Ché tutto a lui pareva nuovo e bello, ciò che vi aveva visto, e nuovo e bello credeva avesse a parere agli uditori. La parola “bello” e “grande” ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconoscere la cosa. Diceva che le navi erano nere, che avevano dipinta la prora, che galleggiavano perché ben bilanciate, che avevano belli attrezzi, bei banchi; che il mare era di tanti colori, che si moveva sempre, che era salato, che era spumeggiante. I guerrieri? Portavano i capelli lunghi. I loro caschi? Avevano creste che si movevano al passo. Le loro aste?
Facevano una lunga ombra. Per non essere frainteso ripeteva il medesimo pensiero con altra forma: diceva “un pochino, mica tanto!”, “vivere, mica morire!”, e anche “parlò e disse”, “si adunarono e furono tutti in un luogo”.
Non mancava di quelle spiegazioni che chiudono la bocca: “ubbidite, perché ubbidire…è meglio” “solo devo rimanermene senza dono? Non sta bene”. La chiarezza non è mai troppa: “I pulcini erano otto, e nove con la madre, che aveva fatti i pulcini”, “Aias, quello più piccolo, non grande come l’altro, ma molto più piccolo: era piccino…”. Qualche volta riusciva sublime, ma senza farlo apposta: saltava qualche circostanza, per giungere a ciò che importava più e che era più sensibile. Un divino arciere tirava l’arco “e per tutto si vedevano cataste accese per bruciare i morti”. Il dio supremo mosse il sopracciglio e scosse i capelli, “e scrollò l’Olimpo che è così grande”. Sopra tutto, per far capire tutto il suo pensiero, in qualche fatto o spettacolo più nuovo e strano, s’ingegnava con paragoni tolti da ciò che esso e i suoi uditori avevano più sott’occhio o nell’orecchio. E in ciò teneva due modi contrari: ora ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno grande, ora uno maggiore per farne vedere uno minore. Così rappresentava un mare agitato che con le grosse onde spumeggianti si getta contro la spiaggia, e strepita e tuona, per dar l’idea d’una moltitudine d’uomini che accorre in un luogo; e descriveva uno sciame di mosche intorno ai secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il confuso e vasto agglomerarsi d’un esercito di guerrieri.
Questo era il suo solo artifizio, se pure si può chiamare artifizio ciò ch’egli faceva così ingenuamente che spesso la cosa, mediante il suo paragone, riusciva più piccola, sebbene sempre paresse più chiara; come quando confrontava il fluido parlare di alcuni vecchi savi all’incessante frinire delle cicale, o la resistenza d’un grande eroe all’indifferenza d’un asino che seguita a empirsi d’erba nel prato donde i bimbi vogliono cacciarlo a suon di bastonate. No no: il fanciullino del cieco non tanto voleva farsi onore, quanto farsi capire: non esagerava; perché i fatti che raccontava, gli parevano già assai mirabili così come erano. Ed egli sapeva, né per altro argomento se non perché parevano anche a lui, che Giovanni Pascoli
mirabili dovevano parere anche agli altri bambini come lui, che erano nell’anima di tutti i suoi uditori. I quali ora come allora lo ascoltano con maraviglia. E non sarebbe ragionevole, di cose che dopo trenta secoli non si credono più verosimili. Ma dopo pur trenta secoli gli uomini non nascono di trent’anni, e anche dopo i trent’anni restano per qualche parte fanciulli.
III.
Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. Egli non avrebbe dentro sé quel seno concavo da cui risonare le voci degli altri uomini; e nulla dell’anima sua giungerebbe all’anima dei suoi vicini. Egli non sarebbe unito all’umanità se non per le catene della legge, le quali o squassasse gravi o portasse leggiere, come uno schiavo o ribelle per la novità o indifferente per la consuetudine.
Perché non gli uomini si sentono fratelli tra loro, essi che crescono diversi e diversamente si armano, ma tutti si armano, per la battaglia della vita; sì i fanciulli che sono in loro, i quali, per ogni poco d’agio e di tregua che sia data, si corrono incontro, e si abbracciano e giocano.
Eppure è chi dice che veramente di generi umani ve ne ha due, e non si scorge che siano due, e che l’uno attraversa l’altro, sempre diviso ma sempre indistinto, come una corrente dolce il mare amaro. Vivono persino nelle stessa famiglia, sotto gli occhi della stessa madre, e vivono in apparenza la stessa vita germinata da uguale seme in unico solco; e questi sono stranieri a quelli, non d’un solo tratto di cielo e di terra, ma di tutta l’umanità e di tutta la natura. Essi si chiamano per nome e non si conoscono né si conosceranno mai. Ora se questo è vero, non può avvenire se non per una causa: che gli uni hanno dentro sé l’eterno fanciullo, e gli altri no, infelici!
Ma io non amo credere a tanta infelicità.
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