«Se volete seguirmi da questa parte, signore, staremo molto meglio che in questo salotto per parlare d’affari,»
disse la signora Hulot indicando una stanza vicina che, nella disposizione dell’appartamento, era una sala da gioco.
La stanza era separata con un sottile tramezzo dal salottino della signora, la cui finestra dava sul giardino; la signora Hulot lasciò il signor Crevel per un momento, poiché giudicò necessario chiudere la finestra e la porta del salottino, affinché nessuno potesse venirvi ad ascoltare. Ebbe anche la precauzione di chiudere la porta-finestra del salotto, sorridendo a sua figlia e a sua cugina, che vide sedute in un vecchio chiosco in fondo al giardino. Ritornò, infine, lasciando aperta la porta della sala da gioco, in modo da poter sentire aprire quella del salotto, se qualcuno vi entrava. Nei suoi andirivieni la baronessa, non sentendosi osservata da alcuno, lasciava trasparire dal volto tutti i suoi pensieri; e chi l’avesse vista sarebbe stato quasi spaventato della sua agitazione. Ma, ritornando dalla porta d’ingresso del salotto alla sala da gioco, il suo viso si velò di quel riserbo impenetrabile che tutte le donne, perfino le più franche, sembra abbiano a comando.
Durante questi preparativi, per lo meno singolari, la guardia nazionale osservava l’arredamento del salotto nel quale si trovava. Al vedere le tende di seta, una volta rosse, stinte ora di violetto dall’azione del sole, e lise sulle pieghe dal lungo uso, un tappeto dal quale i colori erano svaniti, dei mobili senza più doratura e la cui seta cosparsa di macchie era a tratti consunta, espressioni di disprezzo, di contentezza, di speranza si succedettero sulla sua piatta faccia di commerciante arricchito. Si guardava nello specchio, al di sopra di una vecchia pendola stile Impero, passandosi in rivista, quando il fruscio della veste di seta gli annunciò l’arrivo della baronessa. E subito si rimise in posa.
Dopo essersi lasciata cadere su un piccolo canapè, che certamente era stato molto bello verso il 1809, la baronessa, indicando a Crevel una poltrona, i cui braccioli terminavano con delle teste di sfingi bronzee e la cui vernice si staccava a scaglie, lasciando vedere qua e là il legno, gli fece segno di sedersi.
«Le precauzioni che voi prendete, signora, sarebbero un incantevole augurio per un…»
«Un amante,» replicò lei interrompendo la guardia nazionale.
«La parola è debole,» disse egli ponendosi la mano destra sul cuore e con quel rotear d’occhi che fa quasi sempre ridere una donna quando, freddamente, osserva in essi una simile espressione, «amante! amante! dite piuttosto stregato!»
II • DA SUOCERO A SUOCERA
«Ascoltate, signor Crevel,» riprese la baronessa, troppo seria per poter ridere; «voi avete cinquant’anni, dieci di meno del signor Hulot, lo so; ma, alla mia età, le follie di una donna devono essere giustificate dalla bellezza, dalla giovinezza, dalla celebrità, dal merito, da qualcuno di quegli splendori che ci abbagliano al punto da farci dimenticare tutto, perfino la nostra età. Se voi avete cinquantamila franchi di rendita, la vostra età controbilancia la vostra ricchezza, e così di tutto ciò che una donna si aspetta voi non possedete niente…»
«E l’amore?» disse la guardia nazionale alzandosi e facendosi avanti, «un amore che…»
«No, signore, testardaggine!» disse la baronessa interrompendolo per farla finita con quelle sciocchezze.
«Sì, testardaggine e amore,» egli riprese, «ma anche qualche cosa di meglio, dei diritti…»
«Dei diritti?» esclamò la signora Hulot, sublime di sfida, di disprezzo, di indignazione. «Ma,» riprese, «su questo tono non la finiremo mai, e non vi ho chiesto di venire in questa casa per parlare di quelle cose che ve ne hanno fatto bandire, malgrado la parentela fra le nostre due famiglie.»
«L’ho creduto…»
«Ancora!» riprese lei. «Ma non vi accorgete, signore, dal tono franco e disinvolto con cui vi parlo di amante, di amore, di tutto ciò che vi è di più scabroso per una donna, che io sono perfettamente sicura di restare virtuosa? Non temo niente, nemmeno di essere sospettata chiudendomi con voi in questa stanza. È questo il contegno di una donna debole? Voi sapete bene perché vi ho pregato di venire!»
«No, signora,» replicò Crevel, assumendo un’aria fredda. Poi serrò le labbra e si rimise in posa.
«Ebbene, sarò breve per non prolungare il nostro reciproco supplizio,» disse la baronessa Hulot guardando Crevel.
Questi fece un inchino ironico nel quale un uomo del mestiere avrebbe riconosciuto il fare ossequioso di un ex commesso viaggiatore.
«Nostro figlio ha sposato vostra figlia!…»
«E se si dovesse rifare!…» disse Crevel.
«Questo matrimonio non si farebbe,» rispose prontamente la baronessa; «non ho alcun dubbio. Nondimeno, voi non avete da lamentarvi. Mio figlio non è solamente uno dei primi avvocati di Parigi, ma è anche deputato da un anno, e il suo esordio alla Camera è così brillante da far supporre che fra non molto egli sarà ministro. Victorin è stato nominato due volte relatore di leggi importanti, e potrebbe già diventare, se lo volesse, avvocato generale della Corte di Cassazione. Se dunque volete darmi a intendere che avete un genero senza sostanze…»
«Un genero che sono obbligato a mantenere,» riprese Crevel, «che mi sembra peggio, signora. Dei cinquecentomila franchi assegnati in dote a mia figlia, duecento sono stati spesi Dio sa come… per pagare i debiti del vostro signor figlio, per arredare mirabolantemente la sua casa, una casa da cinquecentomila franchi che rende appena quindicimila franchi, poiché egli ne occupa la parte più bella, e sulla quale ha un debito di duecentosessantamila franchi. Il reddito copre appena gli interessi del debito. Quest’anno darò a mia figlia circa ventimila franchi perché possa sbarcare il lunario.
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