L’altro scappò spaventato. Si sentì un riso argentino, e la faccia di un bimbo spuntò da una merlatura del bastione sottostante. Era Lucio, il figlioletto di Faber, che agitava trionfante una fionda rudimentale costituita da un pezzo di cuoio attaccato ad una cordicella doppia. Aveva ben ragione di essere raggiante dopo aver colpito l’uccello da quella distanza e con un simile aggeggio! È
pur vero che avrebbe anche potuto colpire in testa suo padre. Faber ebbe un moto di stizza, ma lo represse subito. Come sempre, il ragazzino gli ispirava un miscuglio di paura e di ammirazione, dato che agiva in modo sconsiderato, ma sempre assistito dalla sorte.
Quel Lucio, lo aveva portato con sé al termine di un lungo viaggio di studio nelle più grandi università d’Europa e che si era concluso a Venezia. Lì, avrebbe voluto scoprire il segreto dei mastri vetrai i cui specchi, coppe e lampadari suscitavano l’ammirazione dell’Occidente. Ma i veneziani, con un sorriso beffardo, davano sempre il merito dei loro capolavori alla sabbia, all’acqua o all’aria della laguna. E
capitava regolarmente che si ripescassero nel Canal Grande i cadaveri degli operai che si erano mostrati troppo loquaci con gli stranieri.
3
Nel 1422, la notizia della morte del re di Francia Carlo VI e dell’avvento al trono di suo figlio, allora diciannovenne, con il nome di Carlo VII, indusse Faber a tornare in Francia, presso la nipote, la contessa di Cléricourt in terra di Loira. Invece del segreto di fabbricazione del cristallo, tornava in patria con uno specchio e un figlio. Il piccolo Lucio, lo aveva avuto da una giovane veneziana morta nel darlo alla luce.
Faber aveva ardentemente sperato che Lucio gli somigliasse. Ma, col passar degli anni, non si ritrovava in lui più di quanto non si riconoscesse nello specchio: una sorcière, di vetro convesso e deformante, che gli restituiva la sua immagine grottescamente gonfia e soprattutto una bocca ingigantita a dismisura. Lucio era il ritratto di sua madre, giocherellone e gioviale, burlone, bramoso, portato alla felicità… dovesse durare anche una sola stagione.
Quand’era arrivato a Cléricourt dopo quegli anni di viaggio, Faber aveva trovato una situazione stranamente peggiorata: gli inglesi occupavano tutto il nord della Francia fino alla Loira, con l’eccezione di alcune città e fortezze isolate. Quei territori erano governati dal duca di Bedford in nome del giovane re inglese Enrico VI. Era chiaro che gli inglesi preparavano un’offensiva verso sud: Orléans, Blois e Cléricourt, le cui muraglie, cinte da profondi fossati, opponevano un ostacolo praticamente insormontabile agli assalti di un esercito tradizionale. Ma ciò che angustiava il conte di Cléricourt e i suoi consiglieri era l’artiglieria, nuova arrivata nella guerra di quel Medioevo al suo declino. Si parlava di “bombarde”, cannoni rudimentali ma giganteschi, i cui enormi proietti fendevano le più spesse muraglie. Contro quei mostri, gli assediati avrebbero dovuto disporre di un’arma da fuoco leggera, individuale, che consentisse al tiratore una mira quanto mai precisa, al fine di colpire i serventi della bombarda. Nel corso dei suoi viaggi, Faber aveva sentito dire che quei cannoni in miniatura – li chiamavano “cannoni a mano” o “colubrine” – erano allo studio. Ma allora non c’era stata ragione di approfondirne la conoscenza. Adesso se ne rammaricava, e inviava messi nelle città dell’Est e del Sud per cercare di saperne di più.
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2.
Il leone e il gufo
Quali uccelli marini che fuggono la tempesta, alla metà di settembre uomini isolati, poi intere famiglie cominciarono a solcare le strade, cacciati dall’avanzata degli inglesi e dei borgognoni. Circolavano lugubri notizie sui soprusi che quegli eserciti nemici commettevano a spese degli abitanti. Mesto autunno davvero, che scuriva il cielo e insanguinava le foglie, lasciando presagire un cupo inverno. Il primo ottobre, un cavaliere giunto da Beaugency si presentò al conte di Cléricourt e gli annunciò che gli inglesi avevano preso la città e il solo ponte esistente sulla Loira fra Blois e Orléans.
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