ADRIANO -

… ci dev’esser nell’aria tutt’intorno

una sottile, fine temperanza…

ANTONIO -

“Temperanza” era infatti una donzella

sottile e delicata(31)…

SEBASTIAN -

… ed anche fine,

com’egli ha sì sapientemente detto.

ADRIANO -

Qui l’aria spira dolce, delicata…

SEBASTIAN -

… come avesse i polmoni cagionevoli…

ANTONIO -

… o sentisse un profumo di palude.

GONZALO -

E c’è tutto che serve per campare.

ANTONIO -

È vero; solo che mancano i mezzi.

SEBASTIAN -

Ah, di quelli ce ne son pochi o nulli.

GONZALO -

E come l’erba appare tutt’intorno

d’una freschezza rigogliosa, verde…

ANTONIO -

In verità il terreno appare bruno…

SEBASTIAN -

… e il verde occhieggia solo un po’ qua e là.

ANTONIO -

Beh, non s’è mica sbagliato di molto.

SEBASTIAN -

No, s’è soltanto sbagliato di tutto.

GONZALO -

… ma la cosa più strana, inusitata,

direi quasi incredibile, si è…

SEBASTIAN -

… come tutte le cose inusitate…

(31) Si gioca sulla parola “temperanza” ( “temperance” ), che Adriano intende come quella del clima, mentre Antonio finge di intendere la temperanza “virtù”, una delle più rigorosamente osservate dai puritani, che davano spesso questo nome alle loro figlie. I sarcasmi verso le bigotterie puritane sono frequenti in Shakespeare.

GONZALO -

… che le robe di queste nostre vesti

quantunque siano state, e lo son state,

inzuppate dal mare, e come bene,

hanno serbato freschezza e colore

quasi, non che gualcite all’acqua salsa

fossero state tutte tinte a nuovo.

ANTONIO -

Se sol potesse parlare una tasca,

non direbbe ch’egli racconta frottole?

SEBASTIAN -

Sì, se non fosse tanto disonesta

da mettersele in tasca, e zitto e mosca.

GONZALO -

Si direbbe che queste nostre vesti

abbian serbato tutta la freschezza

di quando le indossammo il primo giorno,

pel matrimonio della principessa

figlia del re, la bella Claribella,

col re di Tunisi.

SEBASTIAN -

Gran belle nozze!

E che bella fortuna abbiamo avuto

a ritornare a casa sani e salvi.

ADRIANO -

Tunisi non aveva avuto mai

la grazia, prima d’ora, d’un gioiello

di regina di tale perfezione.

GONZALO -

No, da quando la vedova Didone…

ANTONIO -

Vedova un corno! Che c’entra la vedova?

Sentitelo! La “vedova Didone”!…

SEBASTIAN -

Eh, come la prendete, Santo Dio!

E che, allora, se avesse ricordato

anche il “vedovo Enea”?…

ADRIANO -

La “vedova Didone” avete detto?

Ma quella, ora che ci penso meglio,

non era affatto regina di Tunisi,

ma di Cartagine.

GONZALO -

E Tunisi, signore, era Cartagine.

ADRIANO -

Cartagine?

GONZALO -

Sì, sì, parola mia.

ANTONIO -

Eh già, “parola sua”: la sua parola

è più potente dell’arpa di Anfione(32).

SEBASTIAN -

Ha innalzato le mura di Cartagine,

con le case, coi tetti e tutto il resto.

ANTONIO -

Chi sa allora che nuovo impossibile

combinerà altrettanto facilmente.

SEBASTIAN -

Mettersi in tasca magari quest’isola

come una mela e portarsela a casa,

in regalo a suo figlio.

ANTONIO -

E cospargere il mare di sementi

per far nascer qua e là tanti isolotti.

ALONSO -

( Come trasalendo, svegliato dalle sue meditazioni)

Eh, già…

ANTONIO -

( Vedendolo finalmente partecipare al colloquio)

Alla buon’ora(33)!…

GONZALO -

( Al re, come continuando un discorso interrotto)

Si diceva, signore, che i nostri abiti

sembrano affatto nuovi,

come quando li abbiam portati a Tunisi

al matrimonio della vostra figlia,

ora regina.

ANTONIO -

Ed anche la più splendida

che Tunisi abbia visto fino ad oggi.

SEBASTIAN -

Escludendo, però, mi raccomando,

la vedova Didone.

ANTONIO -

Ah, sì, sì, certo:

Didone vedova! Didone vedova!

(32) “His word is more than miraculous arp” : l’“arpa miracolosa” evocata da Antonio è quella del mitologico eroe greco Anfione, figlio di Giove e di Antiope, a lui donata da Apollo, in verità una cetra (all’epoca l’arpa non si conosceva); egli ne traeva suoni così dolci da muovere i sassi, sicché con essi riuscì ad edificare senza alcuno sforzo le grandiose mura di Tebe (cfr. Dante, Inferno, XXXII, 10-11: “Ma quelle donne (le Muse, divinità del canto e della danza, condotte da Apollo) aiutino il mio verso / che aiutaro Anfione a chiuder Tebe”.

(33) Queste due battute sono controverse. La prima è attribuita generalmente a Gonzalo: la grafia dell’“in-folio” ha un

“I” , invece dell’ormai pacifico “Ay” , che potrebbe corrispondere al pronome “Io”, ma senza punto interrogativo, che tutti i curatori hanno giudicato necessario per dare un senso all’ “Ay…” di Gonzalo.