Finalmente una donna apparve, in alto, con un recipiente di latta in mano, e Marianna s’accorse ch’era rimasta sul portone per questo, per dimostrare alla sua serva che era tempo di libertà: da lontano infatti la vide corrugare le sopracciglia fitte grigie sugli occhi rotondi di vecchia aquila, ma non si ritrasse. La donna affrettò il passo: i suoi grossi scarponi risuonavano sul selciato come ferri di cavallo, e tutta la persona alta, dura, fasciata dal costume barbaricino, aveva qualche cosa di ferrigno, di protervo, già vecchia eppure ancora indomita.

«Che guardi?», domandò alla padrona spingendola lievemente nel passare.

«Ero con Sebastiano», rispose Marianna; e subito le vide negli occhi il sospetto.

«A quest’ora? Che voleva?»

«Voleva rubarmi!», disse lei ridendo, mentre la serva chiudeva a chiave il portone.

Purché il portone fosse chiuso bene e Marianna dentro quieta silenziosa a lavorare, la serva non domandava altro: lavorava anche lei, taceva anche lei: solo il suo passo risuonava in tutta la casa facendo tremare i pavimenti.

Eccola, infatti, dopo aver rimesso in ordine le camere, seduta per terra, nella stanza terrena attigua alla cucina, a stacciare la farina d’orzo per il pane degli uomini dell’ovile.

Il rumore dello staccio dà un senso di sonnolenza a Marianna seduta anche lei presso la finestra a cucire; il suo pensiero è lontano; invece delle canne e dei piccoli ciliegi dell’orticello i boschi della Serra e i monti azzurri le si stendono davanti; e la vita le pare un sogno. Per scuotersi talvolta si alza, va fuori nel cortile, s’avvicina al pozzo e, senza volerlo, vi guarda dentro; ma la sua immagine sola si riflette nell’acqua ferma metallica e rotonda come uno specchio brunito: egli non è più neppure lì, è in un luogo ancora più profondo e misterioso.

Marianna rientra, e dà un’occhiata all’opera della serva: la serva, a sua volta, ha sollevato il viso per sorvegliarla, e visto che il portone non è stato aperto e la padrona non è uscita di casa, continua la sua faccenda: senza il movimento delle braccia lunghe che agitano lo staccio entro il grande canestro d’asfodelo, parrebbe, coperta com’è di farina fino alla cuffia, una statua di pietra imbiancata da un poco di nevischio.

E Marianna ritorna al suo seggiolino presso la finestra; ma le ore sono lunghe a passare; mai le sono parse così lunghe. Si alza di nuovo e va su nella sua camera, e apre la cassa e vede tutte le sue cose in ordine; ma il corsetto ben 21

ripiegato con le maniche distese e i bottoni d’argento abbandonati uno su l’altro, e la tunica anch’essa ben distesa, coi gheroni riuniti, il nastro rosso in fondo, le dànno l’idea di una Marianna morta, distesa entro la bara pronta alla sepoltura.

Tutto il passato le appariva così, morto, tagliato di netto dalla sua vita come un ramo inutile dall’albero. Chiuse la cassa e andò nelle altre camere; ma in tutte, a cominciare da quella che era stata del canonico, col letto ancora coperto dalla coltre verde, il ritratto del prete sopra il cassettone, i libri nella libreria dai vetri smerigliati, gravava un odore di chiuso, di umido, di sotterraneo.

Allora salì nella soffitta. Era una vasta stanza sotto il tetto a pendìo, abbastanza alta, con due finestrini dai quali si dominava il cortile e la strada, e si vedevano gli orti, la valle e la montagna. Dalle travi pendevano grappoli d’uva e di pere, sul pavimento si stendevano le mandorle dorate e i pomi di terra ancora gialli come mele: e c’era anche il pane, nei canestri; il pane grigio d’orzo per l’ovile, il pane scuro per la serva, il pane bianco per lei; e la farina e la pasta, e i legumi e tutte le provviste che occorrono in una casa per bene: nulla mancava: e in un angolo, tra i due finestrini, c’era infine il giaciglio della serva, un lettino basso di legno tarlato con una rozza coperta di lana grigia e nera che pareva la pelle di una tigre.

Marianna ci si sedette sopra, ricordando tante cose. L’aria fragrante passava da un finestrino all’altro, e si vedeva il cielo azzurro sopra l’Orthobene, con una nuvoletta rossa come un fiore. Voci lontane vibravano nel silenzio, e a lei pareva di sentire ancora le voci della tanca; eppure riviveva nel passato, ricordava il giorno quando suo padre e sua madre l’avevano condotta per mano in casa dello zio, e le avevano fatto vedere le camere, la scala e quella soffitta piena di ogni ben di Dio. Anche allora s’era seduta sul lettuccio, toccando con la manina bruna la coperta ruvida, pensando che non avrebbe più giuocato scalza nella strada, non sarebbe più andata alla fonte, di sera, coi ragazzi, non avrebbe più potuto dir male parole e bestemmie se non fra sé sottovoce. Addio, libertà; bisognava tener sempre le scarpe, le scarpe nuove pesanti che le pareva le tirassero giù le gambe, gliele allungassero, le fermassero i piedi al suolo costringendola a meditare sui passi che voleva fare.

Nei primi tempi la serva Fidela l’aveva distratta coi suoi racconti e i suoi modi strani. Ecco, si rivedeva coricata in fondo al lettuccio, coi grossi piedi duri della serva sulla schiena. Con tanti letti larghi e piccoli in casa, con tante camere vuote, Fidela voleva dormire lassù, e raccontava perché.

«Devi sapere che qui, se si sente un rumore, c’è modo di guardare e di vedere da ogni parte.»

Infatti spesso la notte si alzava e si sporgeva da un finestrino e dall’altro: Marianna, sollevata ansiosa a metà sul lettuccio, la seguiva con gli occhi ardenti nella penombra, se c’era la luna: e la intravedeva tutta nuda ma con la cuffia, grande e dura come una statua di legno che si muovesse per opera di magìa. E aveva paura, Marianna, aveva paura di tutto, della serva in agguato al finestrino, dei rumori di fuori, e sopratutto se non si sentivano ma dovevano da un momento all’altro risuonare; degli oggetti che si intravedevano in fondo alla soffitta, dei grappoli neri che pendevano come teste scarmigliate dalle travi oblique: aveva paura di tutto, eppure la sua paura le piaceva e di giorno, quando si annoiava od era costretta a stare ad occhi bassi sospesa davanti allo zio, pensava con gioia alle ore della notte, alla vita misteriosa della soffitta, ai racconti della serva.

«Racconta, racconta! Quando eri là, in casa dei tuoi padroni… allora?

Allora?… Racconta o salto giù», diceva agitando la coperta, quando Fidela tornava a letto.

«Allora… aspetta… cosa dicevo? Ma sta ferma, cavalletta!»

«Ricomincia da principio: tienimi i piedi, Fidela!»

Fidela le teneva i piedini fra le sue ginocchia di pietra, e ricominciava.

«Dunque devi sapere che a quell’età, a quindici o sedici o diciotto anni, non so bene, ero serva in casa di Cristina Zandu.