Ma la compassione è spesso per il colpevole una visitatrice infruttuosa
CAP XI - Nidia funge da pitonessa
CAP XII - Una vespa si avventura nella tela del ragno
CAPXIII - Sosia consulta l’oracolo. Coloro che accecano se stessi, possono essere raggirati dai ciechi. Due nuovi prigionieri in una notte
CAP XIV - Nidia accosta Caleno
CAP XV - Arbace e Ione. Nidia raggiunge il giardino. Riuscirà a fuggire ed a salvare l’Ateniese?…
CAP XVI - Il rammarico degli allegri compagni per le nostre tribolazioni. Il carcere e le sue vittime
CAP XVII - Una speranza per Glauco
LIBRO QUINTO
CAP I - Il sogno di Arbace. Una visita ed un ammonimento all’Egiziano
CAP II - L'Arena
CAP III - Sallustio e la lettera di Nidia
CAP IV - Ancora l'Arena
CAP V - La cella del prigioniero e la spelonca del morto. Il dolore è inconscio del pericolo
CAP VI - Caleno e Burbo. Diomede e Clodio. La ragazza del Circo e Giulia
CAP VII - Progresso della distruzione
CAP VIII - Arbace incontra Glauco e Ione
CAP IX - Disperazione degli amanti. Situazione della moltitudine
CAP X - L'indomani mattina. Il fato di Nidia
CAP XI - Dove tutto ha termine. Lettera di Glauco a Sallustio dieci anni dopo la distruzione di Pompei
INTRODUZIONE
Non poteva avere frase più bugiarda, a propria epigrafe, questo libro che ha traversato l’Ottocento romantico e il nostro cinico secolo di successo in successo, letto, riletto, tradotto in pellicola, declamato dal visitatore solitario, dalle folle turistiche e dalla mezza cultura pellegrina sulle tracce della più fortunata archeologia della storia. Quid sit futurum cras, fuge quaerere, proponeva Orazio nelle Odi, e ripeteva Edward Bulwer-Lytton cominciando il suo romanzo, il più famoso di una alluvionale produzione, più di cento volumi, tanti da fare una biblioteca in bilico fra storia, fantasia, fogliettone, lacrime, erudizione, amore ed esortazione morale.
Prima che Pompei morisse, una morte già preannunciata in cortometraggio sedici anni addietro con un terremoto prodigo di danni e di paura, e dopo Pompei sulle mura di ogni piccola Gerusalemme cresciuta accanto al cuore di uomini e popoli famosi e sconosciuti, sono duemila anni e più che folle e preti solitari, profeti e politicanti, vestali, rabbini, monaci disubbidiscono ad Orazio e si chiedono ogni giorno quid sit futurum cras, che cosa sarà domani. Pompei viveva sotto un vulcano, morì sotto un vulcano, morì di vulcano, come molte città di mare, nella storia, morirono d’acqua, eruzioni e maremoti si assomigliano, vengono spesso dalla stessa causa, lasciano gli stessi segni di eccezionalità, di grandiosa rappresentazione della fine. Metaforicamente, questi mille e novecento anni che ci separano da Pompei sono stati vissuti un po’ dovunque sotto il vulcano.
Il senso della precaria esistenza, del cambiamento, correva attraverso tutta la cultura romana a cavallo fra l’era pagana e quella cristiana. Davvero, come sentiva Virgilio, «anche la terra e le acque del mare offrivano segni». I segni del tempo erano scritti in cielo per chi conosceva lo zodiaco, erano scritti nella storia per chi conosceva le leggi lente e sottili di un potere destinato a slittare verso Oriente, come Dio da credere e come uomini cui obbedire. Il vulcano che inchioda Pompei alla sua ultima vita e la trasferisce, avvolta nella cenere e nella lava, alla facile commozione di chi può vedersi un flashback di esistenza quasi romana come davanti al televisore, ha le caratteristiche essenziali di ogni apocalisse, il cielo si arrotola su se stesso, le stelle cadono come frutta matura da un albero. Sotto la pelle dei pensieri, il serpente è archetipo di ogni male, il vulcano, i suoi boati, le sue lingue di fuoco, la sua implacabile processione di lava e di lapilli sono archetipo della paura di finire, senza nuovo principio.
Soltanto i licheni, amati da ben altre, avare e grandi penne poetiche che quella prolifica di Bulwer-Lytton, rinascono sul ghiaccio di pietra che copre, conclusa l’eruzione, l’opera viva della natura e degli uomini.
Si può andare a Pompei, e fermarsi dove la storia si è fermata. Gli scavi offrono all’uomo moderno The Day After girato non da un regista antinucleare ma dal Vesuvio in prima persona, svegliatosi dopo mille e cinquecento anni di sonno, e poi addormentatosi di nuovo speriamo per altri diecimila. Si può anche rileggere a Pompei questo romanzo così dichiaratamente romanzo, nonostante il suo anglosassone orgoglio di esatta ricostruzione cronologico-ambientale. Si possono fare di queste pagine molte letture, partecipate, ironiche, ingenue, scettiche, metaforiche, si possono confrontare le varie occasioni nelle quali la nostra cultura, pur fornita di tanti strumenti documentari, ha frainteso i modi di vivere e di morire di un’altra cultura lontana da noi, e ne ha fatto un grande Kitch.
Bulwer-Lytton ci dà gli amori, gli eccessi, i sospiri della Pompei che la sua epoca e i suoi lettori volevano che fossero esistiti. Ogni cosa è diretta a creare la trama che ci si aspettava facesse da esemplare memoria di una città scomparsa nel giro di poche ore, all’alba del 24 agosto dell’anno 79 dopo Cristo. Scritti oggi, Gli ultimi giorni di Pompei avrebbero certamente altri protagonisti, altri intrecci, altri vizi ed altre virtù. Chiunque parli di Pompei, chiunque in qualche modo prenda questa città a sfondo o a materia della propria meditazione, non si può sottrarre però all’efficacia simbolica che quell’avvenimento storico custodisce, e alla eco misteriosa trasferita a noi dagli storici contemporanei e dagli archeologi moderni. Gli egizi imbalsamavano i defunti degni di memoria, il Vesuvio imbalsamò un’intera comunità. Fotografare la morte, quasi prima che essa si dichiari, sorprenderla nelle sue movenze, può anche essere antico segno di spirituale voyeurismo. Bulwer-Lytton doveva conoscere i cultori di questa inclinazione se a chi avesse voglia di altre traduzioni e di altre riedizioni lasciò alcuni romanzi in qualche modo ispirati all’occultismo e all’astrologia. Non poteva trattarsi però di astrologia maggiore, di quella regale arte figlia di Babilonia che per millenni offrì certezze, e non ambigui romantici presagi, agli uomini che navigando nel mare della vita cercavano punti di riferimento per il proprio presente, per il proprio passato e per il proprio futuro.
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