E questo evidentemente rispondeva con rapidità, poiché Fritz già richiamava. Ciò che riferì fu però molto breve, visto che Schwarzer buttò subito giù il ricevitore, furibondo: «L'avevo detto io!», esclamò. «Altro che agrimensore! Un volgare impostore, un vagabondo, magari anche di peggio». Per un istante K. pensò che tutti, Schwarzer, i contadini, l'oste e l'ostessa si sarebbero precipitati su di lui. Per schivare almeno il primo assalto si rannicchiò tutto sotto le coperte. A quel punto il telefono squillò di nuovo, e particolarmente forte, così sembrò a K. Pian piano egli rimise fuori la testa. Sebbene fosse improbabile che la chiamata riguardasse ancora K., tutti si bloccarono e Schwarzer tornò all'apparecchio. Ascoltò una spiegazione piuttosto lunga, poi disse sottovoce: «Un errore, quindi? Molto seccante per me. Ha telefonato il capufficio in persona? Strano, strano. Come lo spiego adesso al signor agrimensore?».

K. tese l'orecchio. Dunque il castello lo aveva nominato agrimensore. Da una parte questo era un male per lui, perché dimostrava che al castello sapevano di lui tutto il necessario, che avevano soppesato il rapporto di forze e che accettavano la lotta sorridendo. Ma dall'altra era anche un bene perché a suo avviso provava che lo sottovalutavano e che egli avrebbe avuto più libertà di quanto gli fosse stato lecito sperare a tutta prima. E se con questo riconoscimento della sua qualifica di agrimensore - che certo li poneva moralmente al di sopra di lui - credevano di poterlo mantenere in uno stato di continuo timore, si sbagliavano; un lieve brivido lo percorse, ma fu tutto.

A Schwarzer che gli si stava timidamente avvicinando K. fece gesto di andarsene; rifiutò l'insistente invito a trasferirsi nella stanza dell'oste, accettò da questi solo una bevanda per conciliare il sonno e dall'ostessa un catino con sapone e asciugamano, e non dovette nemmeno chiedere che sgomberassero la sala, perché tutti si accalcavano all'uscita voltando la faccia dall'altra parte per non essere riconosciuti da lui l'indomani. La lampada fu spenta e finalmente egli ebbe pace. Dormì profondamente fino al mattino, appena disturbato un paio di volte dalle scorribande dei topi.

Dopo la colazione che secondo l'oste doveva essere pagata dal castello, come del resto tutti i suoi pasti, K. volle recarsi subito in paese. Ma poiché l'oste, con il quale aveva scambiato solo le parole necessarie, memore del comportamento da lui tenuto la sera innanzi, non smetteva di girargli intorno in atto di muta supplica, ebbe compassione di lui e lo fece sedere un momento accanto a sé.

«Non conosco ancora il conte», disse K., «pare che un buon lavoro lo paghi bene, vero? Se già uno si mette in viaggio lasciando moglie e figlio, come ho fatto io, vuol pure tornare con qualcosa in tasca».

«Se è per questo il signore non ha da preoccuparsi, nessuno si lamenta di essere mal pagato». «Be'», disse K., «io non mi ritengo un timido e so dire come la penso anche a un conte, ma certo con i signori è molto meglio trovare un accordo pacifico».

L'oste sedeva di fronte a K. sul bordo del davanzale della finestra, più comodo non osava mettersi, e non staccava da lui i grandi occhi bruni spauriti. Dapprima si era avvicinato a K., ora sembrava avere una gran voglia di svignarsela. Temeva che gli venissero rivolte domande a proposito del conte? Temeva che di quel «signore», che tale egli riteneva K., non ci fosse da fidarsi? Bisognava distoglierlo da questi pensieri. K. guardò l'orologio e disse: «Fra poco arriveranno i miei aiutanti, puoi alloggiarli qui?».

«Certo, signore», disse l'oste, «ma non abiteranno con te al castello?».

Com'era pronto a rinunciare a dei clienti, e a K. in particolare, che spediva senz'altro al castello.

«Non è ancora certo», disse K., «prima devo vedere che lavoro mi riservano. Dovessi lavorare giù in paese, per esempio, sarebbe più sensato alloggiare qui.