Alle sue orecchie adesso non giungeva un sospiro, un fruscio, e arrivò perfino un momento in cui gli sembrò che tutto fosse scomparso intorno a lui. L'odiata città era morta, ed era rimasto lui solo, arso dai raggi perpendicolari, con il viso fisso al cielo. Pilato mantenne ancora il silenzio, poi ricominciò a scandire:
- Il nome di colui che sarà liberato adesso è...
Fece ancora una pausa, prima di pronunciare il nome, controllando se avesse detto tutto, perché sapeva che la città morta sarebbe risorta dopo l'annuncio del nome del fortunato, e nessuna ulteriore parola sarebbe stata udita.
«È tutto? - sussurrò Pilato tra sé. - È tutto. Il nome!»
E rotolando la erre sulla città in silenzio, gridò:
- Bar-Raban!
A questo punto gli sembrò che il sole, squillando, fosse scoppiato sopra di lui e gli avesse riempito le orecchie di fuoco. Nel fuoco infuriavano ululi, strilli, gemiti, risate e fischi.
Pilato si girò e attraversò il palco diretto verso i gradini senza guardare nulla tranne i quadratini multicolori della stuoia sotto i piedi, per non inciampare. Sapeva che alle sue spalle piovevano sul palco monete di bronzo e datteri e che nella folla ululante, schiacciandosi, la gente si arrampicava sulle spalle per vedere con i propri occhi il miracolo: un uomo che, già tra le grinfie della morte, ne era scampato! Sapeva che i legionari gli stavano togliendo le corde causandogli involontariamente un dolore bruciante alle braccia slogate durante gli interrogatori. Sapeva che l'uomo, pur tra smorfie e gemiti, sorrideva d'un sorriso insensato e folle. Sapeva anche che in quel momento la scorta stava conducendo verso i gradini laterali tre uomini con mani legate per portarli sulla strada diretta a occidente, fuori della città, al Calvario. Solo quando fu oltre il palco, dietro ad esso, Pilato aprí gli occhi, sapendo d'essere in salvo: i condannati, ormai, erano nascosti ai suoi occhi.
Al gemito della folla, che cominciava a spegnersi, si aggiunsero, e si poteva distinguerle, le grida penetranti dei banditori, che ripetevano, gli uni in aramaico, gli altri in greco, tutto ciò che il procuratore aveva urlato dal palco. Giunse inoltre al suo udito lo scalpitare ritmico e frusciante di un gruppo di cavalieri che si avvicinava, poi una tromba che annunciò qualcosa con un suono breve e gaio.
A questi suoni risposero i fischi squillanti dei ragazzini sui tetti delle case lungo la via che portava dal mercato alla piazza dell'ippodromo, e grida di «Attenzione!»
Un soldato che stava solo sul lato libero della piazza agitò allarmato l'emblema che aveva in mano, allora il procuratore, il legato della legione, il segretario e la scorta si fermarono.
Con un trotto sempre piú marcato una coorte alaria di cavalleria irruppe nella piazza, l'attraversò di sghembo evitando la calca, passò lungo il vicolo sotto il muro di pietra coperto di vite, e prese la strada piú breve per il Calvario.
Piccolo come un bambino, bruno come un mulatto, il comandante dell'alaria, un siriano, che era lanciato a un forte trotto, quando giunse all'altezza di Pilato gridò qualcosa con voce sottile e sfoderò la spada. Il suo ombroso morello, coperto di sudore, scartò e s'impennò. Ringuainata la spada, il comandante frustò il cavallo sul collo, lo dominò, e si diresse verso il vicolo, passando al galoppo. A tre a tre volarono dietro di lui i cavalieri in una nuvola di polvere, le punte delle leggere lance di bambú ondeggiarono ritmicamente, davanti al procuratore sfilarono in un lampo volti che sembravano particolarmente abbronzati sotto i bianchi turbanti, coi denti allegramente digrignati che luccicavano.
Sollevando polvere fino al cielo, l'alaria irruppe nel vicolo, e davanti a Pilato passò per ultimo un soldato che, dietro la schiena, portava appesa una tromba che riluceva al sole.
Proteggendosi con un braccio dalla polvere e facendo una smorfia di scontento, Pilato proseguí verso il portone del giardino, e dietro a lui si mossero il legato, il segretario e la scorta.
Erano circa le dieci del mattino.
CAPITOLO TERZO
La settima prova
- Sí. Erano circa le dieci del mattino, riverito Ivan Nikolaeviè, - disse il professore.
Il poeta si passò una mano sul volto, come un uomo che si sia appena svegliato, e vide che era sera. L'acqua nello stagno s'era fatta nera, vi scivolava una barca leggera, si sentivano lo sciabordio del remo e le risatine di una donna sulla barca. Sulle panchine dei viali adesso c'era gente, ma solo su tre lati del quadrato: non su quello dove si trovavano i nostri.
Il cielo sopra Mosca sembrava sbiadito, e con assoluta nitidezza in alto si vedeva la luna piena, che però non era ancora dorata ma bianca. Respirare era diventato molto piú facile, e le voci sotto i tigli adesso risuonavano piú dolci, come accade di sera.
«Come ho fatto a non accorgermi che è riuscito a fabbricare un intero racconto?... - pensò Bezdomnyj meravigliato... - È già sera!... Ma forse non è stato lui a raccontarlo, sono io che mi sono addormentato e mi sono sognato tutto?»
Ma si deve supporre che fosse proprio stato il professore a raccontare, se no bisognerebbe ammettere che anche Berlioz aveva avuto lo stesso sogno. Questi disse infatti guardando con attenzione il volto dello straniero:
- Il suo racconto è estremamente interessante, professore, anche se non corrisponde affatto a quanto raccontano i vangeli.
- Per carità, - ridacchiò con condiscendenza il professore, - lei piú di tutti deve pur sapere che niente di quanto è scritto nei vangeli è mai successo; se cominciamo a considerare il vangelo come una fonte storica... - ridacchiò ancora una volta, e Berlioz restò di sasso perché aveva detto le stesse identiche cose a Bezdomnyj mentre camminavano lungo la Bronnaja diretti verso gli stagni Patriaršie.
- Sono d'accordo, - rispose Berlioz, - ma temo che nessuno ci potrà confermare che quello che lei ci ha raccontato, è avvenuto per davvero.
- Oh no! C'è chi lo può confermare! - rispose con straordinaria sicurezza il professore, cominciando a storpiare le parole, e con un'inaspettata aria di mistero fece segno ai due di avvicinarsi.
Questi si chinarono verso di lui da entrambi i lati, ed egli disse, questa volta con un'ottima pronuncia che (chi sa perché) ora gli veniva e ora spariva:
- Il fatto è... - qui il professore si guardò intorno con fare impaurito, e proseguí in un sussurro: - che ho assistito personalmente a tutto questo. Ero sul balcone con Ponzio Pilato, nel giardino quando parlava con Caifa, e sul palco, ma in segreto, in incognito, per cosí dire; vi prego quindi di non farne parola con nessuno e di serbare il segreto piú assoluto, tsss...
Subentrò il silenzio, e Berlioz impallidí.
- Lei... lei è a Mosca da molto tempo? - chiese con voce tremante.
- Sono appena arrivato, - rispose smarrito il professore; solo allora agli amici venne in mente di guardarlo ben bene negli occhi, e si convinsero che quello verde, sinistro, era completamente dissennato, e il destro era vuoto, nero e spento.
«Adesso si spiega tutto! - pensò Berlioz sconcertato. È arrivato un tedesco pazzo, oppure è ammattito adesso, ai Patriaršie. Che storia!»
Sí, questo spiegava veramente tutto: sia la stranissima colazione col defunto professor Kant, sia gli stupidi discorsi sull'olio di girasole e Annuška, sia la predizione della testa tagliata, sia tutto il resto: il professore era pazzo. Berlioz capí subito quello che conveniva fare. Addossandosi allo schienale della panchina, ammiccò a Bezdomnyj dietro le spalle del professore, come a dire: non contraddirlo; ma il poeta, smarrito, non capí quei segnali.
- Sí, sí, sí, - diceva eccitato Berlioz, - del resto, tutto questo è possibile...
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