“Non ha diciotto anni.”
Raccontai la storiella a Clelia e Doro, e descrissi la visita che Berti mi fece il mattino dopo in cima alla scale tendendomi la mano e dicendo: “Visto che ora sa dove abito, è meglio essere amici”.
“Vedrai che quello ti chiede anche la stanza,” disse Doro.
Incoraggiato dall'attenzione di Clelia, dissi di più. Presi a spiegare che la sfacciataggine di Berti era soltanto timidezza che per autodifesa diventava aggressiva. Dissi che l'anno avanti, prima di scomparire e probabilmente mangiarsi i denari che avrebbe dovuto spendere con me, quel ragazzo dava segni di soggezione e vedendomi mi faceva un inchino impacciato. Gli era accaduto quel che succede a tutti: la realtà si travestiva nel suo opposto. Come gli animi teneri che si atteggiano a ruvidezza. “Io lo invidiavo,” dissi, “perché, ragazzo com'era, poteva ancora illudersi sulla sue indole vera.”
“Penso,” disse Clelia, “che io dovrei essere di carattere chiuso, diffidente e perverso.”
Doro sorrise senza parlare. “Doro non ci crede,” dissi, “ma anche lui, quando fa il brusco, è quando ha voglia di piangere.”
La cameriera che ci cambiava i piatti, si fermò ad ascoltare. Divenne rossa, e si affrettò. Ripresi: “Fin da ragazzo era così. Me lo ricordo. Era di quelli che si offendono se gli chiedi come stanno”.
“Sarebbe facile, se fosse vero, capire la gente,” disse Clelia.
Questi discorsi cessavano quando dopo cena venivano gli altri. C'era il solito Guido, che se lasciava l'automobile era soltanto per giocare a carte, c'era qualche signora, delle ragazze, mariti saltuari - il crocchio genovese, insomma. Non era per me una novità che più di tre persone fanno folla, e nulla si può dire allora che valga la pena. Quasi preferivo le notti che si prendeva l'automobile e si correva la costa in cerca di fresco. Succedeva che su qualche belvedere, mentre tutti ballavano, io potevo a volte scambiare quattro chiacchiere con Doro o con Clelia, o dire convinte sciocchezze a qualcuna delle signore. Bastava allora un bicchierino e la brezza del mare, per rimettermi in sesto.
Di giorno sulla spiaggia era un'altra cosa. Si parla con strana cautela quando si è seminudi: le parole non suonano più nello stesso modo, a volte si tace e sembra che il silenzio schiuda da sé parole ambigue. Clelia aveva un modo estatico di godersi il sole stesa sulla roccia, di fondersi con la roccia e appiattirsi al cielo, rispondendo appena con un susurro, con un sospiro, con un sussulto del ginocchio o del gomito, alle brevi parole di chi le fosse accanto. Mi accorsi ben presto che, stesa così, Clelia non ascoltava veramente nulla. Doro, che lo sapeva, non le parlava mai. Stava seduto sul suo asciugamano con le ginocchia tra le dita, fosco, inquieto; non si stendeva come Clelia; se qualche volta ci si provava, dopo pochi minuti eccolo a torcersi, a voltarsi sul ventre, o a risedersi come prima.
Ma non si era mai soli. Tutta la spiaggia brulicava e vociava - per questo Clelia alla sabbia di tutti preferiva gli scogli, la pietra aura e sdrucciolevole. Nei momenti che si rialzava, scuotendo i capelli intontita e ridente, ci chiedeva di che cosa avevamo parlato, guardava chi c'era. C'erano amiche, c'era Guido, c'era tutta la compagnia. Qualcuno usciva allora dall'acqua. Qualche altro c'entrava guardingo. Guido col suo accappatoio di spugna bianca arrivava con sempre nuove conoscenze che ai piedi dell'ombrellone congedava. E poi saliva sullo scoglio e canzonava Clelia, e non entrava mai in mare.
L'ora più bella era il mezzodì passato o il tramonto, quando il tepore o il colore dell'acqua inducevano i più restii a bagnarsi o a passeggiare per la spiaggia, e si restava quasi soli, tutt'al più con quel Guido che discorreva amabilmente. Doro che aveva la malinconia di distrarsi coi pennelli, piazzava a volte un cavalletto sullo scoglio e dipingeva barche, ombrelloni, chiazze di colore, contento di guardarci dall'alto e ascoltare le nostre ciance. A volte qualcuno del gruppo arrivava in barca, e accostava con cautela e ci chiamava.
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