Egli era fuggito colla catena, ed appunto per questo dovette esser la preda di ogni impostore che la scuopriva e sapeva servirsene. Che tale esser dovesse il suo destino, se il leggitore non lo ha di già indovinato, lo dimostrerà il seguito di questa narrazione.

Le confessioni del Siciliano lasciarono nel suo animo impressioni piú profonde che non meritava tutta quella avventura, e la picciola vittoria che la sua ragione avea riportata sopra quella debole illusione, aumentò di molto la sua fiducia in essa. La facilità colla quale era a lui riuscito di decifrare quell’impostura sembrava averlo sorpreso lui medesimo. Nel suo capo la verità e l’errore non eransi ancora abbastanza ben separati l’uno dall’altra, perché spesso non gli accadesse di scambiare le prove dell’uno con quelle dell’altra: da ciò ne venne che il colpo, il quale atterrò la sua credenza ai prodigi, fece al tempo stesso vacillare tutto l’edificio della sua fede alla religione. Avvenne a lui in ciò quel che avvenir suole ad uomo inesperto, il quale nell’amicizia o nell’amore sia stato ingannato per sua cattiva scelta, e che poi perde ogni fiducia riguardo a questi affetti in generale, poiché prende per essenziali proprietà e contrassegni di essi que’ che non sono se non puri accidenti. Un’impostura smascherata gli rese sospetta anche la verità, poiché sgraziatamente egli si era servito di mezzi egualmente cattivi per dimostrarla a se medesimo.

Questo preteso trionfo tanto piú gli piacque, quanto piú grave era stata l’oppressione da cui sembrava liberarlo. Da quel punto si svegliò in lui una mania di dubitare che piú non ebbe riguardo neppure agli oggetti piú rispettabili.

Varie cose concorsero a mantenerlo in questa disposizion d’animo ed a vie maggiormente confermarvelo. La solitudine, in cui avea sin allora vissuto, cessata era per dar luogo ad una maniera di vivere dissipata. La sua condizione era scoperta. Le attenzioni cui egli corrisponder dovea, l’etichetta di cui era debitore al suo rango, lo trascinarono insensibilmente nel vortice del gran mondo. Il suo stato, non meno che le sue qualità personali, gli apersero l’accesso alle piú brillanti e spiritose conversazioni di Venezia: bentosto egli si vide in corrispondenza coi piú chiari ingegni della Repubblica, tanto letterati che politici. Ciò Lo costrinse ad estendere l’orizzonte, già si limitato ed uniforme nel quale era stato rinchiuso il suo spirito. Egli cominciò ad accorgersi della meschinità delle sue idee, ed a sentire il bisogno di maggior coltura. La foggia antica del suo pensare, malgrado tutti i vantaggi che accompagnarla potessero, formava un contrasto troppo vantaggioso colle idee moderne della società, e la sua inesperienza nelle cose piú note e familiari lo rendeva talvolta ridicolo; ed egli niente piú temeva che di rendersi tale. Il pregiudizio sfavorevole che gravitava sul paese, ove sortito avea i suoi natali, sembrava a lui una sfida ad ismentirlo nella sua propria persona. A ciò si aggiungeva anche la singolarità del suo carattere che abborrir gli facea ogni attenzione di cui credesse esser debitore al suo rango anziché al suo merito personale. Egli sentiva principalmente questa umiliazione in presenza di quelle persone che brillavano pel loro spirito e colle loro doti d’animo trionfavano quasi della sua nascita. Il vedersi in una tale società distinto come Principe gli era sempre di sommo rossore, perché per sua mala sorte credeva d’essere con questo nome già escluso da ogni concorrenza. Tutte queste cose in complesso lo persuasero della necessità di dare al suo spirito quella coltura che sino allora avea trascurata, a fine di raggiungere la classe spiritosa e pensatrice della società, dietro la quale in sí lunga distanza si trovava rimasto.

Egli scelse a tale oggetto la piú moderna lettura che intraprese col massimo ardore, siccome era solito di fare in tutte le sue imprese. Ma la mano fatale che dirigeva la scelta di questi scritti lo facea sfortunatamente sempre cadere sopra di quelli, dai quali né la sua ragione, né il suo cuore poteano ritrarre sensibil profitto. Ed anche in ciò dominava la sua inclinazione favorita che sempre spingevalo con irresistibile attrattiva a tutto quello che non dev’essere concepito da mente umana. Egli non aveva attenzione e memoria se non per cose di tal natura: la sua ragione ed il suo cuore rimanevano vôti, mentre il suo cervello si riempiva di confuse idee. Lo stile seducente dell’uno incantava la sua immaginazione, mentre i sofismi dell’altro incatenavano la sua ragione. Ad ambi era facile il soggiogare uno spirito che si faceva la preda di chiunque gli si imponeva con una certa disinvoltura e franchezza.

Una lettura, che fu da lui continuata con passione per piú di un anno non lo avea arricchito per avventura di alcuna utile cognizione, ma all’opposto gli avea riempito il capo di dubbi i quali, come immancabilmente seguir dovea con un carattere conseguente come il suo, ben tosto si apersero sgraziatamente una strada al suo cuore. Per dirlo in succinto, egli erasi inoltrato in quel labirinto come un fanatico pieno di buona fede, e ne uscí come uno scettico, e finalmente come un vero spirito forte.

Tra le assemblee nelle quali si era saputo introdurlo eravi una certa segreta società nominata del Bucentauro, che sotto l’esteriore apparenza di una nobile e ragionata libertà di spirito favoriva la piú sfrenata licenza sí di opinioni che di costumi. Annoverando essa tra’ suoi membri molte persone regolari, ed avendo alla testa persino i nomi di alcuni cardinali, tanto piú facilmente fu indotto il Principe a lasciarvisi introdurre. Certe pericolose verità della ragione pensava egli non potersi meglio sollevare che tra le mani di quelle tali persone obbligate dal loro stato medesimo alla moderazione, e che aveano il vantaggio d’aver udita e scandagliata anche la dottrina opposta. Il Principe dimenticò qui che il libertinaggio dello spirito e de’ costumi nelle persone di tal condizione fa maggiori progressi appunto perché qui trova un freno di meno, e non è spaurito da alcuna apparenza di santità che cosí spesso abbaglia gli occhi profani. E tale era il caso nella conventicola del Bucentauro, la maggior parte de’ membri della quale, con una riprovevole filosofia e con costumi degni di una tal direttrice, non solo oltraggiavano il loro stato, ma l’umanità stessa.

La società avea i suoi gradi segreti, ed io amo a credere per l’onor del Principe che non lo abbia riputato degno d’essere ammesso nel piú recondito del santuario. Ognuno che entrava in questa società, dovea deporre, almeno sintanto che in lei vivea, il suo rango, la sua nazione, la sua religione, insomma tutti i segni distintivi di convenzione, e mettersi in un certo stato di universale eguaglianza.