La sua indole riprendeva il sopravvento.  Partito il “gentleman”,  a Fix era  subito  apparsa  imperdonabile  la stoltezza di averlo lasciato allontanare.  E l’accanito poliziotto ora si accusava,  s’incriminava,  faceva contro se stesso la parte che  il direttore  della  Polizia  di  Londra  soleva  fare quando strapazzava qualche agente resosi responsabile del reato d’ingenuità.  «Sono stato uno sciocco!» - si ripeteva mille volte Fix. «Il servo gli avrà detto chi sono.  E ora il furfante si è eclissato!  Non ritornerà più di certo, e chi lo ripesca è bravo!... Ma come ho potuto lasciarmi incantare così: io,  Fix,  che ho in tasca il suo mandato di cattura?!  Decisamente, sono una gran bestia!».

Le ore trascorrevano con una esasperante lentezza  per  lo  sfortunato “detective” il quale non sapeva proprio quale risoluzione prendere.  A volte  gli  veniva  voglia  di  dire  tutto  alla  signora  Auda;   ma comprendeva come sarebbe stato accolto dalla giovane signora. Mettersi piuttosto  a  vagare per l’interminabile prateria alla caccia di Fogg?  Per  un  istante  gli  parve  che  forse   sarebbe   stato   possibile rintracciarlo:  le  orme  della  pattuglia  erano  ancora impresse sul terreno nevoso.

Ma di lì a poco,  sotto un nuovo strato  di  neve  accumulatasi,  ogni impronta  era  stata cancellata.  Allora lo scoraggiamento assalì Fix.  Egli  provò  una  irresistibile  voglia   d’abbandonare   per   sempre quell’impresa così feconda di fiaschi.

E  l’occasione  di  levare le tende dalla stazioncina di Kearney,  ben presto gli si presentò.

Verso le due del pomeriggio,  mentre la neve seguitava a cadere fitta, si  udì  un  fischio  prolungato  che  veniva da est.  Un’enorme ombra preceduta da una luce  rossastra  avanzava  adagio,  ingrandita  dalla nebbia che le dava un aspetto fantastico.  Eppure  non  s’aspettava  nessun  treno che dovesse giungere da quella parte.  I soccorsi,  chiesti per  telegrafo  ad  Omaha,  non  potevano arrivare  così  presto,  e  il  diretto  da  Omaha a San Francisco non sarebbe passato che il giorno dopo.

Presto il mistero ebbe la sua spiegazione.  La locomotiva che avanzava a piccolo vapore,  sbuffando e  fischiando, era  quella che,  dopo essere stata disgiunta dal resto del convoglio, aveva continuato la sua strada portando il fuochista e il  macchinista svenuti. Essi avevano ripreso i sensi quando già la macchina, percorse alcune  miglia,  aveva  cominciato  a  rallentare  per  la mancanza di combustibile e stava per fermarsi in piena prateria.  Vistosi in  quel deserto,  con la sola locomotiva,  il macchinista aveva capito press’a poco quel che doveva essere accaduto.  In che modo la  macchina  fosse stata sganciata dal resto del convoglio,  il brav’uomo non avrebbe mai potuto indovinarlo,  ma per lui restava  fuori  dubbio  che  il  treno doveva essere rimasto indietro, in balia dei Sioux.  Il macchinista non esitò un attimo su ciò che avrebbe dovuto fare.  Se continuava la strada in  direzione  di  Omaha  si  sarebbe  dimostrato prudente;  il  dovere  viceversa  gli imponeva di ritornare là dove il treno con i viaggiatori si trovava certo in grave pericolo.  Palate di carbone  furono  gettate  nel  fornello  della  macchina.  Il fuoco si ravvivò;  la pressione del vapore tornò a salire.  Verso le  due  dopo mezzogiorno la locomotiva giungeva a Kearney.  Con immensa soddisfazione dei viaggiatori,  la macchina si pose subito in testa al treno: entro breve tempo si  sarebbe  ripreso  il  viaggio tanto tragicamente interrotto.

La signora Auda s’era avvicinata al conducente.

Partite? - chiese preoccupatissima.

All’istante, signora.

Ma... quei prigionieri? Quei nostri sventurati compagni?...

Io non posso interrompere il mio servizio - rispose il macchinista.

Abbiamo già tre ore di ritardo.

E quando passerà un altro treno proveniente da San Francisco?

Domani sera, signora.

La signora Auda sospirò:

Domani sera!... Sarà troppo tardi... Non potreste proprio aspettare?

Mi spiace: vi ho spiegato che  è  impossibile.  Signora,  se  volete partire, affrettatevi a salire anche voi.

Non partirò - rispose la giovane indiana.

Il “detective” aveva assistito a quel dialogo.  Pochi  minuti  prima,  quando  ogni  mezzo  di  locomozione gli faceva difetto,  egli era deciso a lasciare Kearney;  ed ora che il treno  si trovava    pronto a partire,  e che a lui,  Fix,  non restava se non occupare il proprio posto nello scompartimento, una inspiegabile forza lo incatenava al suolo.  Quella banchina della stazione  gli  scottava sotto i piedi;  eppure egli non riusciva a staccarsene.  Lo spirito di lotta ad oltranza si riaccendeva in lui; la collera dell’insuccesso lo soffocava.  Fix voleva restare  sulla  breccia,  compiere  la  propria missione fino all’estremo.

Intanto i feriti - fra i quali il colonnello Proctor,  il cui stato si manteneva assai grave - erano stati trasportati nei vagoni. Si sentiva il ronzio della caldaia surriscaldata e il sibilo del  vapore  che  si sprigionava dalle valvole.

La  locomotiva  fischiò.  Il  treno  si  mise  in  marcia  e scomparve rapidamente fra il turbinio bianco della neve.  Fix era rimasto.

La neve cadde meno abbondante durante la notte: una  notte  immensa  e buia che avvolgeva di silenzio la pianura. Non un grido d’uccello, non una pesta di belva.

La pattuglia partita alla ricerca degli scomparsi non tornava.  La signora Auda, con la mente piena di presentimenti sinistri e con il cuore  in  angoscia,   errò  sul  limitare  della  prateria,  tendendo l’orecchio,  cercando di spingere lo sguardo il più lontano  possibile fra  la  nebbia  ed il nevischio.  Tremante,  intirizzita,  ogni tanto tornava nella sala d’aspetto della stazioncina  dove  era  accesa  una discreta stufa e dove Fix,  seduto su una panca,  stava immobile senza chiudere occhio.

Nel cuore della notte un uomo avvolto in un tabarro  impellicciato  si era avvicinato al “detective” e gli aveva detto qualcosa a mezza voce.  Fix lo aveva rimandato, rispondendogli con un cenno di diniego.  All’alba  il  disco  scialbo  del  sole  si alzò sopra un orizzonte di nebbia.  Tuttavia verso il sud c’era un po’ di schiarita,  e si poteva distinguere  a  qualche  miglio  di  distanza.  Dovunque  appariva  un assoluto deserto.

Il capitano della  guarnigione  si  mostrava  impensierito,  inquieto.  Capiva  che ormai bisognava prendere una decisione: spedire un secondo distaccamento in soccorso del primo. Ma il vecchio soldato esitava.  «Sacrificare nuovi uomini,  con così scarsa probabilità di salvare gli altri che forse a quest’ora saranno già rimasti uccisi?...».  L’esitazione  del capitano non durò tuttavia a lungo.  Improvvisamente egli si scosse come da un incubo e chiamò con un gesto  uno  dei  suoi subalterni.

Bisogna  spingere una ricognizione verso sud - disse brevemente.  - Venti uomini ai miei ordini. Si parte subito.  Echeggiarono secchi in quell’istante alcuni spari.

Un segnale?!

Il capitano e il subalterno si precipitarono fuori.  A un mezzo miglio si distingueva un drappello  che  avanzava  di  buon passo.

I nostri che tornano!

L’annuncio  mise l’esultanza nel cuore della signora Auda e di Fix;  e ognuno corse incontro ai sopraggiungenti.  Phileas Fogg veniva in testa al drappello.  Vicino a lui erano il  suo domestico e i due altri viaggiatori strappati alle mani dei Sioux.  C’era  stato  un combattimento,  dieci miglia a sud di Kearney.  Pochi minuti prima dell’arrivo della pattuglia,  Passepartout e i  suoi  due compagni di sventura stavano già lottando contro gli Indiani che se li erano  trascinati  come  preda.  Il  francese ne aveva accoppati due a furia di pugni: a quel punto,  il suo padrone e i soldati erano giunti in soccorso.

Alla  stazioncina  di Kearney,  salvatori e salvati furono accolti con grida di giubilo.  La signora Auda serrò la mano del “gentleman” nella propria senza poter dire parola.

Phileas Fogg distribuì ai soldati il premio che aveva promesso, mentre Passepartout,  commosso,  guardava  sorridendo  e pensava in cuor suo:

«Bisogna confessare che costo un po’ caruccio al mio padrone!».

In disparte, Fix osservava anch’egli la scena, muto, quasi accigliato.  Sarebbe stato difficile analizzare le impressioni  che  lottavano  nel suo animo.

Intanto  Passepartout  si  era  dato  subito  a  cercare  il  treno in stazione: aveva creduto di trovarlo lì pronto sui binari.

Il treno? Il treno?! - andava gridando.

Partito - rispose Fix.

Il treno successivo quando passa? - domandò Phileas Fogg.

Non prima di stasera.

Ah! - L’impassibile “gentleman” non aggiunse altro.  passo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

31.

L’ISPETTORE FIX PRENDE MOLTO SUL SERIO GLI INTERESSI DI PHILEAS FOGG.

Phileas Fogg si trovava ormai in ritardo di venti ore.  Passepartout, causa involontaria di quell’imbroglio, era letteralmente disperato.

Ho rovinato il mio padrone! - gemeva torcendosi le mani.

In  quel  momento  il  “detective”  si  avvicinò  al  signor  Fogg,  e fissandolo bene in faccia gli disse:

Avete fretta proprio sul serio, signore?

Proprio sul serio - rispose Phileas Fogg.

Insisto:  avete  realmente  interesse  di giungere a New York prima delle nove di sera,  per essere in tempo alla partenza  del  piroscafo che va a Liverpool?

Sì, un interesse massimo.

Allora:  se  il vostro viaggio non fosse stato interrotto da questo attacco degli Indiani, sareste giunto a New York l’11 mattina vero?

Sì, con dodici ore d’anticipo sul piroscafo.

Avete perciò venti ore di ritardo. Fra venti e dodici, la differenza è otto. Sono otto ore da riguadagnare. Volete tentare di farlo?

A piedi? - domandò Phileas Fogg.

No.  In slitta a vela.  Un  tale  mi  ha  offerto  questo  mezzo  di trasporto.  Posso  indicarvi  l’uomo:  eccolo    che passeggia sulla banchina.

Si trattava dell’individuo che durante la notte si  era  avvicinato  a dire  qualcosa  all’orecchio  di  Fix  di  cui  questi aveva rifiutato l’offerta.  Phileas Fogg non rispose al “detective”.  Ma poco dopo  si avvicinò all’uomo intabarrato,  il quale continuava ad andare su e giù davanti alla stazione.  I due barattarono poche  parole.  Poi  Phileas Fogg seguì lo sconosciuto.

Insieme  raggiunsero  una capanna costruita ai piedi di Forte Kearney.  Colà l’americano,  che aveva nome  Mudge,  mostrò  al  “gentleman”  un curioso  veicolo.   Era  una  slitta  vera  e  propria,  in  grado  di trasportare cinque o sei persone,  ma attrezzata di albero e  di  vele come un “cutter” da corsa.  L’albero si rizzava, diciamo così, a prua, ed era sostenuto da solide sartie metalliche;  portava una larga randa e  tendeva uno straglio,  pure di acciaio,  che serviva a manovrare la vela di fiocco. A poppa c’era il timone.

D’inverno sulle praterie d’America,  quando i treni  restano  bloccati dalla neve,  queste slitte a vela si rendono utilissime permettendo di tragittare da una stazione all’altra assai rapidamente.  Con il  vento in poppa scivolano sulla piana gelata alla velocità d’un diretto: vere imbarcazioni   di   terra   che   hanno  anche  il  vantaggio  di  non capovolgersi, tanto sono ben equilibrate.

Vi piace la mia slitta? - chiese Mudge al “gentleman”.

Si potrebbe concludere senz’altro il  noleggio,  se  mi  date  buona speranza che si arrivi ad Omaha in meno di cinque ore.

Posso  darvene  assicurazione:  se  il vento si mantiene dall’ovest gagliardo come soffia ora.  Il  tempo  è  buono  e  la  neve  è  dura.  Viaggeremo magnificamente.

Phileas Fogg rifletté un attimo.

«Ad Omaha»,  pensava, «sono frequenti i treni e numerosissime le linee d’allacciamento con Chicago e con New York.  Non è improbabile che  il ritardo possa venire praticamente annullato». E concluse ad alta voce:

Tentiamo l’avventura!

Non  volendo  esporre  la  signora  Auda  ai  disagi d’un viaggio allo scoperto,  col gran freddo che faceva e che sarebbe stato reso  ancora più  insopportabile  dalla velocità della corsa,  Phileas Fogg propose alla sua gentile  compagna  di  rimanere  a  Kearney  in  custodia  di Passepartout. Questi si sarebbe preso la responsabilità di condurla in Europa per una via più comoda e con mezzi più sicuri.  Ma  la  signora  Auda  rifiutò  di  separarsi  dal signor Fogg.  Ne fu felicissimo Passepartout,  il quale per nulla al mondo avrebbe  voluto lasciare  il  suo  padrone,  dal  momento  che  Fix  era  ancora  lì a tallonarlo.

Ciò che intanto pensava il  “detective”  in  quella  circostanza,  era alquanto  diverso  dalle  sue  opinioni  d’un  tempo.  Il  ritorno del “gentleman” aveva portato come una scossa alla feroce  ostinazione  di Fix  nel volerlo reputare un mariuolo di prima forza.  Qualche strappo cominciava a manifestarsi nella rigida intransigenza  del  poliziotto.  Tuttavia,  sempre deciso ad esaurire sino in fondo il proprio compito, egli si mostrava il più impaziente di tutti a sollecitare  il  ritorno in Inghilterra.

Alle  otto  il  veicolo di Mudge fu pronto a partire.  I passeggeri si rannicchiarono nel fondo della slitta avvolgendosi  nelle  pellicce  e nelle  coperte da viaggio.  Le due larghe vele furono alzate e presero il vento,  che vi  soffiò  gagliardo.  Sul  terreno  coperto  di  neve indurita,  l’agile  equipaggio  volò  alla velocità di quaranta miglia all’ora.

Da Kearney ad  Omaha,  -  aveva  spiegato  Mudge  al  momento  della partenza,  - ci sono a volo d’ape, come dicono gli Americani, duecento miglia al più.  Se  il  vento  si  mantiene  e  se  non  sopravvengono incidenti, a un’ora dopo mezzodì potremmo essere a destinazione.  Poi  Mudge  non  aprì  più bocca: il vento della corsa lo impediva.  I viaggiatori si tenevano  stretti  l’uno  all’altro.  Nessuno  fiatava; ascoltavano  la musica lamentosa delle sartie metalliche che vibravano come corde di uno strumento gigantesco toccate dall’arco.  Quando il vento giungeva radente,  pareva che la slitta si  sollevasse addirittura  da  terra per la forza delle sue larghe vele.  Mudge,  al timone,  con abili colpi di barra rettificava le guizzate che  il  suo leggero  veicolo era costretto a subire.  Il taciturno americano aveva tutto l’interesse di giungere ad Omaha nel limite di tempo  convenuto, giacché il signor Fogg,  fedele al proprio sistema, lo aveva allettato con un vistoso premio.

La prateria era piatta come un mare.  E la slitta la tagliava in linea retta,  accorciando  enormemente  il  percorso della ferrovia,  che si svolgeva seguendo in ampio semicerchio la  sponda  destra  del  Platte River: dovendo servire questo territorio la ferrovia risaliva infatti, da  sud-ovest  a  nord-ovest,  passando  per  Grand Island,  Columbus, importante città del Nebraska, Schuyler, Fremont, poi Omaha.  Mudge non poteva temere di venir fermato da quel gomito che  il  fiume fa  a  circa venti miglia da Omaha,  dal momento che la superficie del River era gelata.  Il bravo pilota si sentiva perciò tranquillo:  ogni cosa  lo assecondava,  specie il vento che soffiava con estrema forza, tanto  da  curvare  l’albero.   Non   c’erano   tuttavia   da   temere inconvenienti  da  questo  lato:  le  sartie  metalliche  di  sostegno facevano egregiamente il loro dovere. Anzi, il vento le faceva vibrare ricavandone un’armonia lamentosa di un’intensità davvero particolare.

Queste corde danno la quinta e l’ottava - disse Mister Fogg.

E queste furono le uniche parole che egli pronunciò  in  tutta  quella traversata. La signora Auda, accuratamente impacchettata in pellicce e coperte da viaggio,  era preservata per quanto possibile dagli assalti del freddo.

Quanto a Passepartout,  anch’egli,  con la faccia rossa come il  disco del  sole  al  tramonto,  si  sentiva  invaso da pensieri ottimistici.  Ripigliava le  speranze:  forse  c’era  probabilità  che  le  cose  si mettessero  in  modo da giungere ad acciuffare a New York il piroscafo per Liverpool.

In tanta buona disposizione d’animo,  il francese fu ad un  tratto  lì per lì per stringere la mano al “detective”.  «E’  lui  che  ha procurato la slitta»,  pensava.  «Senza questo mezzo provvidenziale sarebbe stato davvero impossibile arrivare in  giornata ad Omaha. Bisogna essere riconoscenti a Fix!».  Tuttavia,  chi  sa per quale presentimento,  Passepartout si trattenne dal seguire l’impulso che gli dettava un gesto tanto espansivo.  Ben tosto un’onda di altri commoventi pensieri venne  ad  assalire  il servo del signor Fogg. Egli ripensava al sacrificio che il “gentleman” aveva fatto senza esitare per strapparlo dalle mani dei Sioux.  «Per   me  il  mio  padrone  ha  rischiato  patrimonio  e  vita!   Oh!

Passepartout non lo dimenticherà mai!...».  E intanto la slitta volava sulla prateria bianca.  Si passava  qualche affluente  del  Platte  River,  ma  nessuno se ne accorgeva: terreno e corsi d’acqua sparivano sotto uno strato di ghiaccio uniforme.  Quel tratto della prateria,  compreso fra due tronchi  della  Ferrovia del Pacifico, era come una vasta isola deserta. Non si incontravano né villaggi    stazioni né forti.  Di tanto in tanto fuggiva alla vista come un esile spettro qualche  albero  scheletrito  e  bianco  che  si torceva  al  vento.  Passavano stormi d’uccelli selvatici che volavano lontano verso il sud.

Più d’una volta,  branchi ululanti si  misero  all’inseguimento  della slitta.  Erano lupi della prateria,  magri,  resi terribili dalla fame che li sospingeva dietro alla fuggente preda.  Passepartout,  con la pistola in pugno,  si teneva pronto a far  fuoco sui  più vicini.  Qualche sparo si mescolava all’urlio della torma: si vedeva qualche lupo volteggiare in aria e cadere rigando di sangue  la neve.

In breve il branco assalitore diradava e rimaneva indietro,  mentre la slitta volava sicura verso la meta.

A mezzodì,  Mudge riconobbe da certi indizi che si stava  passando  il corso  gelato del Platte River.  Non disse nulla;  ma ormai era sicuro che non rimanevano da percorrere  più  d’una  ventina  di  miglia  per giungere ad Omaha.

E  difatti  non  era  ancora  trascorsa  un’ora  che l’abile guidatore abbandonando la barra si precipitava alla dritta ad ammainare le vele, mentre la slitta,  trascinata dallo slancio,  percorreva ancora  mezzo miglio e poi si fermava. Mudge, additando un ammasso di tetti bianchi, annunciò:

Siamo arrivati.

Arrivati!

Erano  arrivati  infatti  a  quell’importante stazione che ogni giorno numerosi treni collegano con l’est degli Stati Uniti.  Passepartout e Fix saltarono a  terra  e  si  sgranchirono  le  membra intirizzite,  aiutarono  quindi  Phileas  Fogg  e  la  signora  Auda a scendere anch’essi.  Phileas Fogg regolò generosamente  il  conto  con Mudge a cui Passepartout strinse la mano come ad un vecchio amico. Poi la piccola comitiva si affrettò verso la stazione di Omaha.  Era in questa importante città del Nebraska che si fermava la ferrovia del Pacifico propriamente detta,  che mette in comunicazione il bacino del Mississippi con il grande oceano.  Per andare da Omaha a  Chicago, la  ferrovia,  che porta il nome di «Chicago-Rock-Island-road»,  corre direttamente verso est collegando cinquanta stazioni.  C’era un treno diretto  pronto  a  partire.  Phileas  Fogg  e  i  suoi compagni  ebbero  giusto  il  tempo di precipitarsi in un vagone.  Non avevano visto proprio niente di Omaha,  ma Passepartout confessò a  se stesso  che non era il caso di rimpiangerlo,  perché non era questione di fare i turisti.

Con una rapidità davvero notevole,  il treno passò per lo Stato  dello Iowa,  per Council-Bluffs,  Des Moines,  Iowa City.  L’indomani, dieci dicembre,  alle quattro del pomeriggio,  giungeva a Chicago che  s’era già ripresa dalle sue rovine e stava assisa più fieramente che mai sui bordi del suo bel lago Michigan.

Da Chicago a New York ci sono novecento miglia.  I treni non mancavano affatto  a  Chicago  e  Mister  Fogg  passò  immediatamente   dall’uno all’altro. La scalpitante locomotiva del «Pittsburg-Fort Wayne-Chicago rail  road»  partì  a  tutta  velocità,  come  se  avesse compreso che quell’onorevole “gentleman” non aveva  tempo  da  perdere.  Attraversò come  un  lampo  l’Indiana,  l’Ohio,  la Pennsylvania,  il New Jersey, passando per delle città dai nomi arcaici,  alcune delle quali avevano già  delle  strade e delle rotaie per i tram,  ma ancora nessuna casa.  Infine fece la sua comparsa lo Hudson e l’11 dicembre,  alle undici  e un  quarto  di  sera,  il  treno si fermava alla stazione,  sulla riva destra del fiume proprio  davanti  al  «pier»  (il  frangiflutti)  dei piroscafi  della  linea  Cunard detta pure «British and North American royal mail steam packet Co.».

Il «China», con destinazione Liverpool,  era partito da quarantacinque minuti!

 

32.

PHILEAS FOGG INGAGGIA UNA LOTTA DIRETTA CONTRO LA CATTIVA SORTE.

Partendo,  il  «China»  aveva  portato via con sé l’ultima speranza di Phileas Fogg.

Infatti nessun altro piroscafo diretto tra l’America e l’Europa poteva soddisfare  alle  esigenze  della  situazione:    i   transatlantici francesi,    le navi del «White-Star-line»,  né gli “steamers” della Compagnia Imman, né quelli della linea Amburghese, né qualsiasi altro.  In realtà,  il «Pereire»,  della Compagnia transatlantica francese-  i cui  meravigliosi  bastimenti  uguagliano  in  velocità  e superano in conforto tutti quelli delle altre linee,  senza eccezione - ,  sarebbe partito  solo  due  giorni  dopo,  il 14 dicembre.  E d’altronde esso, analogamente  a  quelli  della  Compagnia   Amburghese,   non   andava direttamente  a Liverpool o a Londra,  ma a Le Havre,  e la traversata supplementare da Le Havre a  Southampton,  facendo  ritardare  Phileas Fogg, avrebbe reso vani i suoi ultimi sforzi.  Quanto ai piroscafi Imman,  uno dei quali, il «City of Paris», partiva l’indomani,  non bisognava neppure pensarci.  Questo tipo  di  navigli sono particolarmente impiegati nel trasporto degli emigranti,  le loro macchine sono deboli,  navigano tanto a vela che a vapore  e  la  loro velocità  è  mediocre.   Per  attraversare  l’Atlantico  da  New  York all’Inghilterra ci mettevano ben più  tempo  di  quanto  ne  avesse  a disposizione Mister Fogg per vincere la sua scommessa.  Il “gentleman” si rese perfettamente conto di tutto questo consultando il suo “Bradshaw”, che gli consentiva di conoscere, giorno per giorno, i movimenti della navigazione trans-oceanica.  Passepartout era annientato.  Il fatto di avere perso il piroscafo per soli quarantacinque minuti gli bloccava il  respiro.  Era  colpa  sua, proprio  sua,  e lui invece di aiutare il suo padrone non aveva smesso di seminare ostacoli sul  suo  cammino!  Quando  ripercorreva  con  la memoria  tutti  gli  incidenti  di  quel  lunghissimo viaggio,  quando calcolava le somme spese in pura perdita e  nel  suo  solo  interesse, quando  pensava  che quell’enorme scommessa,  se vi si aggiungevano le spese considerevoli  di  quell’inutile  viaggio,  rovinava  del  tutto Mister Fogg, si sarebbe riempito la faccia di schiaffi.  Mister Fogg, tuttavia, non gli fece alcun rimprovero e, allontanandosi dai piroscafi transatlantici, disse soltanto queste parole:

Domani provvederemo. Venite.

Mister  Fogg,  la  signora Auda,  Fix e Passepartout attraversarono lo Hudson nel «Jersey City Ferry-boat» e salirono poi su di una  carrozza che li condusse all’albergo Saint-Nicolas, a Broadway.  La  notte  fu  riposante  per  Phileas  Fogg il quale dormì d’un sonno perfetto;  ma fu tormentosa per la signora Auda e per i suoi compagni, a cui la preoccupazione non permise di chiudere occhio.  Il domani era il 12 dicembre.

Il  “gentleman”,  desto  di buon mattino,  ricapitolò un momento nella memoria il suo bilancio orario.

Dalle ore 7 di stamane, 12 dicembre,  alle 8,45 di sera del 21 dello stesso mese ci sono esattamente 9 giorni,  5 ore e 45 minuti. Se fossi partito ieri col «China»,  uno dei migliori  camminatori  della  linea transatlantica  inglese,  è  certo che sarei giunto a Liverpool,  e da Liverpool a Londra,  nel tempo voluto!...  Ma qualcosa forse rimane da tentare.

Phileas  Fogg lasciò l’albergo,  solo,  dopo avere raccomandato al suo servo d’aspettarlo e d’avvertire la signora Auda affinché  si  tenesse pronta a partire in qualunque momento.

Una  carrozza condusse il “gentleman” in riva all’Hudson dove una fila di navi erano ormeggiate al molo o ancorate sul fiume.  Da quel grandioso e magnifico porto di New York non c’era giorno,  già ai tempi di questo racconto,  che centinaia di navi non salpassero per tutti i punti del mondo.  Si trattava peraltro  in  maggior  parte  di navigli  a  vela,  ed  essi  non  erano  ciò  che  serviva a Fogg.  Il “gentleman” ebbe lì per lì  l’impressione  di  dover  fallire  il  suo ultimo tentativo,  quando scorse,  ancorato davanti alla Batteria,  un modesto vaporetto da carico,  di forme smilze e  dalla  cui  ciminiera uscivano sbuffi di fumo: segno che la nave era in partenza.  Phileas  Fogg  saltò  in una lancia e noleggiò il traghetto.  In pochi colpi di remo il barcaiolo lo condusse sottobordo al modesto vapore da carico: l’«Henrietta», uno “steamer” dallo scafo di ferro ma che aveva le soprastrutture in legno.  Fu chiesto di calare la biscaglina,  e un istante  dopo  Phileas  Fogg  metteva  piede sul ponte e domandava del capitano. Questi venne subito. Era un uomo di cinquant’anni, non molto simpatico,  corpulento,  coi capelli rossicci e la pelle color  bronzo ossidato.