Poté così, fermo
sull'entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la
pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che,
malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva
brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo
teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e abbrancato
dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un
luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey.
A Castello, le case che si serrano in fila sul
ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in
profondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scure verso
quell'altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro,
somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria
troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l'uno
all'altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa
Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case
villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di
strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da
cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che,
fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senza finestre, si
affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroni ond'esce il Soldo,
spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Dòi, fino alle
distese serene di là da Caprino e da Gandria.
Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e
professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto
il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama
cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, aveva comperato la casetta
nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca
spesa, aveva sposato la sorella dell'ingegnere Ribera ed era morto
nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e
poche migliaia di svanziche oltre la casa.
Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non
tanto piano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto e una
voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa,
sussurrò: «Che strepito, zio!». «Oh bella!», fece patriarcalmente
l'ingegnere, «ho da picchiar col naso?» La nipote gli turò la bocca
con una mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto grazioso
al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre
lo stesso signor Giacomo andava soffiando: «Padrona mia
riveritissima… me consolo propramente… ». «Grazie, grazie», fece
Luisa, «passi, La prego, devo dire una parola allo
zio.»
L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la
giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli
posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al
collo.
«Ciao, neh», fece l'ingegnere quasi resistendo a
quelle carezze perché vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe
sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va la mamma?». Luisa non
rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più
che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benché nella
sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito
verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di
lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di
svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle
Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a
Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa
Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la
inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio
troppo disuguale; ma poiché i giovani erano stati fermi e sua
sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sé,
s'era messo ad aiutare in tutto che poteva.
«La mamma?», ripeté.
«Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è
agitata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c'è
stata una mezza scena con la nonna.»
«Oh povero me!», fece l'ingegnere, che quando udiva
di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa
esclamazione, se stesso.
«No, zio; Franco ha ragione.»
Luisa pronunziò queste parole con fierezza
subitanea. «Ma si!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo
«hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunse piano, «dice di
essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto
probabilmente a scoprir tutto.»
«Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la
terrazza.
La luna era tramontata, faceva buio. Luisa,
sussurrò: «Mamma è qui».
La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di
respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua
poltrona, per avere un po' d'aria, un po' di
sollievo.
«Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel
timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor
mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. «Cosa vi pare
che tutte le nostre prudenze non serviranno a
niente?»
«Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non
si può dire!»
Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel
salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio.
«Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perché
gli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è
successo?»
Franco raccontò l'accaduto velando un poco le
espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai
Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo,
accusando quasi più la suscettibilità propria che l'insolenza della
vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di
proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non
poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perché
lo avrebbe interrogato su quest'assenza, ed egli non voleva
mentire, e tacere era come confessare.
«Senti!», esclamò lo zio con l'accento vibrato e con
la faccia spanta del galantomone che, soffocando in un viluppo di
cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se
ne disbriga e respira: «Vedo che hai avuto torto d'irritar la nonna
perché, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro
errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più
contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a
tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo
infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno.
Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi
ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non
ingannarla!»
«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insieme
ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb'essere,
possedeva un senso acuto della vita com'è realmente, e data molto
più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più familiare con
Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui,
per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di
forma.
«Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa,
molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne
pigliava il tu). «Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in
un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa
in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto e
quand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra
nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per
un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di
disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar
un paio di stanze a Oria.»
«Oh povero me!», fece l'ingegnere. «Ci voglion due
mesi per questo? Non par vero.»
Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel
punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo,
appoggiato al muro, non osando scostarsene per
l'oscurità.
La signora Teresa non l'aveva ancora
salutato.
«Oh, signor Giacomo!», diss'ella con grande premura.
«Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si
diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?»
«La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo
angolo. «Propramente non me movo, perché, con la mia povera vista…
»
«Luisa!», fece la signora Teresa.
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