La colubrina

Michel Tournier

La colubrina

ovvero

l’assedio della fortuna

Titolo originale: La couleuvrine

Traduzione di Francesco Bruno

© 1994 Gallimard

© 2000 Adriano Salani Editore S.r.l.

Indice

1. Il nemico da abbattere……………………………………………………………………………………….3

2. Il leone e il gufo………………………………………………………………………………………………………5

3. La sfida di Exmoor……………………………………………………………………………………………….9

4. Una strana partita a scacchi………………………………………………………………………..15

5. Colpo di scena…………………………………………………………………………………………………………37

2

1.

Il nemico da abbattere

Fortuna. Il disegno, di scarso pregio, rappresentava una donna dalle forme procaci, gli occhi bendati, in piedi sopra una ruota, con una frusta nella mano destra e una cornucopia nella sinistra. Fortuna, la dea della Buona e della Mala Sorte, percorre gli spazi terrestri distribuendo alla cieca brutte batoste e buone occasioni. Jérôme Faber tracciò in margine al disegno il segno deleatur – da distruggere – che i tipografi mettono accanto alle parole da sopprimere. Per lui, Fortuna era il nemico da abbattere, la superstizione da annientare affinché regnassero soltanto la ragione, il calcolo, il limpido computo delle cose e dei fatti. Non lasciare niente al caso… Ma quanta strada da percorrere nelle tenebre piene di insidie!

Si alzò, fece pochi passi nella stanza e si avvicinò alla finestra. Egli occupava tutto il penultimo piano della torre d’angolo del castello. Aveva scelto quell’alloggio lontano dagli appartamenti padronali per starsene in pace e avere spazio in abbondanza per i suoi libri e manoscritti. Il castello di Cléricourt s’innalzava sulla sponda della Loira di cui, attraverso gli alberi, si vedeva scintillare l’acqua. Rare donne alzavano la schiena bruna in mezzo ai pascoli, e più lontano, a sud, il campanile del borgo di Boisrenard si ergeva verso il cielo chiaro. Faber lasciò vagare lo sguardo su quella campagna prospera e tranquilla, sopita nell’estate morente.

Aveva sparso una manciata di chicchi di grano sul davanzale per godersi la vista degli uccelli che se li contendevano. Una coppia di colombe bianche facevano moine e gonfiavano il petto dopo aver becchettato qui e là senza grande ardore.

Faber le osservava sorridendo quando sentì un lieve sibilo, poi un colpo attutito dal piumaggio; e uno dei due uccelli, colto in pieno petto da un sasso, cadde scompostamente nella grondaia. L’altro scappò spaventato. Si sentì un riso argentino, e la faccia di un bimbo spuntò da una merlatura del bastione sottostante. Era Lucio, il figlioletto di Faber, che agitava trionfante una fionda rudimentale costituita da un pezzo di cuoio attaccato ad una cordicella doppia. Aveva ben ragione di essere raggiante dopo aver colpito l’uccello da quella distanza e con un simile aggeggio! È

pur vero che avrebbe anche potuto colpire in testa suo padre. Faber ebbe un moto di stizza, ma lo represse subito. Come sempre, il ragazzino gli ispirava un miscuglio di paura e di ammirazione, dato che agiva in modo sconsiderato, ma sempre assistito dalla sorte.

Quel Lucio, lo aveva portato con sé al termine di un lungo viaggio di studio nelle più grandi università d’Europa e che si era concluso a Venezia. Lì, avrebbe voluto scoprire il segreto dei mastri vetrai i cui specchi, coppe e lampadari suscitavano l’ammirazione dell’Occidente. Ma i veneziani, con un sorriso beffardo, davano sempre il merito dei loro capolavori alla sabbia, all’acqua o all’aria della laguna.