D’altra parte comunicai alla mia servitù che un tal signor Hyde (e lo descrissi loro) doveva avere piena libertà e autorità nella mia casa sulla piazza e, per evitare equivoci, mi feci parecchie visite e mi resi familiare nel mio secondo personaggio. Quindi scrissi quel testamento che voi disapprovaste tanto; secondo il quale, ove mi fosse capitato qualcosa nei panni del dottor Jekyll, potevo servirmi di quelli di Edward Hyde senza subire alcun danno finanziario. E così, fortificato contro ogni evenienza — almeno lo supponevo — cominciai a trar profitto dalla sorprendente immunità della mia condizione.
Un tempo certi assoldavano dei bravacci che commettessero per loro delitti mentre la loro persona e la loro reputazione restavano al sicuro. Io fui il primo a commettere delitti direttamente e per il mio piacere. Io fui il primo a poter camminare davanti al mondo con un’aureola di rispettabilità geniale, che poi potevo, in un attimo, abbandonare, come uno scolaretto, per buttarmi a capofitto nel mare dell’arbitrio. Per me, avvolto nel mio impenetrabile mantello, la sicurezza era completa. Pensate, non esistevo neppure! Tornato nel mio laboratorio, trangugiavo in uno o due secondi la pozione che tenevo sempre pronta, ecco quanto bastava perché Edward Hyde scomparisse così come scompare l’appannatura fatta dall’alito su uno specchio; e, al suo posto, sereno nella sua casa, era di nuovo il dottor Jekyll che regolava la lampada per la notte, per continuare i suoi studi, in grado di ridersi d’ogni sospetto.
I piaceri, che subito cercai nel mio travestimento, erano, l’ho già detto, poco decorosi, l’uso d’un termine più forte non sarebbe stato opportuno. Ma nelle mani di Edward Hyde cominciarono immediatamente a divenir mostruosi. Al mio rincasare da simili escursioni, mi capitava spesso di meravigliarmi della depravazione dell’altro me stesso. Quell’essere da me evocato fuori del profondo del mio animo e da me inviato per il mondo alla caccia del piacere, era essenzialmente maligno e perverso; ogni sua azione, ogni suo pensiero servivano solo al suo appagamento; con bestiale avidità beveva il piacere dei tormenti altrui; ed era spietato come se fosse fatto di pietra. A Henry Jekyll toccava a volte spaventarsi davanti agli atti di Edward Hyde; ma la situazione era così fuori d’ogni legge ordinaria, e insidiosamente indeboliva la vigilanza della coscienza. In fin dei conti era Hyde, e Hyde soltanto, il colpevole di tutto. Jekyll non diventava certamente peggiore a causa dell’altro; si risvegliava con tutte le sue ottime qualità apparentemente inalterato; anzi, era capace di affrettarsi a por rimedio, quando era possibile, alle malefatte di Hyde. E così la sua coscienza si addormentava.
Non voglio entrare nei particolari delle infamie delle quali fui connivente (anche adesso mi riesce difficile l’ammissione di averle commesse). Voglio solo descrivere i fatti che seguirono e l’approssimarsi del mio castigo. Mi capitò un incidente che mi limiterò a menzionare, dato che fu privo di conseguenze. Un atto di crudeltà compiuto contro una bimba suscitò contro di me l’indignazione d’un passante che l’altro giorno riconobbi nella persona di vostro cugino; un medico e la famiglia della piccola si unirono a costui; per qualche minuto temetti per la mia vita; e, finalmente, per pacificare il loro giusto risentimento, Edward Hyde fu obbligato a guidarli sino alla porta che conoscete e a versare loro un assegno firmato da Henry Jekyll. Un pericolo simile venne eliminato per l’avvenire con l’apertura di un conto in un’altra banca al nome di Edward Hyde stesso, e, quando, con l’alterazione della mia scrittura, riuscii a rifornire di firma il mio «doppio», mi reputai davvero al riparo dai colpi del fato.
Due mesi circa prima dell’uccisione di Sir Danvers, ero uscito per una delle mie imprese notturne ed ero rincasato tardissimo, e la mattina mi svegliai in letto in preda a strane sensazioni. Invano guardavo intorno a me il mobilio elegante e le ampie dimensioni della mia camera che dava sulla piazza; invano riconoscevo il modello dei cortinaggi e il disegno della intelaiatura in mogano del letto; insistentemente qualcosa mi ripeteva che non ero dove ero, che non mi ero affatto svegliato là dove mi pareva d’essere, bensì nella stanzuccia di Soho ove avevo l’abitudine di dormire nelle spoglie di Edward Hyde. Sorrisi di me stesso e, assecondando la mia mania di studiare tutto psicologicamente, presi ad analizzare gli elementi di tale illusione e, mentre pensavo, mi lasciavo ogni tanto riprendere dal confortevole torpore mattutino. Mi trovavo in tale stato, quando, in un momento di perfetta lucidità, i miei occhi si posarono su una mia mano. Ora, la mano di Henry Jekyll (come voi l’avete spesso notata), era professionale nella forma e nelle dimensioni: era grande, ferma, bianca e ben fatta. Ma la mano che ora vedevo abbastanza bene nella giallastra luce di quella mattina londinese, la mano che giaceva semichiusa sul risvolto del lenzuolo era magra, nodosa, aveva un tetro pallore ed era ricoperta da peli scuri. Era la mano di Edward Hyde.
Dovetti stare a guardarla per quasi mezzo minuto, istupidito dalla meraviglia, prima che il terrore mi penetrasse nel petto, improvviso e spaventoso, come uno strepito di cimbali; saltando fuori dal letto, corsi a specchiarmi. Quanto vidi mi ghiacciò il sangue nelle vene. Sì, ero andato a letto Henry Jekyll e mi ero svegliato Edward Hyde. Come poteva spiegarsi un fatto simile? Lo domandai a me stesso; e, subito dopo, in un nuovo impeto di terrore mi rivolsi un’altra domanda: come potevo rimediare a tutto ciò? Era ormai mattina avanzata, la servitù era già in piedi, tutti i miei preparati si trovavano nel mio gabinetto e, per arrivarvi da dove me ne stavo inorridito, dovevo compiere un lungo tragitto, scendere due scale, attraversare il corridoio, il cortile, la sala d’anatomia. Avrei forse potuto coprirmi la faccia; ma a quale scopo, quando non potevo celare l’alterazione della mia statura? Poi, con un profondo senso di sollievo, mi sovvenni che i miei servitori erano abituati a vedere andare in su e giù quel secondo me stesso. Mi vestii in fretta e furia, meglio che potei, con gli abiti della mia misura: attraversai le stanze ove Bradshaw spalancò gli occhi e indietreggiò nel vedere il signor Hyde a quell’ora e con quello strano abbigliamento; dieci minuti più tardi il dottor Jekyll era ritornato nel proprio aspetto, e sedeva, con le ciglia aggrottate, facendo finta d’interessarsi alla colazione.
Ma non avevo sicuramente appetito. Quell’inesplicabile incidente, quel capovolgimento delle mie precedenti esperienze, parevano compitare, come il dito babilonese sul muro7, le lettere della mia condanna; e io presi a riflettere più seriamente di quanto avessi mai fatto alle conseguenze e alla possibilità della mia doppia esistenza.
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