Entrambi, più anziani di lui, di età indefinibile anche per l’occhio più esperto, uomini di circolo, di cavallo e di spada, ai quali gli esercizi continuati avevano formato un corpo di acciaio, essi si vantavano di essere più giovani, in tutto, dei rammolliti sbarbatelli della nuova generazione.
Rocdiane, di buona famiglia, frequentava tutti i salotti, ma era sospettato di imbrogli finanziari di ogni genere, sposato, separato dalla moglie, che gli passava una rendita, amministratore di banche belghe e portoghesi, portava alteramente, sul suo vigoroso aspetto di don Chisciotte, un onore leggermente appannato di gentiluomo pronto a tutto, che ogni tanto ripuliva con il sangue di una scalfittura in un duello. Il conte di Landa, un colosso buono, fiero della sua statura e delle sue spalle, benché sposato e padre di due figli, si decideva con grande fatica a pranzare in casa tre volte la settimana, e rimaneva al circolo gli altri giorni, con i suoi amici, dopo la seduta in sala d’armi.
«Il circolo è una famiglia,» diceva, «la famiglia di coloro che ancora non ce l’hanno, di coloro che non l’avranno mai, e di coloro che si annoiano nella loro.»
La conversazione, iniziata sul capitolo donne, si svolse da aneddoti a ricordi, e da ricordi a millanterie, sino alle confidenze indiscrete.
Il marchese di Rocdiane lasciava intuire quali fossero le sue amanti con indicazioni precise, donne della buona società di cui non diceva il nome, per farlo meglio indovinare. Il banchiere Liverdy indicava le sue con i loro nomi propri. Raccontava: «Ero, in quel momento, in grande intimità con la moglie di un diplomatico. Ora, una sera lasciandola, le disse: mia piccola Marguerite…» e si fermava in mezzo ai sorrisi, per poi riprendere: «Evvia, mi sono lasciato sfuggire qualche cosa. Si dovrebbe avere l’abitudine di chiamare Sophie tutte le donne.»
Olivier Bertin, molto riservato, era solito dichiarare, quando lo interrogavano:
«Io mi accontento delle modelle.»
Fingevano di credergli, e Landa, un semplice donnaiolo, si esaltava al pensiero di tutti i bellissimi pezzi di ragazze che girano per le strade, e di tutte le altre che si spogliavano davanti al pittore, per dieci franchi all’ora.
Man mano che le bottiglie venivano vuotate, tutti quei grigioni, come li chiamavano i giovani del circolo, tutti quei grigioni, dal viso accaldato, si accendevano, scossi da desideri eccitati e da brame in fermento.
Rocdiane, dopo il caffè, si abbandonava a indiscrezioni più sincere, e dimenticava le dame della società per magnificare le semplici cocottes.
«Parigi,» diceva, con un bicchiere di kummel in mano, «è la sola città dove un uomo non invecchia, la sola dove, a cinquant’anni, purché sia forte e ben conservato, troverà sempre una monella di diciotto anni, bella come un angelo, pronta ad amarlo.»
Landa, ritrovando, nei liquori, il lato di Rocdiane che più amava, lo approvava con entusiasmo, enumerando le ragazzine che lo adoravano ancora tutti i giorni.
Ma Liverdy, più scettico, e che pretendeva di sapere l’esatto valore delle donne, mormorava:
«Sì, lo vengono a dire a voi che vi adorano.»
Landa replicò:
«Me lo provano, mio caro.»
«Quel tipo di prova non conta.»
«Per me è sufficiente.»
Rocdiane gridava:
«Ma lo pensano, perbacco! Credete che una bella straccioncella di vent’anni, che fa già la vita da cinque o sei anni, la vita a Parigi, ove tutti i nostri baffi le hanno insegnato e sviato il gusto dei baci, sappia ancora distinguere un uomo di trent’anni da uno di sessanta? Via dunque! Che sciocchezza! Ne hanno visti e conosciuti troppi! Guardate! Posso scommettere che amano di più, in fondo al cuore, ma veramente di più, un vecchio banchiere che un giovane impomatato. Credete che sappiano, che riflettano su queste cose? Forse che gli uomini hanno un’età qui? Eh! Mio caro noi altri ringiovaniamo, con l’aumentare dei capelli bianchi, e più diventeranno bianchi, più ci diranno che ci amano, più ce lo dimostreranno, e più lo crederemo.»
Si alzarono da tavola congestionati e accesi dall’alcool, pronti a partire per tutte le conquiste, e cominciarono a fare programmi su come occupare la loro serata, Bertin suggeriva il circo, Rocdiane l’ippodromo, Maldant l’Eden e Landa le Folies-Bergère, quando un suono di violini che si accordavano, leggero, lontano, giunse sino a loro.
«Senti! Si fa dunque musica oggi al circolo?» disse Rocdiane.
«Sì,» rispose Bertin, «se ci fermassimo dieci minuti, prima di uscire?»
«Andiamo.»
Attraversarono un salotto, la sala da biliardo, una sala da gioco, poi giunsero in una specie di loggia, che dominava la galleria dei musicisti. Quattro signori, sprofondati nelle poltrone, attendevano già con aria raccolta, mentre in basso, in mezzo alle file di sedie vuote, altri dieci discorrevano, in piedi o seduti.
Il direttore d’orchestra batteva sul leggio, con piccoli colpi, l’archetto: quindi cominciò.
Olivier Bertin adorava la musica, come si adora l’oppio. Lo faceva sognare.
Dal momento in cui il fiotto sonoro degli strumenti lo aveva lambito, si sentiva trascinato come da una specie di esaltazione nervosa, che rendeva il suo corpo e la mente incredibilmente vibranti.
La immaginazione si scatenava pazzamente, inebriata dalle melodie, attraverso dolci fantasticherie e gradevoli digressioni. Con gli occhi chiusi, le gambe incrociate, le braccia abbandonate, ascoltava i suoni e vedeva delle cose passargli davanti agli occhi e nella mente.
L’orchestra suonava una sinfonia di Haydn, e il pittore, appena ebbe abbassato le palpebre, rivide il Bois, la folla di carrozze attorno a lui, e di fronte, nel landau, la contessa e sua figlia. Udiva le loro voci, seguiva le loro parole, sentiva il movimento delle vetture, respirava l’aria piena dell’odore delle foglie.
Tre volte il suo vicino, parlandogli, interruppe quella visione, che per tre volte ricominciò, come ricomincia, dopo una traversata per mare, il rullio del battello nella immobilità del letto.
Poi la visione si distese, si prolungò in un viaggio lontano, con le due donne sempre sedute davanti a lui, ora in treno, ora alla tavola di un albergo straniero. Per tutta la durata dell’esecuzione musicale, esse lo accompagnarono così, come se avessero lasciato durante quella passeggiata nel gran sole, l’immagine dei loro due volti impressa nel fondo dei suoi occhi.
Un silenzio, poi un rumore di sedie smosse e di voci, scacciarono quel sogno vaporoso, ed egli scorse, sonnecchianti attorno a lui, i quattro amici, in pose ingenue di attenzione trasformata in sonno.
Quando li ebbe risvegliati:
«Ebbene?» disse, «che cosa facciamo ora?»
«Io,» rispose con franchezza Rocdiane, «ho voglia di dormire qui ancora un poco.»
«Ed io pure,» rispose Landa.
Bertin si alzò.
«Ebbene, io vado a casa, sono un po’ stanco.»
Si sentiva, al contrario, animatissimo, ma desiderava andarsene per timore di finire la serata nel modo che ben conosceva: attorno al tavolo di baccarà del circolo.
Tornò a casa dunque, e l’indomani, dopo una notte agitata, una di quelle notti che mettono gli artisti in quello stato di attività celebrale chiamato ispirazione, decise di non uscire e di lavorare sino alla sera.
Fu una giornata eccellente, una di quelle giornate di facile produzione, in cui l’idea sembra scendere nelle mani e fissarsi da sé sulla tela.
Con le porte chiuse, separato dal mondo, nella tranquillità del suo palazzo chiuso per tutti, nella quiete amica dello studio, con l’occhio sereno, la mente lucida, sovreccitato, attivo, egli gustò quella felicità, concessa ai soli artisti, quando danno vita alle proprie opere con gioia. Non c’era niente altro per lui, durante quelle ore di lavoro, che il pezzo di tela su cui nasceva un’immagine sotto la carezza dei pennelli, e provava, in quelle crisi di produttività, una sensazione strana e soave di ricchezza, che si eleva e si propaga.
La sera, sfinito come dopo una sana fatica, si coricò col pensiero gradevole della colazione del giorno successivo.
La tavola fu coperta di fiori, il menù molto curato in onore della signora di Guilleroy, raffinata golosa, e, malgrado una resistenza energica, ma breve, il pittore costrinse le sue invitate a bere champagne.
«La piccola si ubriacherà,» diceva la contessa.
La duchessa, indulgente, rispondeva:
«Mio Dio, dovrà pur esserci una prima volta.»
Tutti, ritornando nello studio, si sentivano un poco agitati da quella leggera allegria che solleva come se facesse spuntare le ali ai piedi.
La duchessa e la contessa, poiché avevano una riunione al comitato delle madri francesi, avrebbero dovuto ricondurre la fanciulla a casa prima di recarsi alla società, ma Bertin si offrì di fare un giro a piedi con lei, riportandola poi al boulevard Malesherbes; ed uscirono insieme.
«Prendiamo la strada più lunga,» ella disse.
«Vuoi passeggiare nel Parc Monceau? È un luogo molto piacevole: guarderemo i bimbi e le nutrici.»
«Ma sì, senz’altro.»
Varcarono, dall’avenue Velasquez, il cancello dorato e monumentale che funge da insegna e da entrata a quel gioiello di parco elegante, che apre in piena Parigi la sua grazia artificiale e verdeggiante, in mezzo ad una cornice di palazzi principeschi.
Lungo i larghi viali, che snodano attraverso le aiuole e le rocce la loro curva sapiente, una folla di donne e uomini, seduti su sedie di ferro, guardano sfilare i passanti, mentre nei piccoli sentieri immersi nell’ombra, e serpeggianti come ruscelli, una schiera di fanciulli scava nella sabbia, corre, salta alla corda sotto l’occhio indolente delle balie e sotto lo sguardo apprensivo delle madri. Gli alberi enormi, arrotondati a cupola, quasi monumenti di foglie, i giganteschi ippocastani, dalle spesse fronde punteggiate di grappoli rossi o bianchi, gli aristocratici sicomori, i platani decorativi, dal tronco sapientemente tormentato, adornano con incantevoli prospettive i prati ondulati.
Fa caldo, le tortorelle tubano nel fogliame, e si avvicinano di cima in cima, mentre i passeri si bagnano nell’arcobaleno attraverso cui il sole illumina il pulviscolo acqueo degli zampilli che irrugiada l’erba tenera. Sui piedistalli, le bianche statue sembrano felici in quella verde frescura. Un ragazzo di marmo estrae dal piede una spina introvabile, come se si fosse appena punto, mentre rincorreva la Diana, che fugge laggiù verso il piccolo lago, imprigionato tra i boschetti, dove si cela un tempio in rovina.
Altre statue si abbracciano, innamorate e fredde, sull’orlo delle rocce oppure sognano, con un ginocchio in mano. Una cascata spumeggia e precipita su graziose rocce. Un albero, spezzato come una colonna, è coperto di edera, una tomba porta una iscrizione. I fusti di pietra eretti sulle aiuole ricordano l’Acropoli tanto quanto questo elegante piccolo parco ricorda le foreste selvagge.
È il luogo artificiale e grazioso dove gli abitanti della città vanno a contemplare i fiori coltivati nelle serre, e ad ammirare, come si ammira in teatro lo spettacolo della vita, quell’amabile rappresentazione offerta dalla bella natura in piena Parigi.
Olivier Bertin, da vari anni, veniva quasi ogni giorno in quel suo luogo preferito, per guardare le parigine muoversi nella loro vera cornice. «È un parco fatto per i begli abiti,» diceva, «le persone malvestite vi destano orrore.» E vi gironzolava per ore, conoscendo tutte le piante e tutti gli abituali frequentatori.
Camminava accanto ad Annette, lungo i viali, con l’occhio distratto dalla vita colorita e rumorosa del giardino.
«Oh, che amore!» esclamò Annette.
Stava osservando un bimbo dai riccioli biondi che la guardava con occhi azzurri e un’aria sorpresa e incantata. Poi, passò in rivista tutti i bambini, e il piacere che provava nel vedere quelle bambole viventi, ornate di nastri, la rendeva loquace e comunicativa.
Camminava a piccoli passi, diceva a Bertin le sue impressioni, le sue idee sui piccoli, sulle bambinaie, sulle madri. I bimbi sani le strappavano esclamazioni di gioia, quelli pallidi l’impietosivano.
Egli l’ascoltava, divertito da lei più che dai bimbi stessi, e, senza dimenticarsi di essere pittore, mormorava: «È delizioso!» pensando che avrebbe dovuto fare un quadro squisito, con un angolo del parco e un mazzo di balie, madri e bambini. Come mai non ci aveva pensato?
«Ti piacciono i monelli?» le chiese.
«Li adoro.»
Vedendo come li guardava, comprese che le sarebbe piaciuto prenderli, baciarli, toccarli, un desiderio materiale e tenero da madre futura; e si stupiva di quell’istinto segreto, nascosto in quella carne di donna.
Dato che Annette era disposta a parlare, si informò sui suoi gusti. Essa confessò le sue speranze di successo e di gloria mondana con garbata ingenuità, desiderava dei bei cavalli, che conosceva quasi come un’esperta, poiché l’allevamento occupava una parte della fattoria di Roncières; e non era preoccupata di trovare un fidanzato molto più dell’appartamento che si sarebbe sempre trovato, nella infinità di case da affittare.
Si avvicinavano al lago, dove due cigni e sei anatre nuotavano dolcemente, puliti e calmi come uccelli di porcellana, e passarono davanti a una giovane donna, seduta su una seggiola con un libro aperto sulle ginocchia, gli occhi fissi nel vuoto, e l’anima evidentemente rapita in una fantasticheria.
Non si muoveva più di un ritratto di cera. Brutta, umile, vestita come una ragazza modesta, non interessata a piacere, era forse un’istitutrice, partita per il paese dei sogni, trasportata da una frase o da una parola, che le aveva stregato il cuore. Senza dubbio seguitava, secondo la spinta delle sue speranze, l’avventura incominciata nel libro.
Bertin si fermò sorpreso:
«Che bella cosa,» disse, «andarsene via così!»
Erano passati davanti a lei. Tornarono indietro e ripassarono ancora senza che lei se ne accorgesse, tanto intensamente seguiva il volo lontano del suo pensiero.
Il pittore disse ad Annette:
«Dimmi dunque piccola, ti annoierebbe posare per un ritratto una volta o due?»
«Ma no, al contrario!»
«Guarda bene quella signorina che va passeggiando per l’ideale.»
«Là, su quella sedia?»
«Sì. Ebbene siederai anche tu su una sedia, aprirai un libro sulle ginocchia, e cercherai di fare come lei. Hai sognato, qualche volta ad occhi aperti?»
«Certo.»
«Che cosa?»
Egli cercò di farle rivelare le sue passeggiate nell’azzurro, ma lei non voleva rispondere, si sottraeva alle domande, guardava le anatre nuotare verso il pane gettato da una signora e sembrava imbarazzata, come se egli avesse toccato un suo punto debole.
Poi, per mutare argomento, raccontò la sua vita a Roncières, parlò della nonna, alla quale faceva lunghe letture ad alta voce tutti i giorni, e che doveva essere ora molto sola e triste.
Il pittore, ascoltandola, si sentiva felice come un uccello, felice come non lo era mai stato.
Tutto ciò che gli diceva, tutti i più piccoli, futili e mediocri particolari di quella semplice vita di bambina, lo divertivano e lo interessavano.
«Sediamoci,» disse.
Sedettero vicino all’acqua. E i due cigni vennero a nuotare davanti sperando in qualche cosa da mangiare.
Bertin sentiva risvegliarsi in sé dei ricordi, quei ricordi scomparsi, annegati nell’oblio, e che d’improvviso, non si sa perché, ritornano.
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