Noi siamo state là dal principio alla fine. Non è accaduto niente di straordinario. Al secondo giorno non avevano ancora fatto nulla, e, quando ci siamo messe a guardarli, hanno fatto l’amore tre volte per cercare di stupirci, e poi la donna non ha più voluto.”
A Ellen non si riuscì a strappare nient’altro che:
“Io l’amo.”
“Ed egli ti ama?” chiese suo padre.
Qualunque fosse la dose di disonore causato dal Supermaschio, l’Americano ne considerava una sola conseguenza: bisognava che André Marcueil sposasse sua figlia.
“Io l’amo,” rispondeva Ellen a ogni domanda.
“Allora, lui non ti ama?” disse Elson.
Questo preconcetto fu in gran parte la causa del tragico epilogo di questa storia.
Bathybius, disarmato da quel che aveva visto, contribuì a suggerire a William Elson questa idea: “Non è un uomo, è una macchina.”
E aggiunse la vecchia frase che aveva preso l’abitudine di ripetere ad ogni pié sospinto quando parlava di Marcueil:
“Quell’animale non ne vuol sapere.”
“Deve amare mia figlia!” meditava Elson, che aveva perso il lume della ragione, ma non il suo senso pratico, ed era pronto, se necessario, a mostrarsi pratico fino all’assurdo. “Insomma, dottore, dovete pur poterci fare qualcosa!”
La traballante scienza di Bathybius si poteva paragonare in quel momento a una bussola il cui ago girasse come un mulinello per pasta di mandorle per arrestarsi dovunque tranne che al nord. Il cervello del medico doveva trovarsi press’a poco nello stesso stato del dinamometro distrutto dal Supermaschio.
“L’antichità ha avuti i suoi filtri,” fantasticava il chimico. “Bisognerebbe poter ritrovare i procedimenti, vecchi come la superstizione umana, per costringere un’anima ad amare!”
Arthur Gough, interpellato, disse:
“Ci sono la suggestione… l’ipnotismo… sono infallibili, ma tutto questo è di competenza del dottore.”
Bathybius rabbrividì.
“L’ho veduto addormentare la donna… addormentarla… in articulo mortis… per lui, perché stava per conficcargli negli occhi la sua spilla… i suoi occhi farebbero stramazzare a terra chiunque… Nessuno è tanto pazzo, suppongo, da fissare negli occhi, di notte, il doppio fanale di una locomotiva che ingrandisce e si avvicina a ogni istante?”
“Allora,” disse Arthur Gough, “torniamo ai vecchi sistemi. I Padri del Deserto conoscevano una macchina che risponde forse a quel che cerchiamo, almeno a giudicare da questo passo della vita di Sant’Ilarione scritta da San Gerolamo:
Certo la tua forza, (o Demonio) deve essere ben grande, perché tu sia così incatenato e immobilizzato da una lamina di rame e da un gomitolo di filo!”
“Un apparecchio elettromagnetico!” disse senza esitare William Elson.
E fu così che Arthur Gough, l’ingegnere capace di costruire qualsiasi cosa, ricevette l’incarico di realizzare la più insolita macchina dei tempi moderni, una macchina che non era destinata a produrre effetti fisici, ma a agire su forze giudicate fino ad allora inafferrabili: la Macchina-per-ispirare-l’amore.
Se André Marcueil era una macchina o un organismo di ferro che si faceva gioco delle macchine, ebbene, la coalizione dell’ingegnere, del chimico e del dottore avrebbe opposto macchina a macchina per la più grande salvaguardia della scienza, della medicina e dell’umanità borghese.
Se quest’uomo diventava un meccanismo, era necessario, per l’inevitabile ristabilirsi dell’equilibrio del mondo, che un altro meccanismo fabbricasse… l’anima.
La costruzione dell’ordigno, per Arthur Gough, era semplice. Non diede alcuna spiegazione ai due altri scienziati. Tutto fu allestito in due ore.
Si ispirò all’esperienza di Faraday: se si getta una moneta di rame tra i due poli di una potente elettro-calamita, la moneta, non essendo di metallo magnetico, non dovrebbe poter essere influenzata, e tuttavia non cade: scende a terra lentamente come se un qualche fluido vischioso occupasse lo spazio tra i due poli della calamita. Se si ha ora il coraggio di esporre, invece della moneta, la propria testa – e Faraday, com’è noto, affrontò questa esperienza – non si prova assolutamente nulla; e quel che è terribile, è precisamente che NULLA non ha mai significato altro, in materia di scienze, che il “non si sa che”, la forza inattesa, l’x, forse la morte.
Altro fatto conosciuto che servì ugualmente a predisporre l’ordigno: in America, di solito, i condannati a morte sono giustiziati sulla sedia elettrica con una corrente di duemiladuecento volts: la morte è istantanea, il corpo si torrefà e le convulsioni tetaniche sono così spaventose che sembra che il congegno che ha ucciso si accanisca sul cadavere fino a risuscitarlo. Ora, se si è invece sottoposti a una corrente più che quadrupla – diecimila volts, per esempio – non succede niente.
Precisiamo, per chiarire quel che seguirà, che l’acqua dei fossati di Lurance alimentava una dinamo di undicimila volts.
André Marcueil, sempre sprofondato nel suo torpore, fu legato su una poltrona dai suoi domestici – i domestici obbediscono dovunque a un dottore quando questo diagnostica che il loro padrone è malato o pazzo. Quattro cinghie di cuoio gli tenevano allargate le braccia e le gambe, e sul suo cranio fu poggiato uno strano oggetto: una specie di corona dentata di platino, i cui denti erano rivolti verso il basso.
Sembrava che sul retro e sul davanti ci fosse un grosso diamante tagliato a filo, perché la corona era divisa in due parti, ciascuna delle quali era munita di un’orecchietta di rame rosso, doppiata all’interno da una spugna imbevuta di liquido che assicurava a destra e a sinistra il contatto sulle tempie; e i due semicerchi metallici erano isolati l’uno dall’altro da una spessa lamina di vetro, le cui estremità, sulla fronte e sull’occipite, scintillavano come due preziose pietre lisce. Marcueil non si destò quando le molle delle due placche laterali gli fecero male alle tempie, ma fu allora che sognò di capigliature e di scalps.
Il dottore, Arthur Gough e William Elson osservavano, invisibili, dalla stanza vicina; e il paziente incoronato, che non era stato rivestito e la cui rossa truccatura si era staccata in più punti come una statua che perde la doratura, offriva uno spettacolo così poco umano, che i due americani, che “sapevano di Bibbia” e di Nuovo Testamento, ebbero bisogno di qualche minuto di sangue freddo e di tutto il loro senso pratico, per scacciare l’immagine, pietosa e soprannaturale, del Re dei Giudei coronato di spine e inchiodato sulla croce.
Era una forza capace di distruggere il mondo o di rinnovarlo quella che essi avevano messo alle strette?
Dei viluppi di elettrodi, fasciati di guttaperca e di seta verde, tenevano al guinzaglio il Supermaschio; e si perdevano serpeggiando e crivellando il muro, come una frotta di pidocchi che fugge rodendo, da qualche parte verso il ronzio crepitante della dinamo.
William Elson, scienziato curioso e padre pratico, si preparò a dare la corrente.
“Un minuto!” disse Arthur Gough.
“Che c’è?” chiese il chimico.
“C’è,” disse l’ingegnere, “che se è possibile che la macchina dia il risultato desiderato… è anche possibile che non produca niente o tutt’altra cosa. E poi è stata fabbricata un po’ in fretta.”
“Tanto meglio, sarà un esperimento,” interruppe Elson, e premette il commutatore.
André Marcueil non si mosse.
Si sarebbe detto che stesse provando una sensazione piuttosto piacevole.
I tre scienziati, che lo spiavano, dedussero che Marcueil aveva compreso distintamente quel che la macchina voleva da lui. Fu precisamente a quel punto del suo sogno, infatti, che egli proferì:
“Io l’adoro!”
La macchina funzionava dunque secondo le previsioni e i calcoli dei suoi costruttori: ma avvenne un fenomeno indescrivibile, che avrebbe dovuto, tuttavia, trovare il suo posto nelle equazioni del progetto.
Tutti sanno che, quando due macchine elettrodinamiche entrano in contatto, è quella di potenziale più elevato che carica l’altra.
In quel circuito antifisico che univa il sistema nervoso del Supermaschio e gli undicimila volts della dinamo che non erano più forse elettricità, né il chimico, né il dottore, né l’ingegnere poterono negare l’evidenza: era l’uomo a influenzare la Macchina-per-ispirare-l’amore.
Dunque, com’era matematicamente prevedibile, se era vero che la macchina produceva amore, LA MACCHINA S’INNAMORÒ DELL’UOMO.
Con due salti Arthur Gough si precipitò verso la dinamo e telefonò, atterrito, che era proprio questa che diventava ricevitrice e stava girando a rovescio a una velocità sconosciuta e formidabile.
“Non l’avrei mai creduto possibile… mai… ma, a pensarci bene, è perfettamente naturale!” mormorò il dottore. “In questi tempi in cui il metallo e i meccanismi sono onnipotenti, l’uomo, per sopravvivere, deve diventare più forte delle macchine, come è stato più forte delle belve… Semplice adattamento all’ambiente… Ma quest’uomo è il primo uomo dell’avvenire…”
Intanto Arthur Gough, che, come i suoi due compagni, era un uomo pratico, con un gesto meccanico, perché questa inattesa energia non andasse perduta, collegò la dinamo con una batteria di accumulatori…
Il tempo di risalire, e assistette a uno spettacolo tremendo: sia che la tensione nervosa del Supermaschio avesse raggiunto un potenziale troppo favoloso, sia che, al contrario, fosse diminuita (forse perché stava per svegliarsi) e gli accumulatori, sovraccaricati fino a un momento prima, fossero ora i più forti e rovesciassero indietro il loro eccesso di energia, sia per una qualsiasi altra causa, la corona di platino divenne incandescente.
In un parossismo di sforzo doloroso, Marcueil fece saltare le cinghie di cuoio che trattenevano i suoi avambracci e portò le mani alla testa; e la sua corona – senza dubbio per un difetto di costruzione che, in seguito, William Elson rimproverò amaramente a Arthur Gough: la placca di vetro non sufficientemente spessa o troppo fusibile – la sua corona s’incurvò, poi si piegò nel mezzo.
Le gocce di vetro fuso colavano come lacrime sul volto del Supermaschio. Toccando il suolo, molte esplodevano violentemente, come lacrime bataviche.
È noto che il vetro, liquefatto e bagnato in certe condizioni – in questo caso, bagnato dall’acqua acidulata delle spugne di contatto – si scioglie in gocce esplosive.
I tre spettatori nascosti videro distintamente la corona oscillare e, trasformata in una mascella incandescente, mordere le tempie dell’uomo con tutti i suoi denti. Marcueil urlò e, con un balzo, spezzò i suoi ultimi legami e strappò via gli elettrodi le cui spire ronzavano alle sue spalle.
Marcueil scendeva le scale… I tre uomini compresero che cosa può esservi di dolorosamente tragico in un cane con una pentola legata alla coda.
Uscendo sulla gradinata, non videro più che una sagoma contorta che il dolore aveva scagliato di qua e di là per il viale a una velocità sovrumana, che si era aggrappata con un pugno d’acciaio al cancello, senz’altro scopo che fuggire e dibattersi, e aveva curvato due delle sbarre quadrate della monumentale inferriata.
Intanto, nel vestibolo, i fili spezzati piroettavano, fulminando secco un domestico e incendiando una tappezzeria che si divorò senza fiamma, con una lentezza sorniona, con l’aria di forbirsi con un rosso labbro.
E il corpo di André Marcueil, nudo e ancora rivestito in più punti d’oro rosso, restava attorcigliato intorno alle sbarre, o le sbarre intorno al suo corpo…
Il Supermaschio era morto, là, distorto con il ferro.
***
Ellen Elson è guarita e si è sposata.
Ha imposto una sola clausola all’accettazione di un marito: che egli mantenesse il suo amore nei saggi limiti delle forze umane…
Trovarlo è stato… “appena un gioco”.
Essa ha fatto sostituire, da un abile gioielliere, alla grossa perla di un anello che porta fedelmente, una delle lacrime solide del Supermaschio.
JARRY O LA DIVINITÀ DEL RISO
Messo a confronto con l’esperienza del riso, l’uomo può sottrarsi a quel che in essa vi è di più inquietante trasformandola in problema psicologico: per far questo, è sufficiente che egli smetta di ridere per interrogarsi sul riso. Da questo momento, il riso diventa un oggetto che il pensiero misura alla propria verità. Ma se, inversamente, l’uomo che ride riconosce nel riso il suo destino unico, se accetta di farne l’esperienza assoluta; o se, semplicemente, si accorge di non poterne contenere, fino al punto di non essere altro che il riso stesso, lo scotimento di ossa e di muscoli, come un “ceffone d’assoluto” che gli sia piombato addosso suo malgrado; allora egli si trova impegnato in un’esperienza mortale, e la domanda che il pensiero sfigurato dal riso pone ormai a se stesso è: “Può qualcuno ridere a morte? Ridere infinitamente?”
Sull’uomo normale, che ha sospeso il riso, l’uomo che ride gode di una superiorità che si converte a sua volta in motivo di riso; nell’esperienza del riso, egli si è scoperto illimitato e illimitabile, e, nella misura in cui, aprendosi all’illimitato, si trascende incessantemente, l’insolente messa in questione di tutto il possibile, con la quale il riso era incominciato, si rovescia nell’accettazione di tutto il reale, nella volontà che dice sovranamente di sì perché non c’è più niente da negare. A questo punto, come una spugna passata sull’orizzonte del destino umano, il riso abolisce gli dèi e rivela all’uomo la sua assoluta solitudine. E se l’uomo che ride cerca ora di cogliere la sua condizione per fissarla in una maschera, si accorge di star vivendo un sogno da cui teme di svegliarsi dio.
Jarry è, innanzitutto, questa esperienza della divinità del riso, dell’uomo che, nel riso, trascende se stesso in una infinita e mortale prossimità col divino. Per questo, nessuna serietà ha il rigore dei suoi scherzi. Per questo, nessun riso è mai stato tanto vicino al terrore del riso patafisico, che, come diceva René Daumal, è “la sola espressione umana della disperazione”. Forse, prima di Jarry, solo Nietzsche conobbe qualcosa di simile, il riso alcionico che mise sulle labbra di Dioniso, questo dio senza pudore; e Dostoevskij, che lo fece suonare per un istante nella smorfia da ossesso di Kirìllov, qualche minuto prima che si spari per diventare dio; ed era, forse, lo stesso riso del Melmoth di Maturin, di cui Baudelaire diceva che “è uscito dalle condizioni fondamentali della vita” e che “i suoi organi non sopportano più il suo pensiero”.
Il punto di partenza di Jarry è nel destino stesso dell’uomo occidentale. Lo spazio della sua raillerie è la Storia in cui questo destino, perdendosi, si misura al traguardo di una riuscita abissale. E il suo riso comincia, appunto, con l’impossibilità di distinguere se questa riuscita non sia, piuttosto, uno scacco clamoroso.
L’uomo occidentale è giunto a un punto del suo viaggio in cui sembra che il tempo della storia conosca la sua mezzanotte e che una linea sia stata varcata al di là della quale solo l’imprevedibile è in attesa. Questo momento è quello in cui si compie l’evento “la cui grandezza è troppo grande perché noi possiamo rendercene conto”, e del quale Nietzsche dice, nella Gaia Scienza, che “tutti coloro che verranno dopo apparterranno a una storia più elevata”: la morte di Dio.
Che avviene dell’uomo e del suo regno? La terra diventa pianeta nel senso etimologico della parola, cioè l’errante, l’astro che vaga nella solitudine del vuoto pianificato dalla tecnica. L’uomo si drizza nella sua soggettività e la coscienza di sé diventa l’essenza e il fondamento di ogni cosa: la volontà che non vuole altro che se stessa in ogni particolare s’innalza sul trono del mondo senza che una qualsiasi potenza sia in grado di resisterle, e l’uomo, che si prepara ad assumere la responsabilità del regno della terra, entra in un crepuscolo nel quale gli dèi infinitamente si ritraggono.
A questo punto si istaura il Terrore.
Il paradosso del Terrore – Jarry lo sapeva bene – è che esso si rovescia in un’allegria incontenibile. Ciò che nel Terrore è negato, non è questo o quel contenuto, ma la pura assenza di ogni contenuto; la sua opera è la morte, ma una morte che “non ha alcuna portata interiore, che non compie nulla, perché ciò che è negato è il punto vuoto di contenuto, il punto del Sé assolutamente libero.
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