Con poche e concise parole, Marcueil annunciò ai suoi ospiti che un affare urgente l’obbligava a lasciarli per qualche ora, almeno per la cena, ma che tutto si sarebbe svolto come previsto e che essi dovevano considerarsi in casa propria.
Il generale pretese delle spiegazioni più ampie, ma i passi di Marcueil si perdevano già nel vestibolo. Bathybius, insospettito senza sapere nemmeno lui perché, lo rincorse fin sulla gradinata. Marcueil non c’era più: ma il dottore vide partire una carrozza e ne senti il rumore; ma non si accorse che, solo e glorioso, vi si pavoneggiava il gendarme.
Dieci minuti dopo suonavano le undici.
Il maggiordomo aprì la porta della sala da pranzo.
L’Indiano non era ancora comparso.
Le sette ragazze, al braccio degli uomini, entrarono nella sala.
C’era una rossa snella, con una capigliatura di rame; quattro brune con una pelle pallida o color d’oro, e due bionde, una piccola con delle ciocche cenerine, e l’altra più grassa, con fossette dappertutto e una carnagione di smalto.
Rispondevano ai nomi pudichi – forse non erano proprio i loro, ma è certo che ad essi rispondevano immancabilmente! – di Adele, Bianca, Eupuria, Erminia, Irene, Modesta e Virginia, seguiti da cognomi troppo fantasiosi perché valga la pena di trascriverli.
Tre di loro indossavano dei vestiti accollati, i più ermetici che si possa immaginare, che si aprivano, però, con un solo fermaglio, e, sotto, erano completamente nude; le altre quattro, secondo la moda del giorno, portavano un pellicciotto da automobilista, e, quando se ne furono sbarazzate nel vestibolo, apparvero meno vestite che ricamate di merletto: involucro diafano che Erminia chiamava, con un tono adatto a sovreccitare i vegliardi, il suo sottabito.
A un tratto, un passo veloce, insieme strascicato e leggero, scivolò nel corridoio.
“Ecco Marcueil,” disse Bathybius, “avrà dimenticato qualcosa, o avrà rinunciato a partire.”
“Ritorna in tempo,” fece il generale. “Siamo giusto all’antipasto.”
La porta si aprì e “l’Indiano” apparve.
Benché il suo arrivo fosse atteso, ci fu un momento di stupore.
L’uomo che aveva appena fatto il suo ingresso era un bell’atleta di statura comune ma di proporzioni incomparabili. Era glabro – ovvero perfettamente rasato o depilato – col mento corto e a fossetta. I capelli nerissimi, folti e lisci, erano schiacciati all’indietro. Il suo petto era nudo, e scopriva un segno sotto il seno sinistro; la sua pelle, color del rame rosso, aveva un riflesso matto, come di cipria. Un’intera pelle d’orso grigio, la cui enorme testa gli pendeva sui ginocchi, gli drappeggiava una spalla e la cintura. In questo rozzo cinturone erano infilati un tomahawk e un calumet. Calzava dei gambali di mocassino giallo e flessibile, guarniti di aculei di porcospino. Gli capitò di alzare un braccio, e, tatuato in azzurro sull’epidermide levigata con la pietra pomice della sua ascella, apparve il totem del lama.
Fu anche notato dai presenti che, nelle sue ascelle e nelle piegature del ginocchi, invece di formare una cavità, i muscoli si proiettavano all’infuori, conformazione che non si era potuta osservare dai tempi del celebre sollevatore di pesi Thomas Topham.
“Che bell’animale!” esclamarono spontaneamente le donne.
Non si riferivano, beninteso, al lama rozzamente disegnato sulla sua pelle, ma all’uomo.
Per le donne, si è sempre dei begli animali, quando si mostra un po’ di carne nuda.
L’Indiano non aprì bocca, si mise a tavola senza guardarle, e mangiò come un qualsiasi mortale, anzi, come quattro qualsiasi mortali.
TRA SIGNORE SOLE
Poco prima di mezzanotte le ragazze, forse per una specie di pudore di fronte alle allusioni degli uomini, alle quali, per discrete che fossero, diventavano sempre più sensibili a mano a mano che si avvicinava il momento di giustificarle, ma, soprattutto, irritate dall’impassibilità da “moicano” di cui faceva prova l’Indiano, si appartarono e cercarono scampo a casaccio nei labirinti del castello.
Salirono un piano di scale, e si trovarono inaspettatamente in una spaziosa galleria, la galleria dei dipinti, che sovrastava a mezz’altezza la sala riservata al “record”, con la quale un tempo, quando vi si tenevano degli spettacoli, aveva comunicato. Si immagini una loggia immensa, al primo ordine di un teatro, che sia stata murata proprio dalla parte che guarda verso il palcoscenico.
Giunte là, sole com’erano, ebbero quasi l’impressione di trovarsi a casa loro.
Come fanno i pappagalli quando ci si allontana dalla loro gabbia, cominciarono dei chiacchiericci cristallini e deliziosamente falsi, simili a note di strumenti d’amore che si accordino. Parallelamente, dabbasso, i violini preludiavano.
Non c’è bisogno di dire che parlarono di tutto salvo di quello a cui tutte pensavano: l’Indiano.
“Mie care,” diceva Bianca, “non si è mai escogitato nulla di più meraviglioso dell’uso di riprendere la moda di vent’anni fa: il corpetto con quattro giarrettiere, per esempio, due sul davanti e due sui lati.”
“Quelle davanti fanno perdere spazio… e tempo,” osservò Irene.
“Non importa,” riprese Bianca. “Ho il diritto di dire che vanno benissimo perché… io non ne porto.”
E sollevò la gonna per mostrare le sue calze a mezza gamba, nere e ricamate in rosa, e la sollevò molto più in alto di quanto sarebbe stato necessario.
“Porti delle calze corte?” fece Modesta. “Non si capisce che cosa porti quel… selvaggio, si direbbero degli stivali da fognaiolo con degli aculei.”
“Già!” disse Bianca. “Non ci pensavo più; ma non scherzate, è un tipo maledettamente bello.”
“Per me, è troppo dipinto,” disse Virginia, “dovrebbe farsi sbiancare.”
“Hai il senso del bucato un po’ troppo sviluppato!” fece Erminia. “Tra poco, cara signora, avrete modo di togliergli il colore.”
“Non si sbiancano i negri,” insisté Eupuria.
“Come fra poco?” chiese Virginia. “Dopo di voi, e se ne resta ancora! Perché, a quanto mi ha detto il generale, sembra che dovremo farci sotto in ordine alfabetico.”
“Se ne resta ancora di che?” interloquì Adele.
“Di pittura?”
“Io sono la seconda,” constatò Bianca, “ma, forse, sarà già una sinecura.”
“Che storia assurda! Non funzionerà!” disse Irene.
“Facciamo i nostri rallegramenti alla prima moglie,” dissero tutte insieme, facendo dei grandi inchini ad Adele.
Sul pianerottolo corse un fruscio.
“Zitte! Viene qualcuno,” bisbigliò Adele.
“Dev’essere lui,” fece Virginia; “fa bene a venire a rompere il ghiaccio, non ha aperto bocca che per mangiare.”
“Ha dei bei denti; di solito deve masticare soltanto vetro triturato,” disse Erminia.
“Vetro in polvere, se fa veramente quello che si dice,” corresse Irene.
“Zitte!” ripeté Adele.
Lo stesso passo rapido e leggero che aveva annunciato l’arrivo dell’Indiano – ancora più rapido e leggero, questa volta – si avvicinò. Qualcosa come un corpo nudo o un drappo di seta sfiorò la porta.
“La sua pelle d’orso ha il fruscio di una gonna,” osservò Bianca.
“Sono bardati come donne, dalle sue parti…”
“E più scollati,” sussurrarono delle voci.
Qualcuno frugò nella serratura. Le donne tacquero. La porta non si aprì. I passi si allontanarono. Un trottare di tacchi schioccò sul pavimento, e uno scoppio di risa, stranamente argentino, si spense da qualche parte dietro la porta.
“Che vuol dire?” fece una delle donne. “Non è educato, quel selvaggio.”
“È un timido… Ohé, Giuseppe! Dimenticate la vostra pelle d’orso!”
“Non ha creanze,” spiegò Virginia, che si piccava di avere buone maniere.
“Eppure ha sborsato come un re nero,” disse un’altra, “a meno che non abbia pagato per lui chi lo esibisce.”
“Che orrore!” dissero in coro. “Ma è vero, è stato chic!”
“Forse veniva a chiamarci: è quasi mezzanotte. E se scendessimo, signore?”
“Scendiamo!” fecero tutte insieme, rimettendosi i cappellini gettati sui mobili.
“Aiutami, Virginia,” disse Adele, “questa porta è di un duro…”
Provarono una dopo l’altra ad aprire, poi spinsero tutte insieme…
Per assurdo che potesse sembrare, erano chiuse dentro!
“Che idiozia!” esclamò Virginia. “Quel selvaggio che non sa il francese non deve aver mai visto una serratura: l’ha fatta scattare a rovescio, e ha creduto di aprirci.”
“Proviamo a chiamare,” propose Modesta.
Delle voci, non ancora spaventate, schiamazzarono:
“Ohé! Signore! Selvaggio! Irochese! Caro!”
Suonò mezzanotte. L’orologio doveva trovarsi proprio sopra la galleria, perché il suo rintocco empì la lunga sala, il lampadario oscillò, le cornici vibrarono e, vicino al soffitto, una vetrata tremò.
“Verranno a cercarci,” disse Adele, “aspettiamo.”
“Dovresti aver fretta tu, che sei la prima,” scherzò Bianca, “noi altre abbiamo tempo.”
In un’attesa scandita da piccole crisi nervose, sentirono suonare il quarto, la mezza, i tre quarti e l’una.
“Che diavolo fanno là sotto?” disse Modesta. “Eppure devono averci sentite, visto che noi sentiamo la musica!”
A intervalli regolari, le note più acute del cantino salivano fino a loro, come campanili che crivellino una nebbia.
Di nuovo gridarono, fino a diventare rosse e a sciogliersi in lacrime.
“Cerchiamo di distrarci,” disse Adele, che voleva sembrare calma, e si mise a passeggiare davanti ai quadri. “Signore, siamo al Louvre; questo signore con la parrucca bianca e lo spadone rappresenta…”
“Rappresenta?…” fece eco Irene.
“Non lo so più! “E Adele scoppiò in lacrime.
I ritratti avevano l’aria di vecchi signori che abbiano appena messo in castigo delle ragazzine.
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