diede un buffetto sulla guancia all'oste per consolarlo e cattivarsi la sua simpatia. L'oste abbozzò finalmente un sorriso. Era davvero un ragazzo, con quel viso morbido, quasi imberbe. Com'era potuto finire con quella matura donnona che da un finestrino lì accanto si vedeva trafficare in cucina, con i gomiti sollevati dal corpo? Ma ora K. non voleva insistere con le domande, per paura di far sparire il sorriso che finalmente gli aveva strappato. Si limitò quindi a fargli cenno di aprirgli la porta e uscì nella bella mattinata invernale.
Ora vedeva, là in alto, il castello ben stagliato nell'aria limpida e messo ancor più in risalto dalla neve che, depositata in strato sottile, ne delineava le forme. Sembrava d'altronde che sul colle ci fosse molta meno neve che lì in paese, dove K. avanzava non meno faticosamente del giorno prima, sulla strada maestra. Qui la neve arrivava alle finestre delle casupole e poco sopra gravava sui bassi tetti, ma lassù sul colle tutto s'innalzava libero e leggero, o almeno questa era l'impressione che se ne aveva dal paese.
Nell'insieme il castello corrispondeva, visto da lontano, alle aspettative di K. Non era né una vecchia fortezza né una residenza sontuosa d'epoca recente, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e da molti, invece, bassi e serrati l'uno all'altro; se non si fosse saputo che era un castello, lo si sarebbe potuto prendere per un borgo. K. vide solo una torre, ma non si distingueva se appartenesse a una casa o a una chiesa. Stormi di corvi le volavano attorno.
K. proseguì il cammino con gli occhi rivolti al castello, senza badare ad altro. Ma avvicinandosi rimase deluso, il castello non era che un misero paese, un insieme di casupole senza nessuna caratteristica tranne quella, forse, di essere tutte costruite in pietra; ma l'intonaco si era staccato da un pezzo e la pietra pareva sgretolarsi. K. ebbe un ricordo fuggevole del suo paese natale; non aveva molto da invidiare a quel cosiddetto castello. Se K. fosse venuto fin lì solo per vederlo, il lungo viaggio sarebbe stato fatica sprecata e avrebbe fatto meglio a tornare ancora una volta al suo vecchio paese che da tanto tempo non aveva più rivisto.
E mentalmente ne confrontò il campanile con quella torre lassù. Il campanile si ergeva senza esitazioni, rastremato in alto, fino a un largo tetto coperto di tegole rosse, un edificio terreno, certo - che altro potremmo edificare noi? - ma con una meta più elevata rispetto all'amalgama di case basse e con un'espressione più luminosa di quella dell'opaca giornata di lavoro. Questa torre - era l'unica che si vedesse -, chiaramente la torre di un'abitazione, forse del corpo principale del castello, era una costruzione tonda e uniforme, in parte pietosamente ricoperta dall'edera, con piccole finestre che ora luccicavano al sole - tutto questo aveva un che di folle - e terminava in una specie di terrazza, i cui merli, incerti, irregolari, diroccati, come disegnati da mano infantile timorosa o trasandata, si stagliavano contro il cielo azzurro. Era come se un tetro abitante costretto per giuste ragioni a restarsene chiuso nella stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e fosse sorto per mostrarsi al mondo.
K. si arrestò di nuovo, come se stando fermo potesse giudicare meglio. Ma fu disturbato. Dietro la chiesa del paese presso la quale si era fermato - in realtà non era che una cappella, ampliata a forma di granaio per poter accogliere i fedeli - c'era la scuola. Era un edificio basso e lungo, che univa curiosamente il carattere del provvisorio e del molto vecchio, situato in fondo a un giardino cinto da una cancellata, che adesso era solo un campo di neve. I bambini uscivano in quel momento con il maestro. Lo attorniavano in gruppo compatto, tutti gli occhi erano puntati su di lui, le loro chiacchiere s'incrociavano senza posa, parlavano così in fretta che K. non capiva nulla. Il maestro, un giovane di bassa statura, stretto di spalle, con un portamento eretto, ma non tanto da essere ridicolo, aveva adocchiato K.
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