Del problema della telepatia e della stregoneria già si sono occupate le leggende popolari. Ora io non vorrei farmi torto e nemmeno lavarmi completamente dalle responsabilità di un’azione delittuosa, ma credo di poter dire che le mie intenzioni non erano così perfide come fu la punizione ce ne ebbi. Ecco, una curiosità senza limiti, un impeto di amore stravolto, causato dalla tremenda solitudine, mi infonde una immensa nostalgia di mia moglie e della mia creatura, perché le amavo entrambe. Ma come fare, adesso che già era avviata la causa di divorzio?… Un avvenimento insolito, una disgrazia che ci colpisca tutti, un colpo di fulmine, un incendio, un’inondazione… insomma, una catastrofe che ricongiunga due cuori, come avviene nei romanzi quando, presso il letto di un infermo, due mani di nemici si stringono. Questo ci vuole. Un infermo? I bambini sono sempre un po’ malati, la sensibilità di una madre esagera il pericolo… un telegramma. È detto tutto.

Io non avevo le elementari nozioni dell’arte magica, ma uno sciagurato istinto mi sussurrava all’orecchio quello che dovevo fare col ritratto della mia amata bambina, della mia adorata bambina che, più tardi, doveva essere l’unico conforto della mia vita di dannato.

Narrerò quali furono le conseguenze di un’azione in cui il malvagio proposito sembrò operare per il tramite di un processo simbolico. Per il momento queste conseguenze si facevano attendere ed io continuavo il mio lavoro. Ma provavo un senso d’inesplicabile disagio, e ad esso si accompagnava il presentimento di una nuova sventura.

* * *

Una sera, mentre ero seduto, solo, al microscopio, mi occorse un caso che io allora non compresi, ma che fece su di me una impressione profonda.

Da quattro giorni avevo fatto germogliare una noce e ne staccai ora il germe che, in forma di cuore e non più grande di un seme di pera, si trova inserito fra due cotiledoni ed ha l’aspetto di un cervello umano. S’immagini il mio turbamento quando, sulla lastra del microscopio, scorsi due manine bianche come l’alabastro, levate e congiunte come in atto di preghiera. Una visione? una allucinazione? No, una realtà evidente che mi riempie di terrore. Esse sono immobili, tese contro di me come per implorare; io posso contarne le cinque dita. Il pollice è più corto. Vere mani di donna o di bambino.

Un amico mi sorprende costernato davanti a questo spettacolo, ed io lo prego di accertare il fatto. Non gli occorse di essere un chiaroveggente per scorgere due mani giunte, che invocavano pietà dall’osservatore.

Che cosa erano? I due primi, ancora informi, cotiledoni di un noce, della Juglans Regia, dell’elce di Giove. Niente altro. Eppure erano anche la innegabile realtà di dieci dita, di forma umana, che si giungevano in un gesto d’implorazione. De profundis clamavi ad te!

Di fede ancora malsicura, e abbrutito da un’educazione empirica, non vi faccio più caso.

* * *

La mia caduta è vera. Io sento che su di me grava lo sdegno delle Potenze ignote. La mano dell’invisibile è levata e i suoi colpi scendono fitti sul mio capo.

Per primo, l’amico anonimo che finora mi ha soccorso, si ritira, offeso da una mia lettera arrogante. Ed io non ho più mezzi per vivere.

Poi, quando ricevo le bozze di Sylva Sylvarum, scopro che il testo è tutto sconvolto come un mazzo di carte ben mescolate. Non soltanto le pagine sono fuori posto e la numerazione è sbagliata, ma anche le varie sezioni sono così arruffate che ironicamente simboleggiano la teoria del grande disordine regnante nella natura.

Dopo interminabili ritardi e rinvii, l’opuscolo è stampato; ma lo stampatore mi presenta una nota che supera del doppio l’importo convenuto. A malincuore porto al monte dei pegni il mio microscopio, l’abito nero e le poche cose di pregio che mi sono rimaste, ma alla fine sono «stampato» e, per la prima volta nella mia vita, ho la certezza di avere detto qualche cosa di nuovo, di grande e di bello.

È comprensibile l’orgoglio con cui porto le copie alla posta. Con un gesto di superbo scherno butto le stampe nella cassetta e provocando le Potenze ostili, penso:

«Odi tu, sfinge? Io ho sciolto il tuo enigma, e ti sfido!».

Al mio ritorno all’albergo fui aggredito dal conto, accompagnato da una lettera.

Turbato da questo colpo che non mi attendevo, perché da un anno ero ospite dell’albergo, incomincio a fare attenzione a certe piccole cose, alle quali, fino a quel momento, non avevo badato. Nelle camere vicine stanno suonando, contemporaneamente, tre pianoforti!

Io mi dico che questo è un complotto delle signore scandinave, di cui ho abbandonato la compagnia.

Tre pianoforti! E non posso cambiare albergo perché sono senza denaro!

Mi addormento, furibondo contro quelle donne e contro il destino, e maledico il cielo.

Il mattino dopo sono destato da un rumore inatteso. Nella camera attigua stanno piantando un chiodo, e proprio dalla parte del mio letto. Poi si picchia dall’altra parte.

Un complotto. Stupido come queste artiste.

Lascio correre e non protesto.

Ma quando, dopo il desinare, voglio, come al solito, fare un sonnellino sul mio letto, si ode sopra la mia alcova un tal fracasso che mi casca in testa lo stucco del soffitto.

Scendo dalla padrona e mi lagno del contegno dei clienti. Essa, con molta cortesia, afferma di non avere inteso nulla e mi dichiara che caccerà via chiunque osi disturbarmi. Senza dubbio le preme assai di trattenermi in questo suo albergo, che non fa affari troppo buoni.

Non credo molto alle parole di questa donna; faccio, comunque, assegnamento sull’interesse che la costringe ad usarmi dei riguardi.

Ma il fracasso non cessa ed io capisco che quelle signore vogliono farmi pensare a degli spiriti in vena di picchiare.