Spesso vedevo, nella mia mente, il terribile collegio dei professori (il ginnasio è soltanto l’esempio più unitario, ma dappertutto intorno a me le cose erano analoghe) che, quando ebbi superato la prima, e quindi in seconda, e poi quando ebbi superato anche questa in terza e così via, si sarebbero radunati per indagare su questo caso singolarissimo, che gridava vendetta: ovvero sul fatto che io, il più incapace e comunque il più insipiente, fossi riuscito a infiltrarmi fino in questa classe che, essendo l’attenzione di tutti rivolta a me, mi avrebbe naturalmente vomitato fuori, tra il giubilo di tutti i giusti liberati da questo incubo. Per un bimbo non è certo facile vivere con queste idee. Che cosa me ne importava, in queste circostanze, della lezione? Chi era in grado di strapparmi una scintilla di partecipazione? La lezione - e non soltanto la lezione, ma tutto quello che mi circondava, in questa età decisiva - mi interessava come può interessare la quotidiana routine di banca, che in qualità di impiegato debba continuare a svolgere, a un dipendente che si sia macchiato di furto e tremi all’idea di essere scoperto.
Era tutto così piccolo e lontano, accanto alla cosa principale. Si arrivò così alla maturità, che in parte superai davvero con l’imbroglio, e poi basta, adesso ero libero. Se già nonostante la coercizione del ginnasio mi ero curato solo di me stesso, a maggior ragione adesso che ero libero. Intanto una vera libertà nella scelta della professione per me non si dava, lo sapevo: rispetto alla cosa principale mi era tutto indifferente, come le materie insegnate al ginnasio; si trattava quindi di trovare una professione che, senza ferire troppo la mia vanità, permettesse questa indifferenza con la massima onestà possibile. Era quindi ovvio che mi iscrivessi a giurisprudenza. Piccoli tentativi in senso contrario, frutto di vanità e di insensata speranza, come quattordici giorni alla facoltà di chimica e un semestre in quella di tedesco, si limitarono a rafforzare questa convinzione di fondo.
Studiai così giurisprudenza. Questo significò che un paio di mesi prima degli esami, con grande coinvolgimento dei miei nervi, la mia mente si nutriva letteralmente della segatura che per giunta mi era già stata premasticata da migliaia di bocche. Ma in un certo senso mi piaceva, come, volendo, il ginnasio prima e il lavoro d’ufficio poi, perché tutto questo corrispondeva perfettamente alla mia situazione. A ogni modo dimostrai qui una preveggenza stupefacente: già da bimbetto avevo idee abbastanza chiare sugli studi e sulla professione. Da qui non mi aspettavo salvezza alcuna, avevo rinunciato già da tempo.
Non avevo però idee di sorta sul significato e sulla possibilità, per me, di un matrimonio; questo che sinora è stato il più grosso sgomento della mia vita si è abbattuto su di me in modo quasi inaspettato. Il bimbo si era evoluto così lentamente e queste cose, esteriormente, gli erano anche troppo lontane; ogni tanto gli si presentò la necessità di pensarci; ma non si poteva certo affermare che questi momenti lo avessero preparato a una prova duratura, decisiva e addirittura esasperata. In realtà però i tentativi di matrimonio divennero il più grandioso e speranzoso tentativo di salvezza, e altrettanto grandioso fu poi, di conseguenza, anche il loro fallimento.
Temevo, poiché in questo campo niente mi riesce, di non riuscire neppure a farti comprendere questi tentativi. E tuttavia da questo dipende il successo di tutta la lettera, perché in questi tentativi erano raccolte tutte le forze positive di cui io disponevo e, d’altra parte, vi si raccoglievano anche, e con furore, tutte le forze negative che ho descritto quale risultato collaterale della tua educazione, quindi la debolezza, la mancanza di fiducia in me stesso, il senso di colpa, che letteralmente costituivano un cordone teso tra me e il matrimonio. La spiegazione mi riuscirà difficile, anche perché vi ho riflettuto e rimuginato per tanti giorni e tante notti che anche a me si confondono già le idee. Mi sarà però facilitata, la spiegazione, da quello che immagino sia il tuo completo fraintendimento della faccenda; migliorare un po’ un fraintendimento così totale non mi sembra eccessivamente difficile.
In primo luogo tu collochi il fallimento delle mie intenzioni matrimoniali nella serie degli altri miei insuccessi: e io non avrei niente in contrario, purché tu accettassi la spiegazione che di tali insuccessi ho dato sino a questo momento. Si colloca infatti in questa serie, solo che tu sottovaluti il significato della cosa, e lo sottovaluti al punto che noi, quando ne parliamo assieme, parliamo davvero di due cose completamente diverse. Oso dire che in vita tua non ti è mai successo niente che abbia avuto per te un significato simile a quello dei miei tentativi di matrimonio. Con questo non voglio dire che tu non abbia vissuto niente di così significativo: al contrario, la tua vita è stata molto più ricca e piena di pensieri e intensa della mia, ma proprio per questo non ti è successo niente di simile. È come se uno dovesse salire cinque gradini bassi e un altro un gradino soltanto che però, almeno per lui, è alto come quei cinque messi insieme: il primo supererà non soltanto i primi cinque, ma altri cento e altri mille, la sua vita sarà grandiosa e molto faticosa, ma nessuno dei gradini che ha superato avrà per lui un’importanza pari a quell’unico, primo, alto gradino dell’altro, che le sue forze non sono in grado di superare e al di sopra e al di là del quale naturalmente non riesce ad arrivare.
Sposarsi, metter su famiglia, accogliere tutti i figli che verranno, mantenerli in questo mondo incerto e magari guidarli anche un po’ è, ne sono convinto, il compito estremo che un essere umano può riuscire a svolgere. Il fatto che apparentemente a molti riesca così facilmente non è una prova contraria, in primo luogo perché in effetti non riesce a molti e poi perché questi “non molti” perlopiù non “fanno” niente, a loro “capita” così; e allora non si tratta più di quel compito estremo, per quanto sia cosa grande e ammirevole (in particolare laddove non si può tracciare una distinzione precisa tra “fare” e “capitare”). E infine non si tratta neppure di questo compito estremo, ma soltanto di un qualche avvicinamento a esso, da lontano, seppure decente; non è mica necessario levarsi in volo fino al sole, basta strisciare fino a un posticino pulito sulla terra dove ogni tanto il sole faccia la sua comparsa e ci si possa riscaldare un po’.
Com’ero preparato a tutto ciò? Nel peggior modo possibile.
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