La sua indole riprendeva il sopravvento. Partito il “gentleman”, a Fix era subito apparsa imperdonabile la stoltezza di averlo lasciato allontanare. E l’accanito poliziotto ora si accusava, s’incriminava, faceva contro se stesso la parte che il direttore della Polizia di Londra soleva fare quando strapazzava qualche agente resosi responsabile del reato d’ingenuità. «Sono stato uno sciocco!» - si ripeteva mille volte Fix. «Il servo gli avrà detto chi sono. E ora il furfante si è eclissato! Non ritornerà più di certo, e chi lo ripesca è bravo!... Ma come ho potuto lasciarmi incantare così: io, Fix, che ho in tasca il suo mandato di cattura?! Decisamente, sono una gran bestia!».
Le ore trascorrevano con una esasperante lentezza per lo sfortunato “detective” il quale non sapeva proprio quale risoluzione prendere. A volte gli veniva voglia di dire tutto alla signora Auda; ma comprendeva come sarebbe stato accolto dalla giovane signora. Mettersi piuttosto a vagare per l’interminabile prateria alla caccia di Fogg? Per un istante gli parve che forse sarebbe stato possibile rintracciarlo: le orme della pattuglia erano ancora impresse sul terreno nevoso.
Ma di lì a poco, sotto un nuovo strato di neve accumulatasi, ogni impronta era stata cancellata. Allora lo scoraggiamento assalì Fix. Egli provò una irresistibile voglia d’abbandonare per sempre quell’impresa così feconda di fiaschi.
E l’occasione di levare le tende dalla stazioncina di Kearney, ben presto gli si presentò.
Verso le due del pomeriggio, mentre la neve seguitava a cadere fitta, si udì un fischio prolungato che veniva da est. Un’enorme ombra preceduta da una luce rossastra avanzava adagio, ingrandita dalla nebbia che le dava un aspetto fantastico. Eppure non s’aspettava nessun treno che dovesse giungere da quella parte. I soccorsi, chiesti per telegrafo ad Omaha, non potevano arrivare così presto, e il diretto da Omaha a San Francisco non sarebbe passato che il giorno dopo.
Presto il mistero ebbe la sua spiegazione. La locomotiva che avanzava a piccolo vapore, sbuffando e fischiando, era quella che, dopo essere stata disgiunta dal resto del convoglio, aveva continuato la sua strada portando il fuochista e il macchinista svenuti. Essi avevano ripreso i sensi quando già la macchina, percorse alcune miglia, aveva cominciato a rallentare per la mancanza di combustibile e stava per fermarsi in piena prateria. Vistosi in quel deserto, con la sola locomotiva, il macchinista aveva capito press’a poco quel che doveva essere accaduto. In che modo la macchina fosse stata sganciata dal resto del convoglio, il brav’uomo non avrebbe mai potuto indovinarlo, ma per lui restava fuori dubbio che il treno doveva essere rimasto indietro, in balia dei Sioux. Il macchinista non esitò un attimo su ciò che avrebbe dovuto fare. Se continuava la strada in direzione di Omaha si sarebbe dimostrato prudente; il dovere viceversa gli imponeva di ritornare là dove il treno con i viaggiatori si trovava certo in grave pericolo. Palate di carbone furono gettate nel fornello della macchina. Il fuoco si ravvivò; la pressione del vapore tornò a salire. Verso le due dopo mezzogiorno la locomotiva giungeva a Kearney. Con immensa soddisfazione dei viaggiatori, la macchina si pose subito in testa al treno: entro breve tempo si sarebbe ripreso il viaggio tanto tragicamente interrotto.
La signora Auda s’era avvicinata al conducente.
Partite? - chiese preoccupatissima.
All’istante, signora.
Ma... quei prigionieri? Quei nostri sventurati compagni?...
Io non posso interrompere il mio servizio - rispose il macchinista.
Abbiamo già tre ore di ritardo.
E quando passerà un altro treno proveniente da San Francisco?
Domani sera, signora.
La signora Auda sospirò:
Domani sera!... Sarà troppo tardi... Non potreste proprio aspettare?
Mi spiace: vi ho spiegato che è impossibile. Signora, se volete partire, affrettatevi a salire anche voi.
Non partirò - rispose la giovane indiana.
Il “detective” aveva assistito a quel dialogo. Pochi minuti prima, quando ogni mezzo di locomozione gli faceva difetto, egli era deciso a lasciare Kearney; ed ora che il treno si trovava lì pronto a partire, e che a lui, Fix, non restava se non occupare il proprio posto nello scompartimento, una inspiegabile forza lo incatenava al suolo. Quella banchina della stazione gli scottava sotto i piedi; eppure egli non riusciva a staccarsene. Lo spirito di lotta ad oltranza si riaccendeva in lui; la collera dell’insuccesso lo soffocava. Fix voleva restare sulla breccia, compiere la propria missione fino all’estremo.
Intanto i feriti - fra i quali il colonnello Proctor, il cui stato si manteneva assai grave - erano stati trasportati nei vagoni. Si sentiva il ronzio della caldaia surriscaldata e il sibilo del vapore che si sprigionava dalle valvole.
La locomotiva fischiò. Il treno si mise in marcia e scomparve rapidamente fra il turbinio bianco della neve. Fix era rimasto.
La neve cadde meno abbondante durante la notte: una notte immensa e buia che avvolgeva di silenzio la pianura. Non un grido d’uccello, non una pesta di belva.
La pattuglia partita alla ricerca degli scomparsi non tornava. La signora Auda, con la mente piena di presentimenti sinistri e con il cuore in angoscia, errò sul limitare della prateria, tendendo l’orecchio, cercando di spingere lo sguardo il più lontano possibile fra la nebbia ed il nevischio. Tremante, intirizzita, ogni tanto tornava nella sala d’aspetto della stazioncina dove era accesa una discreta stufa e dove Fix, seduto su una panca, stava immobile senza chiudere occhio.
Nel cuore della notte un uomo avvolto in un tabarro impellicciato si era avvicinato al “detective” e gli aveva detto qualcosa a mezza voce. Fix lo aveva rimandato, rispondendogli con un cenno di diniego. All’alba il disco scialbo del sole si alzò sopra un orizzonte di nebbia. Tuttavia verso il sud c’era un po’ di schiarita, e si poteva distinguere a qualche miglio di distanza. Dovunque appariva un assoluto deserto.
Il capitano della guarnigione si mostrava impensierito, inquieto. Capiva che ormai bisognava prendere una decisione: spedire un secondo distaccamento in soccorso del primo. Ma il vecchio soldato esitava. «Sacrificare nuovi uomini, con così scarsa probabilità di salvare gli altri che forse a quest’ora saranno già rimasti uccisi?...». L’esitazione del capitano non durò tuttavia a lungo. Improvvisamente egli si scosse come da un incubo e chiamò con un gesto uno dei suoi subalterni.
Bisogna spingere una ricognizione verso sud - disse brevemente. - Venti uomini ai miei ordini. Si parte subito. Echeggiarono secchi in quell’istante alcuni spari.
Un segnale?!
Il capitano e il subalterno si precipitarono fuori. A un mezzo miglio si distingueva un drappello che avanzava di buon passo.
I nostri che tornano!
L’annuncio mise l’esultanza nel cuore della signora Auda e di Fix; e ognuno corse incontro ai sopraggiungenti. Phileas Fogg veniva in testa al drappello. Vicino a lui erano il suo domestico e i due altri viaggiatori strappati alle mani dei Sioux. C’era stato un combattimento, dieci miglia a sud di Kearney. Pochi minuti prima dell’arrivo della pattuglia, Passepartout e i suoi due compagni di sventura stavano già lottando contro gli Indiani che se li erano trascinati come preda. Il francese ne aveva accoppati due a furia di pugni: a quel punto, il suo padrone e i soldati erano giunti in soccorso.
Alla stazioncina di Kearney, salvatori e salvati furono accolti con grida di giubilo. La signora Auda serrò la mano del “gentleman” nella propria senza poter dire parola.
Phileas Fogg distribuì ai soldati il premio che aveva promesso, mentre Passepartout, commosso, guardava sorridendo e pensava in cuor suo:
«Bisogna confessare che costo un po’ caruccio al mio padrone!».
In disparte, Fix osservava anch’egli la scena, muto, quasi accigliato. Sarebbe stato difficile analizzare le impressioni che lottavano nel suo animo.
Intanto Passepartout si era dato subito a cercare il treno in stazione: aveva creduto di trovarlo lì pronto sui binari.
Il treno? Il treno?! - andava gridando.
Partito - rispose Fix.
Il treno successivo quando passa? - domandò Phileas Fogg.
Non prima di stasera.
Ah! - L’impassibile “gentleman” non aggiunse altro. passo.
31.
L’ISPETTORE FIX PRENDE MOLTO SUL SERIO GLI INTERESSI DI PHILEAS FOGG.
Phileas Fogg si trovava ormai in ritardo di venti ore. Passepartout, causa involontaria di quell’imbroglio, era letteralmente disperato.
Ho rovinato il mio padrone! - gemeva torcendosi le mani.
In quel momento il “detective” si avvicinò al signor Fogg, e fissandolo bene in faccia gli disse:
Avete fretta proprio sul serio, signore?
Proprio sul serio - rispose Phileas Fogg.
Insisto: avete realmente interesse di giungere a New York prima delle nove di sera, per essere in tempo alla partenza del piroscafo che va a Liverpool?
Sì, un interesse massimo.
Allora: se il vostro viaggio non fosse stato interrotto da questo attacco degli Indiani, sareste giunto a New York l’11 mattina vero?
Sì, con dodici ore d’anticipo sul piroscafo.
Avete perciò venti ore di ritardo. Fra venti e dodici, la differenza è otto. Sono otto ore da riguadagnare. Volete tentare di farlo?
A piedi? - domandò Phileas Fogg.
No. In slitta a vela. Un tale mi ha offerto questo mezzo di trasporto. Posso indicarvi l’uomo: eccolo là che passeggia sulla banchina.
Si trattava dell’individuo che durante la notte si era avvicinato a dire qualcosa all’orecchio di Fix di cui questi aveva rifiutato l’offerta. Phileas Fogg non rispose al “detective”. Ma poco dopo si avvicinò all’uomo intabarrato, il quale continuava ad andare su e giù davanti alla stazione. I due barattarono poche parole. Poi Phileas Fogg seguì lo sconosciuto.
Insieme raggiunsero una capanna costruita ai piedi di Forte Kearney. Colà l’americano, che aveva nome Mudge, mostrò al “gentleman” un curioso veicolo. Era una slitta vera e propria, in grado di trasportare cinque o sei persone, ma attrezzata di albero e di vele come un “cutter” da corsa. L’albero si rizzava, diciamo così, a prua, ed era sostenuto da solide sartie metalliche; portava una larga randa e tendeva uno straglio, pure di acciaio, che serviva a manovrare la vela di fiocco. A poppa c’era il timone.
D’inverno sulle praterie d’America, quando i treni restano bloccati dalla neve, queste slitte a vela si rendono utilissime permettendo di tragittare da una stazione all’altra assai rapidamente. Con il vento in poppa scivolano sulla piana gelata alla velocità d’un diretto: vere imbarcazioni di terra che hanno anche il vantaggio di non capovolgersi, tanto sono ben equilibrate.
Vi piace la mia slitta? - chiese Mudge al “gentleman”.
Si potrebbe concludere senz’altro il noleggio, se mi date buona speranza che si arrivi ad Omaha in meno di cinque ore.
Posso darvene assicurazione: se il vento si mantiene dall’ovest gagliardo come soffia ora. Il tempo è buono e la neve è dura. Viaggeremo magnificamente.
Phileas Fogg rifletté un attimo.
«Ad Omaha», pensava, «sono frequenti i treni e numerosissime le linee d’allacciamento con Chicago e con New York. Non è improbabile che il ritardo possa venire praticamente annullato». E concluse ad alta voce:
Tentiamo l’avventura!
Non volendo esporre la signora Auda ai disagi d’un viaggio allo scoperto, col gran freddo che faceva e che sarebbe stato reso ancora più insopportabile dalla velocità della corsa, Phileas Fogg propose alla sua gentile compagna di rimanere a Kearney in custodia di Passepartout. Questi si sarebbe preso la responsabilità di condurla in Europa per una via più comoda e con mezzi più sicuri. Ma la signora Auda rifiutò di separarsi dal signor Fogg. Ne fu felicissimo Passepartout, il quale per nulla al mondo avrebbe voluto lasciare il suo padrone, dal momento che Fix era ancora lì a tallonarlo.
Ciò che intanto pensava il “detective” in quella circostanza, era alquanto diverso dalle sue opinioni d’un tempo. Il ritorno del “gentleman” aveva portato come una scossa alla feroce ostinazione di Fix nel volerlo reputare un mariuolo di prima forza. Qualche strappo cominciava a manifestarsi nella rigida intransigenza del poliziotto. Tuttavia, sempre deciso ad esaurire sino in fondo il proprio compito, egli si mostrava il più impaziente di tutti a sollecitare il ritorno in Inghilterra.
Alle otto il veicolo di Mudge fu pronto a partire. I passeggeri si rannicchiarono nel fondo della slitta avvolgendosi nelle pellicce e nelle coperte da viaggio. Le due larghe vele furono alzate e presero il vento, che vi soffiò gagliardo. Sul terreno coperto di neve indurita, l’agile equipaggio volò alla velocità di quaranta miglia all’ora.
Da Kearney ad Omaha, - aveva spiegato Mudge al momento della partenza, - ci sono a volo d’ape, come dicono gli Americani, duecento miglia al più. Se il vento si mantiene e se non sopravvengono incidenti, a un’ora dopo mezzodì potremmo essere a destinazione. Poi Mudge non aprì più bocca: il vento della corsa lo impediva. I viaggiatori si tenevano stretti l’uno all’altro. Nessuno fiatava; ascoltavano la musica lamentosa delle sartie metalliche che vibravano come corde di uno strumento gigantesco toccate dall’arco. Quando il vento giungeva radente, pareva che la slitta si sollevasse addirittura da terra per la forza delle sue larghe vele. Mudge, al timone, con abili colpi di barra rettificava le guizzate che il suo leggero veicolo era costretto a subire. Il taciturno americano aveva tutto l’interesse di giungere ad Omaha nel limite di tempo convenuto, giacché il signor Fogg, fedele al proprio sistema, lo aveva allettato con un vistoso premio.
La prateria era piatta come un mare. E la slitta la tagliava in linea retta, accorciando enormemente il percorso della ferrovia, che si svolgeva seguendo in ampio semicerchio la sponda destra del Platte River: dovendo servire questo territorio la ferrovia risaliva infatti, da sud-ovest a nord-ovest, passando per Grand Island, Columbus, importante città del Nebraska, Schuyler, Fremont, poi Omaha. Mudge non poteva temere di venir fermato da quel gomito che il fiume fa a circa venti miglia da Omaha, dal momento che la superficie del River era gelata. Il bravo pilota si sentiva perciò tranquillo: ogni cosa lo assecondava, specie il vento che soffiava con estrema forza, tanto da curvare l’albero. Non c’erano tuttavia da temere inconvenienti da questo lato: le sartie metalliche di sostegno facevano egregiamente il loro dovere. Anzi, il vento le faceva vibrare ricavandone un’armonia lamentosa di un’intensità davvero particolare.
Queste corde danno la quinta e l’ottava - disse Mister Fogg.
E queste furono le uniche parole che egli pronunciò in tutta quella traversata. La signora Auda, accuratamente impacchettata in pellicce e coperte da viaggio, era preservata per quanto possibile dagli assalti del freddo.
Quanto a Passepartout, anch’egli, con la faccia rossa come il disco del sole al tramonto, si sentiva invaso da pensieri ottimistici. Ripigliava le speranze: forse c’era probabilità che le cose si mettessero in modo da giungere ad acciuffare a New York il piroscafo per Liverpool.
In tanta buona disposizione d’animo, il francese fu ad un tratto lì per lì per stringere la mano al “detective”. «E’ lui che ha procurato la slitta», pensava. «Senza questo mezzo provvidenziale sarebbe stato davvero impossibile arrivare in giornata ad Omaha. Bisogna essere riconoscenti a Fix!». Tuttavia, chi sa per quale presentimento, Passepartout si trattenne dal seguire l’impulso che gli dettava un gesto tanto espansivo. Ben tosto un’onda di altri commoventi pensieri venne ad assalire il servo del signor Fogg. Egli ripensava al sacrificio che il “gentleman” aveva fatto senza esitare per strapparlo dalle mani dei Sioux. «Per me il mio padrone ha rischiato patrimonio e vita! Oh!
Passepartout non lo dimenticherà mai!...». E intanto la slitta volava sulla prateria bianca. Si passava qualche affluente del Platte River, ma nessuno se ne accorgeva: terreno e corsi d’acqua sparivano sotto uno strato di ghiaccio uniforme. Quel tratto della prateria, compreso fra due tronchi della Ferrovia del Pacifico, era come una vasta isola deserta. Non si incontravano né villaggi né stazioni né forti. Di tanto in tanto fuggiva alla vista come un esile spettro qualche albero scheletrito e bianco che si torceva al vento. Passavano stormi d’uccelli selvatici che volavano lontano verso il sud.
Più d’una volta, branchi ululanti si misero all’inseguimento della slitta. Erano lupi della prateria, magri, resi terribili dalla fame che li sospingeva dietro alla fuggente preda. Passepartout, con la pistola in pugno, si teneva pronto a far fuoco sui più vicini. Qualche sparo si mescolava all’urlio della torma: si vedeva qualche lupo volteggiare in aria e cadere rigando di sangue la neve.
In breve il branco assalitore diradava e rimaneva indietro, mentre la slitta volava sicura verso la meta.
A mezzodì, Mudge riconobbe da certi indizi che si stava passando il corso gelato del Platte River. Non disse nulla; ma ormai era sicuro che non rimanevano da percorrere più d’una ventina di miglia per giungere ad Omaha.
E difatti non era ancora trascorsa un’ora che l’abile guidatore abbandonando la barra si precipitava alla dritta ad ammainare le vele, mentre la slitta, trascinata dallo slancio, percorreva ancora mezzo miglio e poi si fermava. Mudge, additando un ammasso di tetti bianchi, annunciò:
Siamo arrivati.
Arrivati!
Erano arrivati infatti a quell’importante stazione che ogni giorno numerosi treni collegano con l’est degli Stati Uniti. Passepartout e Fix saltarono a terra e si sgranchirono le membra intirizzite, aiutarono quindi Phileas Fogg e la signora Auda a scendere anch’essi. Phileas Fogg regolò generosamente il conto con Mudge a cui Passepartout strinse la mano come ad un vecchio amico. Poi la piccola comitiva si affrettò verso la stazione di Omaha. Era in questa importante città del Nebraska che si fermava la ferrovia del Pacifico propriamente detta, che mette in comunicazione il bacino del Mississippi con il grande oceano. Per andare da Omaha a Chicago, la ferrovia, che porta il nome di «Chicago-Rock-Island-road», corre direttamente verso est collegando cinquanta stazioni. C’era un treno diretto pronto a partire. Phileas Fogg e i suoi compagni ebbero giusto il tempo di precipitarsi in un vagone. Non avevano visto proprio niente di Omaha, ma Passepartout confessò a se stesso che non era il caso di rimpiangerlo, perché non era questione di fare i turisti.
Con una rapidità davvero notevole, il treno passò per lo Stato dello Iowa, per Council-Bluffs, Des Moines, Iowa City. L’indomani, dieci dicembre, alle quattro del pomeriggio, giungeva a Chicago che s’era già ripresa dalle sue rovine e stava assisa più fieramente che mai sui bordi del suo bel lago Michigan.
Da Chicago a New York ci sono novecento miglia. I treni non mancavano affatto a Chicago e Mister Fogg passò immediatamente dall’uno all’altro. La scalpitante locomotiva del «Pittsburg-Fort Wayne-Chicago rail road» partì a tutta velocità, come se avesse compreso che quell’onorevole “gentleman” non aveva tempo da perdere. Attraversò come un lampo l’Indiana, l’Ohio, la Pennsylvania, il New Jersey, passando per delle città dai nomi arcaici, alcune delle quali avevano già delle strade e delle rotaie per i tram, ma ancora nessuna casa. Infine fece la sua comparsa lo Hudson e l’11 dicembre, alle undici e un quarto di sera, il treno si fermava alla stazione, sulla riva destra del fiume proprio davanti al «pier» (il frangiflutti) dei piroscafi della linea Cunard detta pure «British and North American royal mail steam packet Co.».
Il «China», con destinazione Liverpool, era partito da quarantacinque minuti!
32.
PHILEAS FOGG INGAGGIA UNA LOTTA DIRETTA CONTRO LA CATTIVA SORTE.
Partendo, il «China» aveva portato via con sé l’ultima speranza di Phileas Fogg.
Infatti nessun altro piroscafo diretto tra l’America e l’Europa poteva soddisfare alle esigenze della situazione: né i transatlantici francesi, né le navi del «White-Star-line», né gli “steamers” della Compagnia Imman, né quelli della linea Amburghese, né qualsiasi altro. In realtà, il «Pereire», della Compagnia transatlantica francese- i cui meravigliosi bastimenti uguagliano in velocità e superano in conforto tutti quelli delle altre linee, senza eccezione - , sarebbe partito solo due giorni dopo, il 14 dicembre. E d’altronde esso, analogamente a quelli della Compagnia Amburghese, non andava direttamente a Liverpool o a Londra, ma a Le Havre, e la traversata supplementare da Le Havre a Southampton, facendo ritardare Phileas Fogg, avrebbe reso vani i suoi ultimi sforzi. Quanto ai piroscafi Imman, uno dei quali, il «City of Paris», partiva l’indomani, non bisognava neppure pensarci. Questo tipo di navigli sono particolarmente impiegati nel trasporto degli emigranti, le loro macchine sono deboli, navigano tanto a vela che a vapore e la loro velocità è mediocre. Per attraversare l’Atlantico da New York all’Inghilterra ci mettevano ben più tempo di quanto ne avesse a disposizione Mister Fogg per vincere la sua scommessa. Il “gentleman” si rese perfettamente conto di tutto questo consultando il suo “Bradshaw”, che gli consentiva di conoscere, giorno per giorno, i movimenti della navigazione trans-oceanica. Passepartout era annientato. Il fatto di avere perso il piroscafo per soli quarantacinque minuti gli bloccava il respiro. Era colpa sua, proprio sua, e lui invece di aiutare il suo padrone non aveva smesso di seminare ostacoli sul suo cammino! Quando ripercorreva con la memoria tutti gli incidenti di quel lunghissimo viaggio, quando calcolava le somme spese in pura perdita e nel suo solo interesse, quando pensava che quell’enorme scommessa, se vi si aggiungevano le spese considerevoli di quell’inutile viaggio, rovinava del tutto Mister Fogg, si sarebbe riempito la faccia di schiaffi. Mister Fogg, tuttavia, non gli fece alcun rimprovero e, allontanandosi dai piroscafi transatlantici, disse soltanto queste parole:
Domani provvederemo. Venite.
Mister Fogg, la signora Auda, Fix e Passepartout attraversarono lo Hudson nel «Jersey City Ferry-boat» e salirono poi su di una carrozza che li condusse all’albergo Saint-Nicolas, a Broadway. La notte fu riposante per Phileas Fogg il quale dormì d’un sonno perfetto; ma fu tormentosa per la signora Auda e per i suoi compagni, a cui la preoccupazione non permise di chiudere occhio. Il domani era il 12 dicembre.
Il “gentleman”, desto di buon mattino, ricapitolò un momento nella memoria il suo bilancio orario.
Dalle ore 7 di stamane, 12 dicembre, alle 8,45 di sera del 21 dello stesso mese ci sono esattamente 9 giorni, 5 ore e 45 minuti. Se fossi partito ieri col «China», uno dei migliori camminatori della linea transatlantica inglese, è certo che sarei giunto a Liverpool, e da Liverpool a Londra, nel tempo voluto!... Ma qualcosa forse rimane da tentare.
Phileas Fogg lasciò l’albergo, solo, dopo avere raccomandato al suo servo d’aspettarlo e d’avvertire la signora Auda affinché si tenesse pronta a partire in qualunque momento.
Una carrozza condusse il “gentleman” in riva all’Hudson dove una fila di navi erano ormeggiate al molo o ancorate sul fiume. Da quel grandioso e magnifico porto di New York non c’era giorno, già ai tempi di questo racconto, che centinaia di navi non salpassero per tutti i punti del mondo. Si trattava peraltro in maggior parte di navigli a vela, ed essi non erano ciò che serviva a Fogg. Il “gentleman” ebbe lì per lì l’impressione di dover fallire il suo ultimo tentativo, quando scorse, ancorato davanti alla Batteria, un modesto vaporetto da carico, di forme smilze e dalla cui ciminiera uscivano sbuffi di fumo: segno che la nave era in partenza. Phileas Fogg saltò in una lancia e noleggiò il traghetto. In pochi colpi di remo il barcaiolo lo condusse sottobordo al modesto vapore da carico: l’«Henrietta», uno “steamer” dallo scafo di ferro ma che aveva le soprastrutture in legno. Fu chiesto di calare la biscaglina, e un istante dopo Phileas Fogg metteva piede sul ponte e domandava del capitano. Questi venne subito. Era un uomo di cinquant’anni, non molto simpatico, corpulento, coi capelli rossicci e la pelle color bronzo ossidato.
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