Faceva colle braccia movimenti ginnastici. Ne trassi cattivo augurio pel nostro accordo.

“Queste seggiole sono troppo dure,” mi disse, come per scusarsi di stare in piedi.

Portava un abito di “foulard”, che s’era sgualcito da quando s’era seduta. Non potei fare a meno di immaginare i disegni che gl’intrecci delle sedie imprimono sulla pelle.

“Andiamo, accompagnatemi nei negozi, giacché siete deciso a non andare a scuola,” disse Marta, facendo per la prima volta allusione a quello che trascuravo per lei.

L’accompagnai in molti negozi di biancheria, impedendole di ordinare quello che piaceva a lei e non a me; evitando per esempio il rosa, che mi dà ai nervi, e che era il suo colore preferito.

Dopo quelle prime vittorie, dovevo ottenere da Marta che non andasse a colazione dai suoceri. Non pensando che potesse mentir con loro per il semplice piacere di restare con me, cercai qualcosa che la inducesse a imitarmi nel saltare la scuola. Moriva dalla voglia di vedere un bar americano. Non aveva mai osato chiedere al fidanzato di esservi condotta. Del resto egli ignorava i bar. Avevo trovato il pretesto.

Dal suo rifiuto, pieno di una vera delusione, pensai che sarebbe venuta. In capo a mezz’ora, avendo tentato tutto per convincerla, non insistevo neppure più, e l’accompagnavo dai suoceri nello stato d’animo di un condannato a morte che spera fino all’ultimo minuto che si produrrà un colpo di mano sulla strada del supplizio. Vedevo avvicinarsi la strada senza che niente avvenisse. Ma, all’improvviso, Marta, battendo sul vetro, fermò il conducente del tassì dinanzi a un ufficio postale.

Mi disse:

“Aspettatemi un momento. Vado a telefonare a mia suocera che mi trovo in un quartiere troppo lontano per arrivare in tempo.”

In capo a qualche minuto, non reggendo più dall’impazienza, vidi una fioraia e scelsi a una a una delle rose rosse, di cui feci un mazzo.

Non pensavo tanto al piacere di Marta quanto alla necessità di mentire in cui si sarebbe ancora trovata la sera per spiegare ai genitori donde provenivano quelle rose. Il nostro progetto, che datava dal primo incontro, di andar a una accademia di disegno; la menzogna del telefono che avrebbe ripetuto, la sera, ai genitori, menzogna a cui si sarebbe aggiunta quella delle rose, erano per me favori più dolci di un bacio. Perché avevo spesso baciato labbra di ragazzine, e non ci avevo provato gran piacere; dimenticavo, ora, che era perché non le amavo, e desideravo poco le labbra di Marta, mentre una tale complicità m’era restata fino a quel giorno sconosciuta.

Marta usciva dalla posta, raggiante, dopo la prima menzogna. Diedi al conducente l’indirizzo d’un bar in via Daunou.

Essa andava in estasi, come una collegiale, per la giacca bianca del barman, la grazia con cui scoteva i bicchieri d’argento, i nomi bizzarri o poetici dei miscugli. Fiutava di tanto in tanto le sue rose rosse di cui si prometteva di fare un acquerello, che mi avrebbe dato per ricordo di quella giornata. Le chiesi di farmi vedere una fotografia del fidanzato. Lo trovai bello. Sentendo già quale importanza dava alle mie opinioni, spinsi l’ipocrisia fino a dirle che era molto bello, ma con aria poco convinta, perché pensasse che lo dicevo per cortesia. Questo, secondo me, doveva gettare il turbamento nell’animo di Marta, e, inoltre, attirarmi la sua riconoscenza.