Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all’altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia:
«Il signor abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere.»
«Lui» mormorò don Paolo.
«Ora» proseguì don Clemente «io vorrei dire al signor abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!»
Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l’abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano:
«Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si… si… si…– si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante – come dirò? – vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete – sete, signor abate Marinier! Sete! Sete! – che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità – a cento doppi, cresca, viva Dio! – e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l’azione cattolica – ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch’Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall’Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov’è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors’anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell’acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? – Ma poi mi perdoni, signor abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov’è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: «beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me.»
Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l’oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l’altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l’intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell’unione proposta. L’abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr’egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l’amplesso di don Paolo con un misto d’ironia e di pietà, poi si alzò in piedi:
«Sta bene» diss’egli. «Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del signore. Veramente ne dubito un poco. Il signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt’al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.– «Caro amico» soggiunse rivolgendosi a Dane «ci ritroveremo all’Aniene.»
E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio.
1 comment