Contiene un’eresia.

Se proprio non avete altro da dirmi…

VIOLA -

Siate buona, signora,

lasciatemi vedere il vostro viso.

OLIVIA -

Avete forse qualche commissione

dalla parte di quel vostro signore

di negoziar qualcosa sul mio viso?

Mi par che adesso voi usciate fuori

dal seminato del vostro messaggio.

Tuttavia alzeremo le cortine

e vi mostriamo il dipinto…

(Si solleva il velo e si scopre il viso)

Ecco, guardate, così ero oggi,

signore. Non credete sia ben fatto?

VIOLA -

Magnifico, se è stato Dio a farlo!

OLIVIA -

Il colore è indelebile, signore,

e resistente al vento e alle intemperie.

VIOLA -

Una bellezza assai bene impastata,

in cui Natura con mano amorosa

e sapiente ha ben fuso il rosso e il bianco.

Siete la più crudele delle donne

se lascerete tutte queste grazie

finir per sempre in fondo ad una tomba

senza lasciarne copia sulla terra.

OLIVIA -

Oh, non sarò tanto dura di cuore!

Farò fare di questa mia bellezza

diverse dettagliate descrizioni:

ne sarà fatto un preciso inventario

e ogni singola minima parcella,

ogni singolo articolo di essa

sarà elencato nel mio testamento.

Così, ad esempio: paragrafo uno:

due labbra di colore rosso-neutro;

comma secondo: un paio d’occhi azzurri

e relative palpebre; ed ancora

comma tre: un collo, un mento e così via.

Siete mandato qui

per far le lodi della mia bellezza?

VIOLA -

Ben m’accorgo che donna siete, ora:

voi siete troppo altera ed orgogliosa.

Ma foste pure il diavolo,

voi siete bella… Il mio signore v’ama.

Oh, un amore così

meriterebbe d’esser ricambiato,

vi proclamassero pure regina

incoronata bella tra le belle!

OLIVIA -

E come m’ama?

VIOLA -

Con adorazione,

fatta di calde lagrime,

di sospiri che tuonano d’amore

e infuocati singhiozzi.

OLIVIA -

Il signor vostro sa com’io la penso:

non posso amarlo, s’anche son cosciente

di quanto nobile e virtuoso sia,

quanto cospicue sian le sue ricchezze

e quanto fresca e ancor del tutto intatta

sia la sua giovinezza,

quanto buona la sua reputazione,

quanto larga ed estesa la sua fama

di liberale generosità,

di buona educazione e di coraggio;

come avvenente sia la sua persona

per forma e proporzioni naturali.

E nondimeno io non posso amarlo.

Egli avrebbe dovuto già da tempo

tener per buona questa mia risposta.

VIOLA -

Se fossi io ad amarvi

con la fiamma che arde il mio padrone,

con la pena che gli tormenta l’animo,

e come lui vivessi, a cagion vostra,

una vita ch’è una continua morte,

non saprei certo trovare alcun senso

in questo vostro ostinato rifiuto:

semplicemente non lo capirei.

OLIVIA -

E che cosa fareste?

VIOLA -

Mi farei costruire una garitta

di rametti di salice intrecciati

sul limitare della vostra porta,

e starei tutto il tempo ad invocare

l’anima mia rinchiusa in queste mura.

Scriverei versi d’amore infelice

e ve li canterei a voce piena

nel cuore della notte;

invocherei agli echeggianti monti

il vostro nome, a udirlo ripercosso,

ed al ciarliero spirito dell’aria

direi d’andar gridando: “Olivia, Olivia”.

Oh, v’assicuro, non avreste pace

tra cielo e terra, senza darmi un segno

della vostra pietà per il mio stato.

OLIVIA -

Voi potreste far molto…

Di che casato siete?

VIOLA-

D’un casato più alto

che non dican la attuali mie fortune;

anche se la presente condizione

non è cattiva: sono un gentiluomo.

OLIVIA -

Bene, tornate dal vostro padrone

e ditegli che io non posso amarlo.

E che non mi spedisca altri messaggi…

a meno che non siate forse voi

a tornar qui da me per riferirmi

come può avere accolto il mio diniego.

Addio, dunque. E grazie del disturbo.

Questo è per voi, spendetelo per me.

(Le porge una borsa di denaro)

VIOLA -

(Respingendo l’offerta)

Non sono un messaggero a pagamento,

signora; riprendetevi la borsa.

Ricompensa non io, ma il padrone

dovrebbe avere da voi.

Amore renda duro come pietra

il cuore di colui a cui darete

il vostro cuore; e possa il vostro ardore

esser per lui oggetto di disprezzo,

com’è per voi quello del mio padrone.

Addio, beltà crudele.

(Esce)

OLIVIA -

“Di che casato siete?”

“Più alto delle attuali mie fortune”

“anche se la presente condizione

“non è cattiva: sono un gentiluomo…”

Eh, son pronta a giurarlo, che lo sei!

Il tuo parlare, il volto, la persona,

i tuoi modi, lo spirito che li anima

ti fanno cinque volte ancor più nobile.

Olivia, piano… non correre troppo…

Ah, fosse il servo al posto del padrone!

Piano, Olivia!… S’apprende dunque al cuore

così rapidamente questo male?…

Mi sento tutto penetrar per gli occhi,

sottilissimo, tacito, furtivo

il fascino di questo giovinetto…

Bene! Che sia così!…

(Chiamando)

Ohilà, Malvolio!

Entra MALVOLIO

MALVOLIO -

Son qua, signora, in che posso servirvi?

OLIVIA -

Correte dietro a quell’impertinente…

sì, voglio dire quel servo del Duca:

m’ha voluto lasciare quest’anello

senza prima curarsi di sapere

se mi fosse gradito o no accettarlo.

Ditegli pure che non so che farne,

che non illuda con vane speranze

il suo padrone. Io non son per lui.

E se ancora vorrà quel giovinetto

tornar domani da me, darò a lui

tutte le mie ragioni. Avete inteso?

Fate presto Malvolio.

MALVOLIO -

Sì, signora.

OLIVIA -

Non so che cosa mi stia succedendo,

ma il mio occhio, ho paura,

ha lusingato troppo la mia mente.

Destino, mostra pure il tuo potere;

noi non siamo padroni di noi stessi.

Quello che è stato decretato, sia!

(Esce)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I - La riva del mare in Illiria

Entrano ANTONIO e SEBASTIAN

ANTONIO -

Non volete fermarvi ancora un poco?

Né volete ch’io possa accompagnarvi?

SEBASTIAN -

No, con vostra pazienza: su di me

le mie stelle rifulgono sinistre,

e l’influsso della mia mala sorte

potrebbe forse influenzar la vostra.

Perciò debbo pregarvi di lasciarmi

a soffrire da solo i miei affanni;

sarebbe una cattiva ricompensa

al vostro affetto, se alcuno di essi

dovesse ricadere su di voi.

ANTONIO -

Ch’io sappia almeno ove siete diretto.

SEBASTIANO -

No, in coscienza signore: il mio viaggiare

sarà solo un vagare senza meta;

ma poiché credo di scorgere in voi

un sì squisito tratto di riserbo

da farmi esser sicuro

che non vorrete estorcere da me

quel ch’io voglio serbar dentro di me

gelosamente, tanto più obbligato

mi sento in spirito di cortesia

a rivelarvi la mia identità.

Sappiate dunque, Antonio,

che il mio nome di nascita è Sebastian,

da me mutato in quello di Rodrigo;

mio padre è stato quel tale Sebastian

da Messalina, del quale anche voi

son certo avrete udito.

Egli lasciò al mondo due figlioli:

mia sorella di nome Viola e me,

nati insieme in un parto gemellare.

Così si fosse pur degnato il cielo

di gemellarci pure nella morte!

E se ciò non è stato, è grazie a voi,

signore, poiché quasi un’ora prima

che voi foste arrivato a trarmi in salvo

dal mare grosso, ella era annegata.

ANTONIO -

Oh, me ne duole!

SEBASTIAN -

Una donna, signore,

che se pur si dicesse da ciascuno

tutta a me somigliante,

assai bella da molti era tenuta;

e se pur, quanto a me, io non mi senta

di condividere interamente

una tale eccessiva ammirazione,

penso di poter spingermi a lodarla

fino a dire che ella possedeva

un animo di cui la stessa Invidia

non avrebbe potuto fare a meno

di dire ch’era nobile e gentile.

Ed è annegata, ahimè, nel salso flutto,

anche s’io penso che in più salso pianto

dovrò annegare il ricordo di lei.

ANTONIO -

Perdonate, signore, la pochezza

del trattamento che ho potuto offrirvi.

SEBASTIAN -

Siete voi che dovete perdonarmi,

Antonio, del fastidio che v’ho dato.

ANTONIO -

Se in cambio dell’affetto dimostratovi,

non mi volete uccidere, signore,

lasciate ch’io vi segua per servirvi.

SEBASTIAN -

Se non volete voi che si disfaccia

quello che fino ad ora avete fatto,

cioè se non volete voi uccidere

colui al quale salvaste la vita,

non mi chiedete questo. E dunque addio.

La tenerezza mi dilaga in cuore,

e son sì prossimo a comportarmi

al modo di mia madre,

che ancora un poco ch’io rimanga qui

i miei occhi son pronti a denunciarlo.

Dove sono diretto, mi chiedete?

Alla corte del duca Orsino. Addio.

(Esce)

ANTONIO -

La gentilezza di tutti gli dèi

ti sia compagna. Alla corte di Orsino

io ho molti nemici,

ché altrimenti t’avrei raggiunto lì

tra breve… Ma succeda che può;

è così forte la mia adorazione

verso la tua persona,

che ogni rischio al quale io possa incorrere

mi sembrerà uno scherzo. Ci verrò.

(Esce)




SCENA II - Una via nelle vicinanze della casa di Olivia

Entrano VIOLA e MALVOLIO, incontrandosi

MALVOLIO -

Non eravate voi che poco fa

parlavate con la contessa Olivia?

VIOLA -

Poco fa, sì; e son venuto via

passo passo fin qui.

MALVOLIO -

Signore, ella vi rende questo anello;

l’aveste voi ripreso andando via,

m’avreste risparmiato la fatica

di correre a raggiungervi fin qui.

Ella m’incarica altresì di dirvi

che dovreste ficcare in testa al Duca,

vostro padrone, l’ultima certezza

ch’ella di lui non vuol proprio saperne.

E poi vi fa sapere un’altra cosa:

che non dovete mai più azzardarvi

a intervenir nelle di lui faccende,

a meno che non sia per riferirle

di persona com’egli l’abbia presa.

Riprendetevi dunque quest’anello.

(Gli porge l’anello che Viola respinge)

VIOLA -

Ma se è stata lei stessa ad accettarlo

dalle mie mani. Non posso riprenderlo.

MALVOLIO -

Evvia, signore! Gliel’avete dato

quasi gettandolo, villanamente,

e vuole che vi sia restituito

alla stessa maniera, ecco così.

(Le getta l’anello ai piedi)

Se voi pensate di darvi la pena

d’inchinarvi per raccattarlo, è là;

se no, sarà di chi lo trova, Addio.

(Esce)




SCENA III - In casa di Olivia

Entrano ser TOBIA e ser ANDREA. Notte.

TOBIA -

Appropinquatevi, messer Andrea;

non stare a letto dopo mezzanotte

equivale ad alzarsi di buon’ora

al mattino, e “diliculo surgere

con quel che segue, come ben sapete.

ANDREA -

No, ad esser sincero, non lo so;

ma so che stare alzati fino a tardi

è solo stare alzati fino a tardi.

TOBIA -

Conclusione sbagliata; e come tale,

mi ripugna come un boccale vuoto.

Essere su passata mezzanotte

e poi andare a letto,

è andare a coricarsi di buon’ora;

così che si può dir che andare a letto

dopo la mezzanotte,

è andarsi a coricar di buon mattino.

Non è formata da quattro elementi

la nostra vita?

ANDREA -

Già, così si dice;

ma a mio giudizio sono solo due:

il mangiare ed il bere.

TOBIA -

Questo è parlare da uomo erudito;

e quindi allora mangiamo e beviamo.

Ehilà, Maria! Un boccale di vino!

Entra FESTE

ANDREA -

Ecco il nostro buffone, in fede mia.

FESTE -

Ebbene, cuoricini? Eccoci qua:

avete visto mai quella pittura

con la scritta, a chi guarda; “Siamo in tre”?

TOBIA -

Benvenuto, somaro, tu sei il terzo.

E adesso ci cantiamo una strofetta.

ANDREA -

Eh, il buffone ha eccellenti polmoni.

Darei piuttosto quaranta scellini

per avere due gambe come lui

e per avere una sì bella voce

da modulare come voglio al canto.

Ah, iersera sei stato esilarante

col raccontare quella tua storiella

di Pigrogromitus e dei Vapiani

che passano la linea equinoziale

di Quéubus; buona, veramente buona!

T’ho mandato sei pence per la tua ganza.

Li hai avuti?

FESTE -

L’ampia mia saccoccia

ha intascato il tuo liberalizio;

e questo perché il naso di Malvolio

è tutt’altro che un manico di frusta,

la mia morosa ci ha le mani bianche

e i Mirmidòni non son birrerie.

ANDREA -

Eccellente! Più pazze di così

non ne ho sentite mai. E adesso canta.

TOBIA -

Ovvia, eccoti ancor mezzo scellino.

Cantaci una canzone.

ANDREA -

Ecco mezzo scellino anche da me;

e quando è un cavaliere che elargisce…

FESTE -

Che preferite, una canzon d’amore,

oppure una canzone sentenziosa?

TOBIA -

No, d’amore, d’amore!

ANDREA -

Delle sentenze non m’importa un fico.

GIULLARE -

(Cantando)

“Dove te’n vai, amante mia diletta?

“Resta, che arrivi il vero amore, aspetta:

“l’amor che forte-piano sa cantare;

“o mia dolcezza, non t’allontanare.

“Perché ben sa ogni figlio d’uomo saggio

“qual è la conclusione d’ogni viaggio:

“i viaggi si concludon tutti quanti

“in un incontro di teneri amanti”.

ANDREA -

Eccellente davvero.

TOBIA -

Bravo, bravo!

GIULLARE -

(Cantando)

“L’amore che cos’è? Non è il domani.

“La gioia d’oggi ha oggi il suo sorriso,

“ché del domani non v’è mai certezza

“e nell’indugio non c’è mai ricchezza.

“Baciami, o mia dolcezza,

“baciami fin che dura giovinezza.”

ANDREA -

Quant’è vero ch’io sono un cavaliere,

c’è il miele in questa voce.

TOBIA -

Un’aria veramente contagiosa.

ANDREA -

Contagiosa e dolcissima, in coscienza.

TOBIA -

Ad ascoltarla al fiuto, con il naso,

sembra un soave, contagioso olezzo.

Ma non vogliamo far danzare il cielo

insieme a noi, e svegliar la civetta

con un coretto da strappar tre anime

a un tessitore? Lo vogliamo fare?

ANDREA -

Se mi volete bene, sì, facciamolo.

A ritornelli io sono un can da caccia.

FESTE -

Eh, lo so, cavaliere, certi cani

i ritornelli li abbaiano bene.

ANDREA -

Ah, questo è più che certo.

Cantiamo allora quello: “Tu, furfante!

FESTE -

Fa’ silenzio, tu pezzo di furfante!

Ma se intoniamo quello, cavaliere,

sarò costretto a darvi del furfante.

ANDREA -

Non è la prima volta

che qualcuno m’ha dato del furfante

avendolo io costretto. Attacca dunque:

Fa’ silenzio, tu pezzo di furfante!

FESTE -

Ma se mi dite voi di far silenzio,

come posso attaccare?

TOBIA -

Oh, questa è buona!

Avanti, avanti allora, tutti insieme.

(Cantano in coro tutti e tre)

Entra MARIA

MARIA -

Che razza di miagolamento è questo?

Se non è vero che la mia signora

ha svegliato Malvolio il maggiordomo

perché vi butti fuori tutti e tre,

io son la più bugiarda della terra!

TOBIA -

La “mia signora” è una cataiana,

noi siamo uomini della politica,

Malvolio un maledetto rompiscatole

e “Tre allegri compari siamo noi

Forse che io non sono un suo parente?

Non sono forse del suo stesso sangue?

Trallalalà, signora!

(Canta)

“Viveva il Babilonia, onia, onia…”

FESTE -

Dio mi danni se il cavalier Tobia

non è in vena di far grosse follie.

ANDREA -

E le fa anche bene se sta in vena.

Del resto anch’io, ma lui le fa con grazia.

Io ci vado con più naturalezza.

TOBIA -

(Cantando)

“Oh, il dodicesimo dì di dicembre…”

MARIA -

Per l’amore di Dio, silenzio! Basta!

Entra MALVOLIO

MALVOLIO -

Signori, siete matti? O che cos’altro?

Non avete quel poco di buon senso,

di buona educazione, d’onestà

che vi trattenga dallo schiamazzare

in questo modo, come calderai

nel cuore della notte?

Avete preso per una gargotta

la casa della mia padrona, eh?,

che vi mettete a urlare a squarciagola

i vostri canti da rattoppascarpe

senza pensar di mitigar la voce?

Non avete davvero alcun rispetto

per il luogo, per le persone e il tempo?

TOBIA -

Il tempo l’abbiam bene rispettato,

signore, nelle nostre intonazioni.

E voi potete andarvi ad impiccare!

MARIA -

Ser Tobia, a voi debbo parlar chiaro.

La padrona m’incarica di dirvi

che se pure ella come suo parente

v’ospiti, non ha alcuna parentela

con i vostri disordini di vita.

Perciò se riuscirete a separarvi

dalla vostra condotta riprovevole,

sarete sempre da lei benvenuto;

se no, quando vi piaccia congedarvi

la troverete sempre ben disposta

a dirvi addio.

TOBIA -

(Cantando)

“Addio, cuor mio diletto,

“m’è forza di partir…”

MALVOLIO -

Eh, via, buon ser Tobia, fate ragione…

TOBIA -

(Seguitando a cantare)

“Gli occhi suoi dicono

“che dei suoi giorni

“egli è alla fine…”

MALVOLIO -

Ah, così la prendete!…

TOBIA -

(Sempre cantando)

“… ma io non morirò.”

ANDREA -

Ser Tobia, mi dispiace, qui mentite.

MALVOLIO -

(A Ser Andrea)

Questo ridonda molto a vostro credito.

TOBIA -

(Sempre cantando)

“Debbo dirgli di andarsene?”

GIULLARE -

(Cantando anche lui come stornellando)

“E che succederà se lo farai?”

TOBIA -

(c.s.)

“Debbo dirgli che se ne deve andare

“senza perdono?”

FESTE -

(c.s.)

“Oh, no, no, no, no, no,

“questo non devi osare.”

TOBIA -

(A Malvolio)

Noi fuori tempo? Siete un bel bugiardo!

Non siete niente più d’un siniscalco

e credete che, essendo voi virtuoso,

non ci debbano più essere al mondo

né focacce né birra.

FESTE -

Già, per sant’Anna, e chi mastica zenzero

debba per forza scottarsi le labbra.

TOBIA -

Questo è molto ben detto.

(A Malvolio)

E voi, signore,

andate a lucidarvi quel collare

con molliche di pane…

Olà, Maria, un boccale di vino!

MALVOLIO -

Donna Maria, se della mia signora

voi fate conto un pochino di più

del suo favore che non del suo sdegno,

non vorrete prestarvi a secondare

una condotta sì poco civile;

ella, per questa mano, lo saprà.

(Esce)

MARIA -

Vatti a sgrullar le orecchie, somaraccio!

ANDREA -

Sfidar costui al duello sul campo

e poi mancar l’impegno e farlo fesso,

sarebbe una prodezza prelibata,

come dare da bere a un affamato.

TOBIA -

Fatelo, fatelo, mio cavaliere.

Io vi preparo il cartello di sfida,

o vado a presentargli a viva voce

i sensi della vostra indignazione.

MARIA -

Ser Tobia, vogliate aver pazienza

per questa notte. La nostra padrona,

da quando quel giovinetto del Duca

oggi è stato con lei a conversare,

è in preda ad una grande agitazione.

Quanto a monsieur Malvolio,

lasciate che sia io ad occuparmene:

se non riesco a metterlo in ridicolo

fino a fare di lui la barzelletta

ed il divertimento generale,

giudicatemi pure sprovveduta

perfino di quel poco di giudizio

da saper come sdraiarmi nel letto.

Lasciate fare a me.

TOBIA -

Ragguagliaci, ragguagliaci, Maria,

raccontaci qualcosa su di lui.

MARIA -

Eh, certe volte è proprio un puritano!

ANDREA -

Oh, l’avessi saputo,

l’avrei preso a legnate come un cane!

TOBIA -

Diamine, solo perché è puritano?

Fuori le vostre squisite ragioni,

mio caro cavaliere.

ANDREA -

Squisite proprio non ne ho nessuna,

quelle che ho, però, son sufficienti.

MARIA -

Diavolo o puritano ch’egli sia,

o qualche cosa dell’uno e dell’altro,

è un leccapiedi, un grande opportunista,

un gran somaro dai modi affettati,

ch’ha imparato a memoria e senza libri

quattro precetti di buona creanza,

e si sbraccia a gridarli ai quattro venti.

Ha il massimo concetto di se stesso,

così pieno - lui pensa - di eccellenze,

da farsi un dogma che tutta la gente

a vederlo, non può che innamorarsene:

ed è proprio su questo suo vizietto

che dovrà operar la mia vendetta.

TOBIA -

Perché, qual è il tuo piano?

MARIA -

Farò cadere lungo il suo percorso

alcune arcane epistole d’amore,

nelle quali al colore della barba

dell’uomo che descritto vi sarà,

alla struttura delle gambe, al passo,

alla foggia degli occhi e della fronte

ed insomma all’aspetto generale,

egli dovrà riconoscer se stesso

raffigurato esattissimamente.

Io so imitare quasi a perfezione

la scrittura della padrona mia,

vostra nipote: c’è infatti una carta,

scritta non mi ricordo in che occasione,

in cui è assai difficile distinguere

la sua calligrafia da quella mia.

TOBIA -

Eccellente, già fiuto il marchingegno.

ANDREA -

Mi pare di sentirne anch’io l’odore.

TOBIA -

Sicché lui crederà che quelle lettere

che lascerai cadere sui suoi passi

gli vengano da mia nipote Olivia

e che questa è di lui innamorata?

MARIA -

Questo è proprio il colore del cavallo

che avevo in mente.

ANDREA -

Ed il vostro cavallo

di lui farebbe un asino.

MARIA -

Sì, un asino.

ANDREA -

Ma sarà veramente strabiliante!

MARIA -

Uno spasso da re, ve l’assicuro.

È un farmaco d’effetto garantito.

Farò appostar voi due,

con il buffone che farà da terzo,

proprio dov’egli troverà la lettera;

potrete rendervi così ben conto

dei suoi vaneggiamenti

nel modo come vorrà interpretarla.

Per questa notte, andatevene a letto,

a sognare dell’avventura… Addio!

TOBIA -

E buona notte a te, Pentesilea!

ANDREA -

Parola mia, una brava ragazza.

TOBIA -

Un segugio di buona razza, certo,

eppoi mi adora… ma questo che importa?

ANDREA -

Un tempo anch’io sono stato adorato…

TOBIA -

A letto, cavaliere, buona notte.

Bisognerà però che vi occupiate

di mandarvi a cercare altro denaro.

ANDREA -

Se non potrò ottener vostra nipote

mi troverò a passare brutti guai.

TOBIA -

Mandate per denaro, cavaliere,

e se alla fine poi non l’otterrete,

chiamatemi castrato.

ANDREA -

Ah, questo è il minimo che vi dirò!

E se non lo farò,

non mi sia dato più un soldo di credito,

e prendetela pur come volete.

TOBIA -

Suvvia, andiamo, andiamo cavaliere.

Io mi vado a scaldare un po’ di vino.

È troppo tardi per andare a letto.

Andiamo, cavaliere.

(Escono)




SCENA IV - Sala nel palazzo del duca Orsino

VIOLA, CURIO e altri, con alcuni musici,

sono in scena quando entra il duca ORSINO

ORSINO -

Ch’io abbia della musica…

Ah, buongiorno a voi tutti, amici miei!

(A Viola)

Su, buon Cesario, accenna quel motivo,

quella vecchia canzone d’aria antica

che abbiamo udito insieme ieri sera.

M’è parso che recasse più sollievo

al mio cuore che certe ariette frivole,

con parole leccate e artificiose,

di questi tempi ostili e tumultuosi.

Suvvia, mi basta solo una strofetta.

CURIO -

Con licenza di vostra signoria,

chi dovrebbe cantarla non è qui.

ORSINO -

Chi è?

CURIO -

Feste, il giullare, mio signore;

un buffone da cui già gran diletto

traeva il padre di madonna Olivia.

Dev’essere qui in giro per la casa.

ORSINO -

Che si vada a cercarlo,

(Ai musici)

ed intonate intanto voi quell’aria.

(Esce Curio. I musici intonano un motivo)

(A Viola)

Ragazzo, vieni qui, stammi a sentire:

se un giorno t’accadrà d’innamorarti,

nelle pene soavi del tuo cuore

ti torni la memoria delle mie,

perché come son io son gli altri amanti:

fedeli, ma volubili e scontrosi

in ogni altro mestiere, sol costanti

nel vagheggiare la lor donna amata.

Ti piace questa musica?

VIOLA -

Mi par che mi risvegli un’eco dentro,

nella sede dove troneggia amore.

ORSINO -

Parli di questo in modo magistrale;

sarei pronto a scommettere la testa

che malgrado la tua giovane età

il tuo occhio s’è già ben soffermato

su qualche bella grazia che l’ha attratto.

Vero, ragazzo?

VIOLA -

Un poco, vostra grazia.

ORSINO -

E che tipo di donna è mai costei?

VIOLA -

Della vostra struttura; vi somiglia.

ORSINO -

Allora non ti vale. Che età ha?

VIOLA -

La vostra età, più o meno, mio signore.

ORSINO -

Troppo vecchia, per Giove!

La donna deve prendersi a marito

uno che sia più avanti nell’età;

solo così potrà adattarsi a lui,

solo così potrà esercitare

un costante dominio sul suo cuore.

Perché, ragazzo, abbiamo un bel vantarci

noi uomini, ma i nostri desideri

son più malcerti, mobili, mutevoli,

smaniosi, capricciosi,

e più presto smarriti e sopraffatti

che non siano quelli delle donne.

VIOLA -

Lo credo anch’io, signore.

ORSINO -

Fa’ allora che la donna che amerai

sia d’un’età più giovane di te,

altrimenti il tuo amore

non potrà reggere lo stesso ardore,

perché le donne son come le rose

il cui bel fiore, una volta sbocciato,

tende in quel punto stesso ad appassire.

VIOLA -

Tali esse sono, ahimè, proprio così:

cominciare a morir proprio nel punto

della lor più perfetta fioritura!

Rientra CURIO con il GIULLARE

ORSINO -

(A Feste)

Amico, su, ricanta la canzone

che abbiamo udita la notte passata.

Cesario, ascoltala con attenzione:

è una semplice, vecchia melodia,

la cantano le donne

quando filano e tessono nel sole,

e le fanciulle nel mentre che intrecciano

i fili nel telaio.

È una strofetta semplice, sincera,

che scherza un po’ sull’amore innocente,

come accadeva nel bel tempo andato.

FESTE -

Siete pronto, signore, ad ascoltarla?

ORSINO -

Siamo pronti, giullare, canta, canta.

FESTE -

(Canta accompagnandosi col liuto)

CANZONE DEL GIULLARE

“Vieni, deh, vieni, o Morte,

“e d’un triste cipresso all’ombra dura

“io trovi sepoltura

“e rifugio alla mia cattiva sorte.

“Ucciso io son da una beltà crudele,

“mai amante di me fu più fedele.

“Il mio bianco sudario preparate,

“sol di rami di tasso lo coprite,[53]

“e non un solo fiore profumato

“sulla mia nera bara sia gettato.

“Nessun amico venga a dir sue doglie

“alle mie grame spoglie

“quando il mio corpo sarà sotterrato.

“Mille e mille sospiri a risparmiare

“mettetemi a giacere

“in luogo tanto remoto e distante

“che nessun triste amante

“possa venir su di esso a lacrimare.

ORSINO -

(Dandogli del denaro)

Toh, per il tuo disturbo.

FESTE -

Nessun disturbo, signore. Cantare

mi procura soltanto del piacere.

ORSINO -

Allora paga per il tuo piacere.

FESTE -

Giustamente, signore, ché il piacere

dovrà una volta o l’altra esser pagato.

ORSINO -

Dammi ora licenza di lasciarti.

FESTE -

Che il dio della tristezza vi protegga,

e che il sarto vi cucia un giustacuore

di taffettà cangiante,

perché l’anima vostra è un vero opale.

Vorrei che uomini di tal costanza

come voi siete, andassero per mare

intenti ad ogni sorta di commerci

e dovunque nel mondo la lor meta;

ché questo è stato sempre il modo giusto

per fare un viaggio a vuoto. Vi saluto.

(Esce)

ORSINO -

Che tutti gli altri ci lascino soli.

(Escono Curio e tutti gli altri meno Viola)

Cesario, ascolta: rècati di nuovo

presso quella sovrana crudeltà;

dille che l’amor mio,

ancor più nobile del mondo intero,

non fa assolutamente nessun conto

di quanti acri di sudicio terreno

ella abbia in sua propria possessione;

che per me tutti i beni materiali

dei quali la fortuna l’ha colmata

sono labili come la fortuna:

ma ch’è solo il miracolo di lei,

regina fra le gemme,

di cui natura ha voluto adornarla,

a incatenarmi l’anima.

VIOLA -

Ma s’ella dice che non può amarvi,

signore?

ORSINO -

Ebbene questa è una risposta,

a cui io non riesco a rassegnarmi.

VIOLA -

Eppure lo dovrete.

Se, diciamo, ci fosse qualche donna

- come forse davvero ci sarà -

che soffrisse per amor vostro al cuore

le stesse pene che voi per Olivia,

voi non potete amarla, e glielo dite:

non dovrà forse quella rassegnarsi

ad accettare una tale risposta?

ORSINO -

Non c’è petto di donna tanto forte

da sopportare il palpito

d’un passione così travolgente

quale amore ha prestato al cuore mio.

Non c’è cuore di donna tanto grande

da contenerne tanta:

manca loro una capacità bastante.

Al loro amore, ahimè, può darsi il nome

di appetito: di un certo sentimento

che vien dal palato, non dal cuore;

soggetto, come tale,

ad essere saziato con il tempo,

e a provare disgusto e repulsione.

Ma il mio è affamato quanto il mare,

e come il mare tutto può inghiottire.

Non mi far paragoni

fra l’amor che potrebbe aver per me

una donna e il mio amore per Olivia.

VIOLA -

Eppure io so…

ORSINO -

Che sai?

VIOLA -

… so anche troppo bene quale amore

può volere una donna. Ché le donne

hanno anche loro un cuore come il nostro.

Mio padre ebbe una figlia

che amava un uomo come forse io stessa,

potrei amare vostra signoria,

se fossi donna.

ORSINO -

E qual è la sua storia?

VIOLA -

Non c’è nessuna storia, mio signore;

ché mai ella svelò la sua passione,

ma la tenne celata nel suo cuore,

lasciando che, come il verme in un boccio,

le divorasse le vermiglie gote;

e, immersa in questa sua malinconia,

si lasciò piano piano illanguidire

e, illividita dalla sua tristezza,

se ne rimase immobile, seduta

come la statua della Sofferenza

su un cippo sepolcrale,

sorridendo all’interno suo dolore.

Non era questo un amore verace?

Noi uomini siamo più capaci

di dir di più, giurare più di loro,

e la mostra dei nostri sentimenti

supera la lor vera intensità:

ci dimostriamo prodighi a giurare

anche se il nostro amore è piccolino.

ORSINO -

Ed è morta d’amore

codesta tua sorella, mio ragazzo?

VIOLA -

Io son tutte le figlie e tutti i figli

rimasti della casa di mio padre:

anche se non ne sono proprio certo…

Signore, debbo andar da quella dama?

ORSINO -

Oh, sì, questa è la cosa più importante.

Affrettati da lei;

e dalle a nome mio questo gioiello;

e soggiungile ancora che il mio amore

non può cedere il campo,

né accettare da lei alcun rifiuto.

(Escono)




SCENA V - Il giardino di Olivia

Entrano ser TOBIA, ser ANDREA, li segue FABIANO

TOBIA -

Fate presto, signor Fabiano.

FABIANO -

Eccomi.

Se mi dovessi perdere un sol briciolo

d’un tal divertimento,

ch’io possa essere lessato a morte

in un paiolo di malinconia.

TOBIA -

Vi piacerebbe veder quel gaglioffo,

quella canaglia di can-pecoraio

essere esemplarmente scorbacchiato?

FABIANO -

Me ne andrei in sollucchero, signore;

voi sapete che ha fatto del suo meglio

per alienarmi la nostra padrona

a causa d’un combattimento d’orsi

che ha avuto luogo qui.

TOBIA -

E per farlo montare sulle furie,

faremo in modo che l’orso ritorni,

fino a farlo tornare nero e blu

dalla collera… Vero, ser Andrea?

ANDREA -

E se non lo facciamo, peste a noi!

Entra MARIA

TOBIA -

Ecco la nostra brava canaglietta.

Che ci dici, pepita d’oro puro?

MARIA -

Nascondetevi adesso tutti e tre

dietro la siepe di bosso laggiù.

Malvolio sta venendo passo passo

lungo questo viale; è stato al sole

per una buona mezz’ora di seguito

a studiarsi, sulla sua propria ombra,

qual portamento gli fosse più acconcio.

Se volete gustarvi la burletta,

osservatelo bene: questa lettera

farà di lui un autentico idiota

caduto in estasi contemplativa.

Presto, nel nome della nostra beffa!

(I tre vanno a nascondersi dietro la siepe. Da questo momento e fino alla fine della scena il dialogo tra loro si svolgerà a parte, in contrappunto al monologo di Malvolio)

(Fa cadere per terra una lettera)

Tu resta qui, che qui passa la trota

da dove sarà presa col solletico.

(Esce)

Entra MALVOLIO

MALVOLIO -

Sarà soltanto un caso…

Tutto è caso nel mondo;

ma Maria una volta me l’ha detto

che ella aveva un debole per me;

io stesso l’ho sentita

spingersi fino a dire di se stessa,

che se si fosse decisa ad amare,

avrebbe scelto un uomo del mio tipo.

Senza contare che io sono quello

fra tutte le persone del seguito

ch’ella ha trattato sempre, senza dubbio,

com maggiore riguardo. Che pensarne?…

TOBIA -

Presuntuoso gaglioffo!

FABIANO -

Zitto, zitto!

L’estasi delirante che l’ha invaso

ne fa un’impareggiabile tacchino.

Guardate un po’ come si pavoneggia

sotto il suo ricco ventaglio di piume.

ANDREA -

Per la luce di Dio,

come bastonerei questa canaglia!

FABIANO -

Zitti, dico!

MALVOLIO -

… poter essere conte,

Conte Malvolio…

TOBIA -

Ah, lurido birbone!

ANDREA -

Impalliniamolo, impalliniamolo!

FABIANO -

Zitti, zitti!

MALVOLIO -

… eppoi c’è un precedente:

quello di Lady Strachey

che ha sposato il suo guardarobiere…

ANDREA -

Svergognato! Che ti si porti il diavolo!

FABIANO -

Ma volete star zitti?

Guardate com’è tutto sprofondato

nel delirante suo fantasticare;

come la fantasia lo fa gonfiare.

MALVOLIO -

… esser sposato con lei da tre mesi,

seduto sotto il di lei baldacchino…

TOBIA -

Ah, una fionda, e colpirlo dritto a un occhio!

MALVOLIO -

… chiamare intorno a me la servitù,

con indosso una toga di velluto

arabescato tutto rami e foglie,

alzatomi pur ora dal divano

sul quale avrò lasciato la mia Olivia

dolcemente assopita…

TOBIA -

Fuoco e zolfo!

FABIANO -

E zitti, insomma! Stiamo ad ascoltare!

MALVOLIO -

… e poi darmi il contegno del mio rango,

e, girato che avessi intorno l’occhio

con cipiglio severo dire loro

quanto sia conscio del mio nuovo stato

e pretenda lo siano essi del loro,

e chieder dal parente mio, Tobia.

TOBIA -

Ceppi e catene!

FABIANO -

Silenzio, silenzio!

MALVOLIO -

… e sette dei miei servi,

sempre prontissimi al mio comando,

darsi a cercarlo per tutta la casa.

Io, nell’attesa, faccio il viso scuro,

che so, dando la corda all’orologio

o mettendomi a giocherellare

con… con… con qualche prezioso gioiello.

Tobia viene, e s’inchina avanti a me…

TOBIA -

E lo lasciamo vivo, questo tanghero?

FABIANO -

Pur se il nostro silenzio

ci dovesse costar la penitenza

d’esser squartati, zitti, ve ne prego!

MALVOLIO -

… io gli tendo la mano, ecco, così,

temperando un affabile sorriso

con un’austera occhiata di comando…

TOBIA -

E a questo punto il tuo caro Tobia

non ti molla un ceffone sulla bocca?

MALVOLIO -

… dicendo: “Zio Tobia,

dal momento che la mia buona sorte

ha voluto affidarmi la custodia

della nipote vostra,

concedetemi la prerogativa

di parlare…

TOBIA -

E allora? E allora?

MALVOLIO -

“… Voi dovete emendarvi del vizietto

di ubriacarvi…”

TOBIA -

Via, cane rognoso!

FABIANO -

Orsù, restate calmo,

se no se ne va all’aria tutto il meglio!

MALVOLIO -

“Senza contare che voi dissipate

quel tesoro che è il vostro tempo

con un certo babbeo di cavaliere…”

ANDREA -

Ora parla di me, non c’è alcun dubbio.

MALVOLIO -

“… un tale ser Andrea.”

ANDREA -

Che vi dicevo?

Lui non è il primo a darmi del babbeo.

MALVOLIO -

(Scorge in terra la lettera e la raccoglie)

E questo che cos’è? Che ne facciamo?

FABIANO -

Il merlo s’avvicina alla sua trappola.

TOBIA -

Silenzio, adesso; e il genio della burla

faccia ch’egli la legga ad alta voce.

MALVOLIO -

Quant’è vero ch’io vivo,

questa è la mano della mia signora!

Sono le sue le “c”, le “u”, le “t”,

ella scrive così la “P” maiuscola…

È senz’altro la sua calligrafia…

ANDREA -

La “c”, la “u”, la “t”… che roba è questa?

MALVOLIO -

(Legge l’indirizzo)

Al beneamato ignoto,

questa, con tutti i miei migliori auguri”

Un’espressione tipica di lei…

Con tua licenza, sigillo di cera…

(Fa per aprire la lettera)

Piano piano, così…. È il suo sigillo,

con l’immagine sua come Lucrezia.

È lei, la mia signora, senza dubbio…

E a chi sarà diretta?…

FABIANO -

Qui ci casca, col fegato e con tutto!

MALVOLIO -

(Leggendo)

“Giove il mio amore sa.

“Chi mai sarà?

“Labbra non vi muovete,

“il suo nome tacete.”

Il suo nome tacete…” Che vien dopo?

La ritmica del verso è disuguale.

Il suo nome tacete…” Fossi tu,

quello, Malvolio?

TOBIA -

Impìccati, marmotta!

MALVOLIO -

(Leggendo)

“Là dove adoro io posso comandare,

“ma, come già di Lucrezia il pugnale,

“il silenzio il mio cuor fa sanguinare,

“sulla mia vita M.O.A.I. prevale.”

FABIANO -

Che razza di pomposo indovinello!

TOBIA -

Quella ragazza, vi dico, è un tesoro!

MALVOLIO -

Sulla mia vita M.O.A.I. prevale…”

Già, ma prima vediamo un po’, vediamo…

FABIANO -

Che piatto avvelenato gli ha servito!

TOBIA -

E con che slancio d’ala

ci si butta il lascivo falconcello!

MALVOLIO -

Là dove adoro io posso comandare…”

Ebbene, ella può certo comandarmi,

ché io la servo, ell’è la mia padrona:

diamine, questo è chiaro, cristallino

a chiunque abbia un po’ di comprendonio.

Non mi pare difficile a capirsi.

Ma il finale… Che cosa vorrà dire

quella specie di cabala alfabetica?

Potessi almeno trovarvi un raccordo

con qualche cosa che riguardi me…

ma piano: “M.O.A.I”…

TOBIA -

Eh, già, indovinalo!

Il segugio sta su una falsa pista.

FABIANO -

Vedrete che abbaiando la ritrova,

ha fiutato la puzza della volpe.

MALVOLIO -

“Emme” come Malvolio….

La lettera iniziale del mio nome…

FABIANO -

Non ve l’avevo detto? Sta per farcela.

Il bastardone ha un fiuto eccezionale.

MALVOLIO -

“Emme”… ma non combina con il resto.

Dovrebb’esserci un’“a”, ma c’è una “o”…

FABIANO -

E con un “Oh!” dovrà finire, spero.

TOBIA -

Già, altrimenti quell’“Oh!”

glielo faccio sputare fuori io,

a furia di legnate.

MALVOLIO -

… e poi c’è un “i”…

TOBIA -

Eh, se tu avessi un occhio alle tue spalle,

ti vedresti più guai alle calcagna

che fortune che vedi innanzi a te!

MALVOLIO -

“M.O.A.I.”… anche qui l’allusione

non è chiara; ma a forzarla un pochino

potrebbe anche piegarsi su di me,

perché ci stanno tutte nel mio nome,

queste lettere, prese ad una ad una.

Un momento: qui si prosegue in prosa.

(Legge)

“Se questa lettera cade in tua mano, pondera.

“La mia costellazione mi pone al disopra di te.

“Ma non ti far soggezione della mia grandezza.

“Alcuni, grandi ci nascono;

“alcuni altri ci giungono per gradi;

“ed altri ci si trovano costretti.

“Il destino ti porge ambo le mani:

“che il tuo sangue e il tuo spirito le afferrino,

“e tu, al fin di abituarti a vivere

“quel che potresti un giorno diventare,

“spogliati della tua umile veste

“e mostrati rinnovellato.

“Tratta con modi bruschi un prossimano,

“con rude piglio i servi. La tua lingua

“risuoni sempre di grandi argomenti;

“sfoggia maniere eccentriche.

“Questo è il consiglio che ti dà colei

“che sospira per te.

“Rammentati di chi sempre ha lodato

“quelle tue calze gialle,

“e sempre ambì ammirarti

“con le tue giarrettiere messe a croce.

“Rammentati, ti prego.

“Va’ avanti, la fortuna tua è fatta,

“se tu lo vuoi. Perché se non lo vuoi,

“ch’io seguiti a vedere sempre in te

“un umil maggiordomo,

“un parigrado del servitorame,

“non certo degno di toccar le dita

“della Fortuna. Addio,

“da parte di colei che volentieri

“scambierebbe il suo posto con il tuo,

“per servirti, e non essere servita,

“LA FORTUNATA INFELICE”.

È tutto chiaro, tutto più lampante

della luce del sole a mezzogiorno!

Salirò in superbia,

leggerò autori di politica,

e coprirò di scherno ser Tobia.

E mi vorrò lavare

di tutte le volgari conoscenze.

Sarò quello che lei vuole ch’io sia.

Non son vane illusioni queste mie,

divagazioni della fantasia:

perché tutto m’induce ormai a crederlo:

la mia padrona mi ama.

Fu lei, difatti, ancor recentemente,

ad ammirare le mie calze gialle

e a lodar le mie gambe

perché portavan giarrettiere a croce;

e debbo dire ch’è proprio su questo

ch’ella qui si palesa all’amor mio

e mi esorta, anzi quasi mi comanda

di non abbandonar queste abitudini,

per il suo personale gradimento.

Ringrazio le mie stelle!… Son felice.

Me ne starò in superbia, distaccato,

con calze gialle e giarrettiere a croce;

anzi, le vado subito a indossare.

Sia lode a Giove e alla mia buona stella!

(Riguarda la lettera e s’accorge di qualcosa)

Ma c’è un poscritto… Vediamo che dice.

(Legge)

“Tu non puoi indovinare chi sono.

“Se intendi corrispondere al mio amore,

“che ciò appaia dal tuo sorriso, che tanto ti dona.

“Dolcezza mia, quando sei in mia presenza

“non cessar di sorridere, ti prego.”

Sorriderò (Gran Giove, ti ringrazio!),

e farò tutto ciò che tu mi chiedi.

(Esce)

FABIANO -

Non darei la mia parte in questa burla,

vi garantisco, eh?, nemmeno in cambio

d’un vitalizio di mille sterline

da parte delle casse dello Scià.

TOBIA -

Quella ragazza me la sposerei

per questo machiavello ch’ha inventato.

ANDREA -

Ed io farei lo stesso.

TOBIA -

E non le chiederei altro per dote

che un nuovo machiavello come questo.

ANDREA -

Ed io lo stesso, sulla mia parola.

Rientra MARIA

FABIANO -

Ecco la nostra brava acchiappa-merli.

TOBIA -

Vuoi tu posare il piede sul mio collo?

Sono alla tua mercé.

ANDREA -

E così io.

TOBIA -

Devo giocarmi la mia libertà

a testa e croce e diventar tuo schiavo?

ANDREA -

O vuoi che sia io a diventarlo?

TOBIA -

L’hai calato in tal sogno ad occhi aperti,

che quando tutto gli sarà svanito,

gli dovrà dare di volta il cervello.

MARIA -

Scherzi a parte, la burla ha funzionato?

TOBIA -

A meraviglia, come l’acquavite

con una levatrice.

MARIA -

Se volete gustare i risultati

della burla, badate ad osservare

il primo incontro suo con la signora:

le si presenterà in calze gialle

(un colore ch’io so che ella aborre)

e con le giarrettiere messe a croce

(una foggia ch’ella detesta al massimo);

si metterà a sfoggiare ampi sorrisi,

atteggiamento tanto poco cònsono

alle di lei condizioni di spirito

inclini come sono alla mestizia,

che non potrà che scatenargli addosso

tutto il di lei risentito rabbuffo.

Se volete gustarvelo, seguitemi.

TOBIA -

Alle porte del Tartaro,

io son pronto a seguirti ciecamente,

mio eccellente demonio d’arguzia!

ANDREA -

Né vorrò io essere da meno.

(Escono)

 

 

ATTO TERZO

 

 

 

SCENA I - Il giardino della casa di Olivia

Entrano VIOLA, sempre come CESARIO, e FESTE il giullare che reca un piffero e un tamburello

VIOLA -

Salute, amico, a te e alla tua musica.

Ci vivi, eh, su questo tuo tamburo!

FESTE -

No, signore, io vivo sulla chiesa.

VIOLA -

Sei dunque un ecclesiastico?

FESTE -

No, no; dico che vivo sulla chiesa

soltanto perché vivo a casa mia:

la mia casa è alle spalle della chiesa.

VIOLA -

Potresti dire allora, tale e quale,

che il re si giace con una pezzente

se la pezzente ha casa accanto al re;

o che la chiesa se ne sta poggiata

sul tuo tamburo, solo perché questo

sta poggiato nel pressi della chiesa.

FESTE -

Giustamente, signore. Ma che tempi!

Una frase, per chi ha un po’ di spirito,

è simile ad un guanto di capretto:

si rovescia in un attimo il di dentro

e lo si fa apparir come il di fuori.

VIOLA -

Ah, sì; chi sa giocar con le parole

non mette molto a stravolgerne il senso.

FESTE -

Perciò se avessi avuto una sorella,

avrei voluto non avesse un nome.

VIOLA -

E perché, il mio uomo?

FESTE -

Perché quel nome è solo una parola,

e a divertirsi con quella parola

vorrebbe dir corromperla

e mia sorella perdere il buon nome…

Ma tant’è, le parole al giorno d’oggi

son divenute veri farabutti

da quando sono usate nei contratti.

VIOLA -

E che ragione hai tu per dire questo?

FESTE -

In verità, signore,

di ragioni non ve ne potrei dare

senza far uso anch’io delle parole

e le parole purtroppo oggigiorno

son diventate di tal falsità,

che mi ripugna per loro mezzo

dire le mie ragioni.

VIOLA -

Sei un bel tipo, tu,

e non t’importa un bel nulla di nulla.

FESTE -

Ah, no, qualcosa che m’importa c’è,

ma, in coscienza, non siete voi, signore;

e se questo significa per voi

che non c’è niente al mondo che m’importi,

vorrei che questa vostra congettura

vi rendesse invisibile e impalpabile.

VIOLA -

Non sei tu il matto di madonna Olivia?

FESTE -

Ah, no, signore mio; madonna Olivia

non s’abbandona ad alcuna follia,

non vuol tenere pazzi intorno a sé,

almeno fino a che non si mariti;

perché, vedete, un pazzo sta a un marito

come un’aringa sta ad una salacca;

dove il marito è il pesce più grosso.

Io non sono il suo matto,

sono il suo corruttore di parole.

VIOLA -

T’ho visto poca fa dal Duca Orsino.

FESTE -

La follia, mio signore, come il sole

se ne va passeggiando per il mondo,

e non c’è luogo dove non risplenda.

Mi spiacerebbe, tuttavia, signore,

ch’essa fosse compagna così spesso

al Duca padron vostro,

come lo è con la padrona mia:

ci ho visto là una punta di saggezza

da parte vostra.

VIOLA -

Eh, no, matto-buffone,

se ti vuoi divertire alle mie spalle,

io di te non ne voglio più sapere.

Tieni, per le tue spese.

(Gli dà una moneta)

FESTE -

Oh, che Giove ti mandi giù una barba

alla sua prossima distribuzione

di peli!

VIOLA -

Ti dirò, in confidenza,

che una barba mi piace da morire…

(A parte)

… anche se non ho proprio alcuna voglia

di vedermela crescere sul mento.

La tua padrona è in casa?

FESTE -

(Mostrando la moneta ricevuta)

Una coppia di questi, che ne dite,

non potrebbero metter su famiglia?

VIOLA -

Sì, se tenuti insieme e messi a frutto.

FESTE -

Sarei pronto, signore, a far la parte

anche di messer Pandaro di Frigia,

per dare una Cressida a questo Troilo.

VIOLA -

Ho capito l’antifona, messere.

Un bel modo di chieder l’elemosina.

(Gli dà un’altra moneta)

FESTE -

Non si tratta di un grosso affare, in fondo,

mendicare una mendicante, penso:

perché Cressida era una mendicante.

La mia padrona è in casa.

Saprò dir loro da dove venite,

ma chi voi siete e che cosa volete

son cose fuori dal mio firmamento.

Avrei potuto dire “il mio elemento”

ma la parola è sciupata dall’uso.

(Esce)

VIOLA -

È abbastanza assennato il giovanotto

per fare il matto; ché a farlo a dovere

ci vuole una speciale avvedutezza:

deve osservare molto attentamente

l’umore di colui che prende a gabbo,

cogliere bene il tipo ed il momento,

e, come il falco, pur cogliere a volo

ogni piuma venutagli sott’occhio:

un mestiere altrettanto faticoso

come quello del matto che fa il saggio,

giacché la matteria di cui fa sfoggio

dev’essere una forma di saviezza;

mentre i saggi, cui dia di volta il senno,

smarriscono per sempre la ragione.

Entrano ser TOBIA e ser ANDREA

TOBIA -

Salute, a voi, signore.

VIOLA -

E a voi, signore.

ANDREA -

Dieu vous garde, monsieur.

VIOLA -

Et vous aussi, monsieur, servitor vostro.

ANDREA -

Così spero, signore, ed io il vostro.

TOBIA -

Volete entrare in casa?

Mia nipote desidera che entriate,

s’è con lei che volete trafficare.

VIOLA -

A lei io son diretto, monsignore,

appunto, è lei la meta del mio viaggio.

TOBIA -

Non avete che a cimentar, signore,

le vostre gambe, mettendole in moto.

VIOLA -

Le mie gambe signore, mi sostengono

meglio di quanto io possa sostenere

di capire la vostra esortazione

di cimentarle, mettendole in moto.

TOBIA -

Volevo dire che potete entrare.

VIOLA -

Ed io sarò felice di rispondervi

col dirigermi ad infilar la porta…

Ma m’accorgo che non ce n’è bisogno.

Entrano OLIVIA e MARIA

Eccellentissima signora, specchio

d’ogni virtù, su voi piovano i cieli

i più fragranti olezzi!

ANDREA -

(A ser Tobia)

“Piovano i cieli i più fragranti olezzi…”

Perfetto cortigiano, questo giovane.

VIOLA -

La mia ambasceria, bella signora,

non ha voce che per il vostro orecchio

più pregno e comprensivo…

ANDREA -

“Fragranti olezzi”… “pregni”… “comprensivi”…

Me le voglio annotare tutte e tre,

per tenerle da parte, sottomano.

OLIVIA -

L’ingresso del giardino resti chiuso,

e mi si lasci sola al mio colloquio.

(Escono ser Tobia, ser Andrea e Maria)

Porgetemi la mano, giovanotto.

(Viola le porge la mano, Olivia la trattiene nella sua, scrutandola)

VIOLA -

I miei doveri con essa, signora,

ed i miei più umili servigi.

OLIVIA -

Il vostro nome?

VIOLA -

Mi chiamo Cesario,

per servirvi, leggiadra principessa.

OLIVIA -

Per servirmi, signore?…

Sono finiti nel mondo i bei tempi,

da quando s’è chiamato complimento

ogni bassa e servile adulazione.

Voi siete il servitore, giovanotto,

del conte Orsino.

VIOLA -

Ed egli l’è di voi;

ed il suo servitore è anche il vostro,

signora; chi del vostro servitore

è servitore è vostro servitore.

OLIVIA -

A lui non penso; e quanto ai suoi pensieri,

vorrei che fossero uno spazio vuoto

anziché tutto inzeppato di me.

VIOLA -

Signora, io vengo appunto a nome suo

a stimolare in voi dolci pensieri.

OLIVIA -

Ah, no, vi prego fatemene grazia!

V’ho già pregato di non più parlarmene.

Ma se voleste darvi a perorare

per qualcun altro, starò ad ascoltarvi

meglio che se dovessi udire musica

dalle celesti sfere.

VIOLA -

Ma, signora…

OLIVIA -

Lasciatemi parlare, ve ne prego.

A seguito dell’ultimo incantesimo

qui da voi operato,

mandai di corsa sulle vostre tracce;

un mio anello, ingannando me stessa,

il mio servo, e, così credo, anche voi.

Per avere tentato di costringervi

ad accettar come restituito

un oggetto che sapevate bene

non esser vostro, con una manovra

che non ridonda certo a mio decoro,

devo essermi esposta certamente

ad esser da voi mal giudicata.

Che cosa mai penserete di me?

Non avete per caso messo al palo

dentro di voi la mia reputazione,

sguinzagliandovi contro

i pensieri più crudi ed impietosi

che possa concepire un cuor tiranno?…

Ho già detto abbastanza

a buon intenditor quale voi siete.

Non un petto, ma un velo sottilissimo

cela ormai il mio cuore agli occhi vostri.

Ed ora son qui pronta ad ascoltarvi.

VIOLA -

Vi compatisco.

OLIVIA -

Questo è già un gradino

sulla scala che va verso l’amore.

VIOLA -

No, non è questo: è comune esperienza

compatire assai spesso anche i nemici.

OLIVIA -

Qui davvero mi par giunto il momento

di tornare a sorridere: o mondo,

com’è facile a inorgoglirsi il povero!

Se s’ha da cader preda d’una belva,

quant’è meglio cadere nelle fauci

d’un leone piuttosto che d’un lupo!

(Un orologio batte l’ora)

L’orologio m’invia il suo rimprovero

per il tempo che sto perdendo invano.

Non temete, cortese giovanotto,

non siete voi ch’io voglio…

anche se penso che quando l’età

e lo spirito vostro saran giunti

al tempo del raccolto, vostra moglie

avrà potuto ben mietersi un uomo

cui non mancherà nulla.

La vostra strada è là, in quel sentiero

che volge ad occidente.

VIOLA -

E avviamoci allora ad occidente!

Restino gentilezza e buona grazia

al servizio di vostra signoria.

Non avete da dir nulla, signora,

al mio padrone?

OLIVIA -

Fermati, ti prego,

e dimmi quello che pensi di me!

VIOLA -

Penso che voi pensiate

d’esser diversa da quella che siete.

OLIVIA -

Se così penso io, penso lo stesso

a quel che pensi d’esser tu di te.

VIOLA -

Pensate giusto, allora:

perch’io non sono affatto quel che sono.

OLIVIA -

Vorrei che foste quello ch’io vorrei.

VIOLA -

Pensate forse che sarei migliore

di quel che sono? Lo vorrei anch’io,

perché come sono ora

sono soltanto il vostro passatempo.

OLIVIA -

(A parte)

Ah, com’è bello quel moto di sdegno

che gli atteggia le labbra ad ira e sprezzo!

Non si svela da sé più prestamente

in viso al reo la colpa del delitto,

come l’amore quando vuol nascondersi.

La notte dell’amore è il mezzogiorno.

(Forte)

Cesario, per le rose maggioline,

per la verginità e l’onor mio di donna,

per la lealtà e per quant’altro al mondo,

io sono innamorata di te al punto

che, nonostante tutto il tuo orgoglio,

m’accorgo che né ragione né calcolo

m’aiutano a celar la mia passione.

Non estorcer da questa confessione

ragioni per pensare, alla tua volta,

che siccome son io che chiedo amore,

tu non debba richiederne per te;

ma coniuga ragione con ragione:

bello è l’amore chiesto supplicando,

ma più bello di questo

l’amor che si concede non richiesto.

VIOLA -

Sulla mia innocenza

e sulla mia giovinezza io giuro,

d’avere un cuore, un petto ed una fede,

e che nessuna donna fuor che me

potrà vantarsi mai di possederli.

E così vi saluto, mia signora,

non verrò più a lagnarmi innanzi a voi

delle lacrime del padrone mio.

OLIVIA -

E tuttavia ritorna:

perché forse, chissà, potresti muovere

questo mio cuore a indurmi ad accettare

l’amore suo, dal quale adesso aborre.

(Escono)




SCENA II - L’interno della casa di Olivia

Entrano ser TOBIA, ser ANDREA e FABIANO

ANDREA -

No, in fede mia, non voglio rimanere

un minuto di più.

TOBIA -

E la ragione, dolce mio veleno?

Voglio sapere la vostra ragione.

FABIANO -

Eh, sì, dovete dirla la ragione,

ser Andrea.

ANDREA -

Semplicissima, per Giove:

ho visto io stesso la vostra nipote

concedere a quel lacchè del conte

più grazie ch’ella si sia mai degnata

spendere per me.

L’ho visto coi miei occhi nel giardino.

TOBIA -

E v’ha visto ella mentre guardavate,

vecchio ragazzo? Ditemi, v’ha visto?

ANDREA -

Così bene com’io vedo ora voi.

FABIANO -

Quella, se posso dir la mia opinione,

l’ha fatto per offrirvi un gran prova

del suo amore per voi.

ANDREA -

Alla buon’ora!

Diamine, mi prendete per un asino?

FABIANO -

Lungi da me; vi proverò che è vero

quel che ho detto col doppio giuramento

della ragione e dell’intelligenza.

TOBIA -

Che furon sempre giudici famosi

anche prima del tempo che Noè

si dedicasse a fare il marinaio.

FABIANO -

Ella ha voluto, sotto i vostri occhi,

mostrare i suoi avori a quel valletto

per provocarvi e risvegliare in voi

l’assopito coraggio,

e per dar nuovo fuoco al vostro cuore

e zolfo al vostro fegato.

Vi sareste dovuto avvicinare

e con un qualche frizzo spiritoso

coniato lì per lì

tappar la bocca a quel giovanottello.

Questo, sono sicuro, ella attendeva,

e tuttavia l’attesa andò delusa;

e così avete lasciato che il tempo

lavasse via la doppia doratura

di questa favorevole occasione:

siete tornato a navigar lontano

dall’opinione della mia padrona

e là, ho paura, resterete in bilico

come un ghiacciolo appeso alla barbetta

d’un olandese; salvo che a redimervi

non diate prova di qualche bel gesto

di politica o di cavalleria.

ANDREA -

Se devo dare comunque una prova,

dev’essere una prova di coraggio,

perché ho in odio tutto che è politica;

preferirei diventare braunista,

anziché praticare la politica.

TOBIA -

Allora non vi resta, cavaliere,

che edificare le vostre fortune

sulla base esclusiva del coraggio.

Sfidatemi quel giovane del Duca

a misurarsi a singolar tenzone

e assestategli undici ferite;

mia nipote ne prenderà ben nota

e state pur sicuro, amico mio,

che non c’è al mondo migliore mezzadro

d’amore di una donna per un uomo,

che il sentire esaltare il suo coraggio.

FABIANO -

È vero, ser Andrea, non c’è altra via.

ANDREA -

Posso pregare uno di voi due

di recargli la sfida?

TOBIA -

Certamente.

Non esitate, su, correte a scriverla,

e con mano marziale. Siate breve,

ma grintoso: che sia più o meno arguta,

importa poco, basta che sia scritta

con eloquenza ed immaginazione.

Ditegli il fatto suo

con la licenza permessa all’inchiostro.

E tanto meglio se tre o quattro volte

gli darete del “tu”, e sbugiardatelo

per quante volte v’entrano nel foglio,

fosse pur questo largo da coprire

il gran letto di Vare in Inghilterra.

Su, non perdete tempo.

E che nel vostro inchiostro ci sia fiele,

non importa che vi serviate, a scriverlo,

con una penna d’oca. Avanti, all’opera!

ANDREA -

Dov’è che vi ritrovo?

TOBIA -

Verremo a prendervi al vostro cubicolo

noi stessi.