mia lontananza, e vorrei perciò regolare di comune accordo l’amministrazione della vostra dote…” Cecilia non rispose.

“Vi lascerò procura affinché possiate riscuotere da per voi quella somma che crederete…”

“Starete via molto tempo?” interruppe bruscamente la marchesa.

“Non lo so io stesso… e se volete suggerirmi la cifra…”

“Fate voi.”

“Ma io… francamente… dividerei in parti eguali, come fra buoni amici.” Ella, piú pallida del lenzuolo che la copriva, inchinò il capo.

Il marchese si alzò, accese un sigaro alla candela,- e al momento di andarsene aggiunse, colla medesima aria di noncuranza:

“Rimarrebbe ad intenderci sull’educazione di Alberto, nel caso che la mia assenza si prolungasse indefinitamente; ma il meglio, mi pare, è di uniformarci alla prescrizione della legge. Voi vi occuperete di lui sino a’ sette anni; dopo me ne incarico io.” E volgeva diggià le spalle. “Come desiderate che sia educato vostro figlio sino ai sette anni?” domandò la marchesa con voce malferma

Il marito si fermò su due piedi, e parve riflettere un istante “Mah!.. come vorrete…” aggiunse poscia. “Se vi dessi alcun suggerimento vi farei torto. Ed ora perdonatemi il disturbo, e buona notte.”

Cecilia rimase immobile, muta, pallida, cogli occhi fissi; ma nel momento in cui egli stava per passare l’uscio, esclamò, con accento improvviso e soffocato, come se tutto il sangue le fosse corso impetuosamente al cuore: “Sentite!…”. Egli si voltò. “Sentite!…” e le mancavano le parole. “Parlatemi francamente, in nome di Dio!…”

Egli vide le lagrime che luccicavano negli occhi della moglie senza batter ciglio.

Istintivamente ella si arretrò, spaventata dallo sguardo freddo ed incisivo di quell’uomo che 2

sembrava ricercare le angosce orribili di lei sin nelle pieghe piú riposte del suo cuore, per scrutarla con quel viso pallido e glaciale.

“Sembrami d’avervi detto abbastanza. Mi batto con Galli perché ha insultato la marchesa Alberti, e Armandi sarà il mio secondo. Parto per l’estero, vi lascio la metà della vostra rendita, il mio nome, ed il nostro Alberto sino ai sette anni. Ma il mio sigaro vi appesta la camera. Buona notte.”

Egli non si volse, ed ella non disse motto.

Passando dall’anticamera udí scampanellare nelle stanze della marchesa.

II

Il marchesino Alberti fu educato lontano da’ suoi, alla spartana, nel collegio Cicognini. Il padre era morto fuori d’Italia, quasi senza averlo conosciuto. La marchesa, sempre giovane ed elegante, la piú bella toscana che fosse in Milano, andava a fargli visita una volta all’anno, quando c’erano le corse a Firenze, l’abbracciava, l’accarezzava, gli recava dei confetti, e rimontava in carrozza sorridente. Ella era stata colta da una pleurite, all’uscire dalla Scala, ed era morta prima che i suoi amici avessero tempo di far venire il figliuolo da Prato. Il povero orfanello aveva allora dodici anni e conservava religiosamente le poche lettere che il babbo gli aveva scritto, e le scatole dei confetti che la mamma gli aveva regalato. Una volta aveva chinato il capo, tutto vergognoso, allorché il suo amico Gemmati gli aveva detto: “O perché il tuo babbo non vien mai a vederti?”. Un’altra volta avea arrossito perché certi forestieri che visitavano il collegio avevano mostrato di conoscerlo come il figliuolo della marchesa Alberti, e poi aveva arrossito di avere arrossito. Sua madre non gli parlava mai del babbo. Di tutte coteste cose si rammentò piú tardi.

Le prime inquietudini del cuore gettarono nella sua mente il germe funesto dello esame.

A sedici anni Alberto era un giovinetto alto e delicato, coi capelli biondi, il profilo aristocratico, un po’ freddo e duro il pallore marmoreo del padre, e i grandi occhi azzurri, ii sorriso affascinante e mobilissimo della madre - cuore aperto a due battenti, immaginazione vivace, affettuosa, ma inquieta, vagabonda, diremmo nervosa, ingegno piú acuto che penetrante, analitico per inquietudine e per debolezza di carattere - un ingegno che vi sgusciava dalle mani ad ogni istante - diceva il suo professore di filosofia - atto a fargli cercare la decomposizione dell’unità, o a dargli i peggiori guai della vita quando il cuore si fosse mescolato della bisogna.