La rivelazione della vera Venezia mi apparve, nientemeno, mentre osservavo un abito di cuoio bianco à la française stile Carlo II, il soprabito di cuoio di Francesco Morosini. Non mi ero mai sentita tanto perplessa e annoiata dalla discontinuità del carattere pittoresco di Venezia come quella mattina, e niente di più importante di questo soprabito avrebbe potuto catturare la mia attenzione. Dopo il soprabito veniva colui che l’aveva indossato, un ispido guerriero del XVII secolo per niente dissimile dal Commendatore del Don Giovanni, rappresentato in vari busti e dipinti, tutti con iscrizioni di encomio, tra cataste di armi catturate ai Turchi, moschetti damascati e cannoni, faretre piene di frecce, stendardi con code di crine di cavallo, picche a forma di mezzaluna e splendide scimitarre, l’intero equipaggiamento mortale del vero leggendario Oriente.

Infiniti erano poi i brutti paesaggi, le battaglie e le scene di mare nelle quali qualche artista del tempo aveva ricordato le gesta di Francesco Morosini. Così come avviene quando si è annoiati, cominciai a decifrare, senza uno scopo preciso, le iscrizioni molto abbreviate che le spiegavano. Qui c’era una grandiosa battaglia di mare, con molto fumo e le belle galee color rosa di Morosini (come il modellino esposto nella stessa stanza, con la gagliarda lampada di prua ed il vessillo dorato con il leone) che rastrellavano il mare con file e file di remi rossi. Stavano sconfiggendo i Turchi, nel 1660, nelle acque di Samos e Melos, e catturando «dieci milioni di gallette dopo averne bruciate quasi altrettante che non avrebbero potuto trasportare». Samos! Melos! I nomi mi catturarono la mente e vi si fecero strada: Melos, con la Venere sepolta nelle mura, e Samos, dove Policrate era stato re al tempo di Dario. Provai un improvviso interesse per Morosini, l’ultimo dei capitani veneziani, che fino a quel momento avevo associato solo all’esplosione di un deposito di polvere nel Partenone; Francesco Morosini, Maurocenius più gloriosamente in latino, al quale il senato dell’agonizzante Venezia aveva conferito lo splendido nome di Peloponnesiaco. In realtà penso che ciò che aveva stuzzicato la mia attenzione fosse il contrasto abbastanza assurdo, che faceva pensare al Duca Teseo o alla «classica Notte di Valpurga» di Goethe, tra questo veneziano imparruccato e baffuto del XVII secolo, predatore di gallette e cannoni ai Turchi, e i luoghi evocativi dove tutto ciò era accaduto. Poiché, eccolo, nel 1684, che batte i Turchi presso il fiume Aspro, «già chiamato Anchelous», e nel 1686 che sconfigge il Seraskier «nella Morea, nella terra intorno ad Argos», e che cattura ventisei pezzi di artiglieria e varie munizioni dopo aver conquistato Corinto. Stranissime attività di cui questi luoghi, e gli spiriti che li abitavano, poterono essere testimoni, poiché, dopo aver dato il santo battesimo a «diverse centinaia» (più centinara: mi piace la vaghezza del calcolo di questa conversione all’ingrosso) di prigionieri turchi, ne cattura altri ottocento (presumo senza battezzarli) e «li mette sottocoperta», in altri termini, li costringe a remare incatenati in queste vittoriose galee color rosa della Repubblica. E successivamente cattura altri turchi, «a migliaia, da vendere al prezzo di uno o due reali a testa e non più».

Continuai a ripetere dentro di me quella frase e a ripensare che tutto ciò era accaduto nell’anno del Nostro Signore 1687, vicino ad Argos nella Morea. Pian piano tutto mi si chiarì nella mente e non appena scesi dal vaporetto a San Marco, ebbi la sensazione di aver capito. Poiché Francesco Morosini, Maurocenius Peloponnesiacus avvolto nel soprabito di cuoio, questo (senza dubbio) ultra-glorificato vecchio pirata che catturava gallette e vendeva i prigionieri turchi «a uno o due reali a testa e non più» (lui, con i suoi baffi da mongolo e gli schiavi che remavano nelle galee, non molto diverso da Seraskier che aveva sconfitto), mi aveva svelato Venezia. Ai miei occhi aveva impersonificato per l’ultima volta, in quello sventurato XVII secolo, il genius loci della città morente.

Mi aveva fatto capire che Venezia è Venezia, e che è diversa da ogni altra città rivale del medioevo, poiché, come il Leone sulla colonna, ella guarda all’Oriente. La sua attività è rivolta all’antico mondo ellenico, alle rovine dell’impero di Alessandro, e rappresenta l’ultimo legame con quel mondo. Dopo ciò l’Oriente, l’Oriente dell’antichità classica, non ha più voce. L’ultima parola sulla civiltà dell’antico Mediterraneo fu detta con la costruzione della basilica di San Marco. Poiché San Marco appartiene a Venezia in modo diverso dal Palazzo Ducale: quest’ultimo potrebbe essere stato edificato altrettanto bene a Verona e non potrebbe essere stato costruito prima del XIV secolo, mentre la basilica di San Marco potrebbe essere stata costruita in qualsiasi momento tra il 500 e il 1200; ma, fuori dell’Oriente, avrebbe potuto esserlo solo a Venezia. Si può infatti immaginare la Venezia che la costruì come la città che parlava in greco quando voleva essere raffinata, come la Venezia successiva parlava, o cercava di parlare, in italiano.

Quando tutto questo ebbe un epilogo – e finì con Morosini Peloponnesiacus ed il suo soprabito di cuoio – Venezia cessò di sfruttare la propria posizione geografica in ogni senso; cessò di guardare all’est. La laguna, il grande porto da cui salpare per quello che era stato il mondo alessandrino, non aveva più significato; il lontano Oriente, l’India, la Cina, ecc. non erano più raggiungibili per quella strada, mentre il vicino Oriente dell’Ellade e di Cartagine e di Costantinopoli era morto e sepolto. Da quel momento, nonostante la prolungata indipendenza e i Dogi e i Consigli, Venezia divenne solo una città morta del passato, una città provinciale, differente da quelle dell’entroterra solo per la bellezza e per la singolarità, pronta per gli Austriaci e in attesa di Cook e dei suoi turisti.

Immersa in questi pensieri, mi trovai sulla piazzetta dove le maree autunnali sciabordavano sugli scalini e la verde laguna mostrava i suoi denti ai piedi del Leone di San Marco. Ora lo comprendevo bene, lui truculento, la coda rigida e gli occhi vuoti e terrificanti, pronto a balzare verso l’Oriente. E fu proprio grazie a Morosini ed al suo soprabito di cuoio bianco che ero riuscita a capirlo.

Ghiaccio e carbone

Capita di vedere le insegne di mercanzie apparentemente incongrue sopra i negozi di combustibile a Firenze, nere caverne le cui bocche sono di solito contrassegnate da una sfilza di pigne e da fasci di rami di quercia della famiglia del Quercus Robur, come quelli che Tiziano mise dietro il duca di Urbino. Carbone da legna per cucinare il cibo e ghiaccio per raffreddare le bevande, entrambi doni della stessa zona, che fanno ritornare in mente, a quelli che l’hanno amate, l’amichevole frescura e la solitudine della parte mediana dell’Appennino toscano. Sopra di essa si trovano le brulle cime e le strisce di conifere con le quali le grandi montagne di sabbia, di ardesia e di argilla grigia e rossa si sforzano di imitare le vere Alpi di granito e di ghiaccio, con nevi che inoltre, ancora adesso, sembrano eterne.

Se lo si paragona alle Alpi, l’Appennino toscano sembra appena degno di essere nominato. Le cime non sono molto alte, le valli si stringono in gole create dallo scorrere delle acque e dallo scivolare via della terra lasciando intravedere poche rocce ma abbondante terreno erboso.