Si afferrò con gli occhi, con l’anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l’ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell’obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell’anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell’Imitazione: «DOMINE, DUMMODO VOLUNTAS MEA RECTA ET FIRMA AD TE PERMANEAT, FAC DE ME QUIDQUID TIBI PLACUERIT.» Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell’ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d’erba che le mani giunte odoravano ancora. L’aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull’erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch’egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell’anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores.
Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l’obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell’Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl’indici verso Castel Sant’Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un’ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull’Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: «Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!» E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la vita, la pace ardente dell’anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l’erbe intorno.
«Sei Tu» egli gemette «sei Tu, sei Tu?»
Il vento tacque.
Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L’anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L’anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l’ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire?
Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea.
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