Ma lui non volle riconoscerlo e, dopo aver esclamato con riprovazione: «Svergognata...», si ritrovò d'un tratto in cucina. Non vi era nessuno, e nella penombra stavano silenziosi sulla stufa una decina di fornelli a petrolio spenti. Un unico raggio di luna, filtrando attraverso la finestra polverosa, non lavata da anni, illuminava parcamente l'angolo dove, coperta di ragnatele e polvere, era appesa un'icona dimenticata, dietro la cui cornice spuntavano le estremità di due ceri nuziali. Sotto la grande icona ce n'era un'altra, di carta, attaccata con uno spillo.
Nessuno sa quale pensiero dominasse Ivan in quel momento, fatto sta che, prima di fuggire dall'ingresso di servizio, si appropriò di uno dei due ceri, nonché della piccola icona di carta. Con quegli oggetti, egli abbandonò l'alloggio sconosciuto, borbottando qualcosa, vergognandosi al pensiero di quello che era successo nel bagno, e cercando involontariamente d'indovinare chi potesse essere quell'insolente Kirjuska, e se fosse lui il proprietario di quell'antipatico berretto coi paraorecchie.
Nel vicolo deserto e desolato il poeta si voltò per cercare il fuggiasco, ma non se ne vedeva l'ombra. Ivan disse allora con fermezza a se stesso:
- Ma è naturale, è sulla Moscova! Avanti!
Si sarebbe dovuto, forse, chiedere a Ivan Nikolaeviè perché riteneva che il professore fosse proprio sulla Moscova e non in qualche altro luogo. Il guaio è che non c'era nessuno che potesse chiederglielo. L'abominevole vicoletto era completamente deserto.
Dopo pochissimo tempo si poté vedere Ivan Nikolaeviè sulla scalinata di granito dell'anfiteatro della Moscova.
Dopo essersi tolto i vestiti, Ivan li affidò a un simpatico uomo barbuto che stava fumando una sigaretta fatta a mano, vicino a un camiciotto bianco strappato e a un paio di scarpe scalcagnate e slacciate. Agitò le braccia per rinfrescarsi e si tuffò ad angelo nell'acqua. Il fiato gli si mozzò, tanto era fredda, e gli balenò perfino l'idea che forse non ce l'avrebbe fatta a risalire a galla. Tuttavia ci riuscí, e soffiando e sbuffando, con gli occhi tondi dall'emozione, Ivan Nikolaeviè si mise a nuotare nell'acqua nera che puzzava di petrolio, tra i riflessi zigzaganti dei lampioni del lungofiume.
Quando Ivan, tutto bagnato, saltellò sui gradini diretto al posto dove, sotto la guardia dell'uomo barbuto, erano rimasti i suoi vestiti, scoprí che erano spariti non solo questi ultimi, ma anche il primo, cioè l'uomo barbuto. Nel luogo esatto dove aveva lasciato i suoi vestiti trovò un paio di mutandoni a righe, il camiciotto strappato, il cero, la piccola icona e una scatola di fiammiferi. Dopo aver minacciato non si sa chi, Ivan, pieno d'ira impotente, si mise addosso ciò che era rimasto. A questo punto due considerazioni cominciarono a angustiarlo: la prima, che la tessera del MASSOLIT, dalla quale egli non si staccava mai, era scomparsa, e la seconda, come avrebbe fatto ad attraversare Mosca in quello stato senza incontrare ostacoli? Dopo tutto, era in mutande... È vero che ognuno si dovrebbe occupare dei fatti suoi, ma se avessero fatto delle storie o l'avessero trattenuto...
Ivan strappò via i bottoni dalle mutande all'altezza delle caviglie, sperando che in tal modo le avrebbero forse scambiate per pantaloni estivi, raccattò l'icona, i fiammiferi e il cero, e s'incamminò, dicendo a se stesso:
- Da Griboedov! Non c'è dubbio, lui è lí!
La città viveva già la sua vita notturna. Nella polvere filavano autocarri sferraglianti, e nei cassoni, sopra dei sacchi, c'erano uomini sdraiati a pancia all'aria. Tutte le finestre erano spalancate. In ognuna era accesa la luce sotto un paralume arancione, e da tutte le finestre, da tutte le porte, da tutti gli androni, dai tetti e dai solai, dalle cantine e dai cortili prorompeva l'urlo arrochito della Polonaise dall’Evgenij Onegin.
Le preoccupazioni di Ivan Nikolaeviè si rivelarono pienamente giustificate: i passanti gli rivolgevano attenzione e si voltavano a guardarlo. Prese quindi la decisione di abbandonare le vie principali e di passare nei vicoli, dove la gente è meno indiscreta e vi sono minori probabilità che importunino un uomo scalzo, esasperandolo con delle battute a proposito di quelle mutande che rifiutavano ostinatamente di assomigliare a dei calzoni.
Ivan fece cosí, si addentrò nella rete misteriosa dei vicoli dell'Arbat e cominciò a rasentare i muri, gettando occhiate spaventate, voltandosi ad ogni istante, nascondendosi a volte sotto i portoni ed evitando gli incroci coi semafori e i lussuosi ingressi delle palazzine delle ambasciate.
Per tutto il difficile percorso, fu tormentato in modo indicibile dall'onnipresente orchestra, col cui accompagnamento un basso cantava gravemente il suo amore per Tat'jana.
CAPITOLO QUINTO
Quel che successe al Griboedov
L'antica casa a un piano, color crema, si trovava sul viale della circonvallazione, in fondo a un anemico giardino separato dal marciapiede da una cancellata di ghisa lavorata. Il piccolo spiazzo davanti alla casa era asfaltato: d'inverno vi sorgeva un mucchio di neve in cui era infilata una pala, d'estate si trasformava in un meraviglioso ristorante all'aperto, riparato da un tendone.
La casa si chiamava Casa di Griboedov perché si diceva che fosse appartenuta alla zia del celebre scrittore Aleksandr Sergeeviè Griboedov. Bè, le fosse o no appartenuta, non lo sappiamo con certezza. Anzi, a quanto pare, Griboedov non ebbe mai una zia padrona di immobili... Comunque, la casa si chiamava cosí. Anzi, un conta frottole moscovita affermava che al primo piano, nella sala rotonda con le colonne, il celebre scrittore aveva letto dei brani di Che disgrazia l'ingegno! a questa sua zia, che se ne stava sdraiata sul sofà. Del resto, chi lo sa, forse li aveva letti per davvero, non è questo che conta!
Ciò che conta è che in quel tempo la casa apparteneva a quello stesso MASSOLIT, a capo del quale era stato il povero Michail Aleksandroviè Berlioz prima della sua apparizione agli stagni Patriaršie.
Seguendo l'esempio dei membri del MASSOLIT, nessuno la chiamava la Casa di Griboedov, tutti dicevano semplicemente Griboedov: «Ieri ho brigato due ore al Griboedov». «E allora?» - «Vado a Jalta per un mese». «Sei proprio in gamba!», oppure: «Va' da Berlioz, oggi riceve dalle quattro alle cinque al Griboedov»... e cosí via.
Il MASSOLIT si era sistemato in quella casa nel modo piú confortevole che si possa immaginare. Chiunque vi entrasse, prima di tutto senza volerlo vedeva i comunicati dei vari circoli sportivi, nonché i ritratti, di gruppo e singoli, dei membri del MASSOLIT, appesi (i ritratti) ai muri della scala che portava al primo piano.
Sulla porta della prima stanza del piano superiore un cartello annunciava a caratteri cubitali: «Sezione di pesca e villeggiatura», e vi era raffigurata una carpa presa all’amo.
Sulla porta della stanza n. 2 c'era una scritta non del tutto comprensibile: «Missioni creative di ventiquattro ore.
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