Cielo! Amore! Libertà! che sogno, o povera Folle!
tu ti scioglievi a lui come neve al fuoco:
le tue grandi visioni strozzavano la tua voce,
- e l’Infinito atterrì i tuoi occhi azzurri!
III
- E il Poeta dice che ai raggi delle stelle
tu vieni di notte a cercare i fiori che cogliesti,
dice che ha visto sull’acqua, nei suoi lunghi veli distesa,
la bianca Ofelia come un gran giglio fluttuare.
15 maggio 1870
IL BALLO DEGLI IMPICCATI
(Bal des pendus)
Alla forca nera, bel moncone,
ballano, ballano i paladini,
i secchi paladini del diavolone,
gli scheletri dei Saladini.
Messere Belzebù tira per la cravatta
i suoi fantocci neri che fan smorfie in cielo,
e, appioppandogli una ciabattata in faccia,
li fa ballare, ballare al suono d’una piva!
E i fantocci scossi incrociano i braccini:
come organi neri, i petti a traforo
che usavan tener strette le gentili damigelle,
si urtano a lungo in un orrido amore.
Urrà! i gai ballerini che non hanno più pancia!
Possono far capriole, così lunghi i trespoli!
Hop! non si sappia se c’è battaglia o danza!
Belzebù arrabbiato gratta i suoi violini!
O duri talloni, non usate mai i sandali!
Quasi tutti han lasciato la camicia di pelle;
il resto non imbarazza e si vede senza scandalo.
Sui crani, la neve piazza un bianco cappello:
Il corvo fa pennacchio su queste teste fesse,
un brandello di carne balla sul loro mento magro:
sembrano, in turbinio di fosche mischie,
dei prodi, rigidi, che cozzano con armi di cartone.
Urrà! Il vento fischia al gran ballo degli scheletri!
La forca nera mugghia come un organo di ferro!
I lupi le rispondono dalle foreste viola:
All’orizzonte il cielo è d’un rosso infernale...
Olà, scrollatemi questi funebri spacconi
che sgranano, sornioni, coi loro ditoni spezzati
un rosario d’amore sulle pallide vertebre:
non c’è un convento qui, trapassati!
Oh! ecco che in mezzo alla danza macabra
schizza nel cielo rosso un gran scheletro pazzo
portato dallo slancio, come un cavallo s’impenna :
e, sentendosi ancora la corda stretta al collo,
contrae i suoi ditini sul suo femore che crocchia
con delle grida simili a sghignazzate,
e, come un saltimbanco che rientra nella baracca,
rimbalza nel ballo al canto delle ossa.
Sulla forca nera, bel moncone,
ballano, ballano i paladini,
i secchi paladini del diavolone,
gli scheletri dei Saladini.
IL CASTIGO DI TARTUFO
(Le châtiment de Tartufe)
Attizzando, attizzando il suo amoroso cuore sotto
la sua casta veste nera, felice, la mano guantata,
un giorno che se ne andava, spaventosamente dolce,
gialla, sbavando la fede dalla sua bocca sdentata;
un giorno che se ne andava, “Oremus,” - un Cattivo
lo piglia rudemente per il suo benedetto orecchio
e lo ricopre di parole orribili, strappando
la casta veste nera dalla sua pelle umidiccia!
Castigo!… I suoi abiti son sbottonati,
e il lungo rosario di peccati rimessi
si sgrana nel suo cuore, San Tartufo sbiancò!…
Allora lui si confessava, pregava, con un rantolo!
L’uomo s’accontentò di prendergli il bavero…
- Puah! Tartufo era nudo dalla testa ai piedi!
IL FABBRO
Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto ’92.
(Le forgeron
Palais des Tuileries, vers le 10 août 92.)
Il braccio su un maglio gigantesco, spaventevole
d’ebbrezza e di grandezza, la vasta fronte, ridente
come una tromba bronzea, a bocca aperta,
e afferrando quel grassone nel suo sguardo feroce,
il Fabbro parlava a Luigi Sedici, un giorno
in cui il Popolo era là attorcigliatosi attorno,
e trascinando i suoi sudici abiti sui rivestimenti d’oro.
Ora il re, ritto sulla sua pancia, impallidiva,
pallido come uno sconfitto che portano al patibolo,
e, mansueto come un cane, non indietreggiava,
ché questo fabbro briccone dalle spalle enormi
gli diceva parole stagionate e cose così strane,
che in fronte erano una scarica di pugni, così!
“Ora, tu ben sai, Monsieur, che cantavamo trallallà
e muovevamo i buoi verso i solchi altrui:
il Canonico al sole sfilava dei padrenostri
sui rosari splendenti graniti di pezzi d’oro.
Il Signore, a cavallo, passava, suonando il corno
e l’uno col capestro, l’altro con la frusta
ci scudisciavano. - Ebeti come quelli delle vacche,
i nostri occhi non piangevano più; e andavamo, andavamo,
e quando avevamo lasciato i solchi dappertutto,
quando noi avevamo lasciato in quella terra nera
un po’ di carne nostra… avevamo in cambio una mancia:
ci bruciavano le nostre catapecchie la notte;
e i nostri figli dentro diventavano torte ben cotte.
…“Oh! io non mi piango addosso. Ti dico le mie fesserie,
così, tra noi. Ammetto che tu non sia d’accordo.
Dì, non è bello, quando fa giugno, vedere,
entrare nei granai dei carri enormi pieni
di fieno? Sentire l’odore di ciò che cresce,
degli orti quando pioviscola, dell’erba rossastra?
Vedere tanto grano, le spighe piene di grano,
pensare che quel grano sarà del buon pane?…
Oh! più forti, andremo, alla fornace che brilla,
a cantare allegri martellando sull’incudine,
se fossimo certi di poter prendere un poco,
essendo uomini in fondo!, di ciò che Dio dona!
- Ma ecco, è sempre la stessa vecchia storia!
“Ma io lo so, adesso! Io non posso più concepire,
avendo due buone mani, la mia fronte e il mio martello,
che un uomo venga là, la daga sul mantello,
e mi dica: Ragazzo, semina la mia terra;
che venga ancora, quando questa sarà la guerra,
a prendermi il mio ragazzo, così, a casa mia!
- Ed io, io sarei un uomo, e tu, tu saresti un re,
e mi diresti: Io voglio!… - Ti accorgi che questa è una follia.
Tu credi che io ammiri la tua splendida baracca,
i tuoi ufficiali dorati, i tuoi mille mascalzoni,
i tuoi fottuti bastardi far la ruota come pavoni:
hanno riempito la tua tana dell’odore delle nostre figlie
e di denuncie scritte per cacciarci nelle Bastiglie,
e noi diremo: Ma bene: i poveracci in ginocchio!
Noi indoreremo il tuo Louvre con qualche nostro baiocco!
E tu ti sollazzeresti, faresti delle gran feste.
- E ’sti Signori si sbellicheranno, sulle nostre teste!
“No. ’Ste schifezze andavano ai tempi dei nostri papà!
Oh! Il Popolo non è più una puttana. Tre passi
E, ecco qua, la tua Bastiglia abbiamo polverizzato.
Quella bestia trasudava sangue da ogni pietra
ed era infamante la Bastiglia in piedi
coi suoi muri lebbrosi che spifferavano tutto
e ci rinchiudevano sempre nella loro ombra!
- Cittadino! Cittadino! era il passato tenebroso
che crollava, che rantolava, quando prendemmo il torrione!
Avevamo in petto qualcosa come l’amore.
Avevamo stretto sul petto i nostri figli in un abbraccio.
E, come cavalli, con le narici che sbuffano
andavamo nel sole, a fronte alta, - così, -
per Parigi! Si accorreva davanti ai nostri cenci sporchi.
Finalmente! Noi ci sentivamo Uomini! Eravamo smunti,
Sire, eravamo ubriachi di speranze tremende:
e quando fummo là, dinnanzi ai masti neri,
agitando le nostre trombe e le nostre foglie verdi,
picche alla mano; noi non avevamo astio,
- Noi ci sentivamo così forti, noi volevamo essere buoni!
. . .
. . .
“E dopo quella giornata, noi siamo come pazzi!
Gli operai in massa sono scesi nelle strade,
e quei maledetti se ne vanno, folla sempre estesa
di cupi spettri, alle porte dei ricchi.
Io corro con loro ad ammazzare gli spioni:
e io vado per Parigi, nero, martello sulla spalla,
feroce, a spazzar via a ogni angolo qualche sospetto,
e, se tu mi ridessi in faccia, ti farei secco!
Poi, puoi contarci, vuoterai la tua borsa
Con i tuoi uomini neri, che accolgono le nostre istanze
per farle rimpallare come su racchette
e, sottovoce, i furbi!, diranno: ‘Che razza di scemi!’
per cuocere delle leggi, incollare dei piccoli vasi
pieni di bei decreti rosa e di oppiacei,
divertirsi a rifilarci qualche apposita taglia,
per poi turarsi il naso quando gli passiamo vicino,
- Noi dolci rappresentanti che ci trovano lezzi! -
per non temere nulla, nulla, se non le baionette…,
benissimo. Al diavolo le loro tabacchiere ciarliere!
Ne abbiamo abbastanza , insomma, di quei cervelli piatti,
e di quei corpi-di-Dio. Ah! allora sono questi i piatti
che ci servi, borghese, quando noi siamo feroci,
quando noi abbiamo già spaccato gli scettri e le croci!…”
. . .
Lui lo prende per un braccio, arraffa il velluto
delle tende, e gli mostra là in basso il cortile
dove c’è un brulichio enorme, dove cresce la folla,
la folla spaventosa con i muggiti di un onda,
che urla come una cagna, urla come il mare,
coi suoi bastoni massicci e le sue picche ferrigne,
i suoi tamburi, i suoi berci da mercato e da bettola,
scuro mucchio di stracci sanguinante di berretti rossi:
l’Uomo, dalla finestra aperta, mostra tutto
al re pallido e sudante che barcolla tutto,
ammalatosi a guardare questo!
“È la canaglia,
Sire. Sbava sui muri, sale, germoglia:
- Poiché non mangiano, Sire, sono dei pezzenti!
Io sono un fabbro: mia moglie è con loro,
la pazza! Lei crede di trovare il pane alle Tuileries!
- Non ne vogliono sapere di noi nelle panetterie.
Io ho tre bambini. Io sono canaglia. - Io vedo
delle vecchie che piangono sotto le loro cuffie
perché gli han preso il ragazzo o la figlia.
È la canaglia. - Un uomo era alla Bastiglia,
un altro era in catene: ed entrambi, cittadini
onesti. Liberati, sono come cani randagi:
li offendono! Allora, hanno qualcosa dentro
che gli fa male, sta’ sicuro! È terribile, e per questo
che sentendosi a pezzi, che, sentendosi dannati,
sono là, adesso, a urlare sotto il vostro naso!
Canaglia. - Là dentro ci sono delle ragazze, infami
Perché, - lo sapete che le donne son fragili, -
Monsignori della corte, - la danno sempre via,-
voi gli avete sputato sull’anima, come niente!
Oggi, le belle sono lì. È la canaglia.
. . .
“Oh! tutti i disgraziati, tutte le schiene scottate
sotto il sole spietato, e che vanno e vanno,
che si sentono scoppiare la fronte in quel lavoro là…
Giù i cappelli, miei borghesi! Oh! quelli sono gli Uomini!
Noi siamo Operai, Sire! Operai! Noi siamo
per i tempi grandi e nuovi in cui vorremo sapere,
in cui l’Uomo dalla mattina alla sera inventerà,
in caccia di grandi effetti, in caccia di grandi cause,
in cui, con calma vincitore, dominerà le cose
e salirà su Tutto, come su un cavallo!
Oh, splendidi chiarori delle fucine! Più lavoro,
sempre più! - Ciò che non si sa forse è terribile:
noi sapremo! - I nostri martelli in pugno, passiamo al vaglio
tutto ciò che sappiamo: poi, Fratelli, avanti!
Noi facciamo a volte questo grande sogno commovente
Di vivere semplicemente, con ardore, senza dire niente
di malvagio, lavorando sotto l’augusto sorriso
d’una donna che amiamo con un amore nobile:
e lavoreremmo con fierezza per tutto il giorno,
ascoltando il dovere come una tromba che squilla:
e ci sentiremmo allora felicissimi; e nessuno,
oh! nessuno, soprattutto, ci farebbe piegare!
E avremmo un fucile sopra il focolare…
. . .
[“Oh! ma l’aria è tutta piena di un odor di battaglia.
Che ti dicevo dunque? Io sono della canaglia!
Restano ancora spioni e accaparratori.
Noi siamo liberi, noi! Noi abbiamo terrori
Che ci fan sentir grandi, oh!, così grandi! Or ora
parlavo di un dovere calmo, di una dimora…
Guarda dunque il cielo! - Io rientro tra la folla,
tra la grande canaglia orribile, che tira,
Sire, i tuoi vecchi cannoni sulle luride strade:
- Oh! quando saremo morti, noi le avremo lavate!
- E se, contro il nostro urlo, contro la nostra vendetta,
le zampe dei vecchi re indorati, sulla Francia
spingono i loro reggimenti in abiti di gala,
ebbene, a voi tutti: merda a quei cani là!”
. . .
Riprese il suo martello sulla spalla.
La folla
Vicino a quell’uomo si sentiva l’anima ebbra,
e, nel gran cortile, negli appartamenti,
dove Parigi ansimava con strepitio,
un brivido scorse sull’immensa plebaglia.
Allora, con la sua mano enorme, superbe e lercia,
benché il re panciuto grondasse sudore, il Fabbro,
terribile, gli gettò il berretto rosso in faccia!]
I MORTI DEL NOVANTADUE
“…Francesi del settanta,
bonapartisti, repubblicani,
rammentatevi dei vostri padri nel ’92,
. . . . . . . . . . . . . .
Paul de Cassagnac.
Il Paese.
(Morts de Quatre-vingt-douze
“…Français de soixante-dix,
bonapartistes, républicains,
souvenez-vous de vos pères en 92, etc…
. . . . . . . . . . . . . .
Paul de Cassagnac.
Le Pays.)
Morti del Novantadue e del Novantatré,
che, pallidi al forte bacio della libertà,
placidi, coi vostri zoccoli spezzaste il giogo che pesa
sull’anima e sulla fronte dell’intera umanità;
Uomini estasiati e grandi nella tormenta,
voi dai cuori che battevano d’amore sotto gli stracci,
o Soldati che la Morte ha seminato, nobile Amante,
per rigenerarli, dentro tutti i vecchi solchi ;
voi dal sangue che lavava tutta la grandezza insozzata,
Morti di Valmy, Morti di Fleurus, Morti d’Italia,
o milioni di Cristi dagli occhi cupi e dolci;
Noi vi lasciavamo dormire con la Repubblica,
noi, curvi sotto i re come sotto i randelli.
- E i Signori de Cassagnac ci riparlano di voi!
Composto a Mazas, 3 settembre 1870.
ALLA MUSICA
Piazza della Stazione, a Charleville.
(À la musique
Place de la Gare, à Charleville.)
Sulla piazza divisa in misere aiuole,
dove ogni cosa è composta, gli alberi e i fiori,
tutti i bolsi borghesi strozzati dall’afa
apportano, i giovedì sera, le loro gelose scemenze.
- L’orchestra militare, in mezzo al giardino,
dondola i suoi schakò nel Valzer dei pifferi :
- Intorno, nelle prime righe, il ragazzetto sfila;
il notaio pende dai suoi gingilli cifrati.
I possidenti con occhialetti sottolineano ogni stecca:
i burocrati gonfi si portan dietro le corpulenti mogli
accanto a loro vanno, ufficiosi cornac ,
quelle con i volantini che sembrano reclami;
sulle panchine verdi, gruppi di droghieri in pensione
che attizzano la ghiaia con i loro bastoncini,
discutendo serissimamente i contratti,
poi uno sniffo di tabacco, e riprendono: “Insomma!…”
Allungando sulla panchina i suoi fianchi rotondi,
un borghese coi bottoni lustri e il buzzo fiammingo,
si gusta la sua pipa preziosa da cui il tabacco a fili
trabocca - sa, è preso a contrabbando; -
lungo le verdi aiuole sghignazzano i ragazzacci;
e, in brodo di giuggiole per il canto dei tromboni,
gli ingenuotti soldatini, fumando le rose,
carezzano i bebè per abbindolare le bambinaie…
Io, seguo, sbracato come fossi uno studente,
le ragazze allegre sotto i castani verdi:
lo sanno bene; e voltano ridendo,
verso me, i loro occhi pieni di indiscrezione.
Io non faccio motto: guardo sempre
la carne dei loro bianchi colli cinti da riccioli folli:
io seguo, sotto il corsetto e i lievi orpelli,
il dorso divino sotto la curva delle spalle.
Io scovo subito lo stivaletto, la calza…
- Ricostruisco il corpo, scottato da belle febbri.
Loro mi trovano strano e si parlano a voce bassa…
- E io sento i baci che mi giungono alle labbra…
VENERE ANADIOMENE
(Venus Anadyomène)
Come da una verde bara in latta, una testina
di donna dai capelli bruni intrisi di pomate
da una vecchia tinozza emerge, lenta e cretina,
con deformità davvero mal abborracciate;
poi il collo grasso e grigio, le scapole larghe
che spiccano; il dorso corto che rientra e risalta;
poi le tonde reni sembrano prendere il volo;
il grasso sotto la pelle pare a lamine piatte;
la schiena è un po’ rossa, e il tutto emana un sapore
stranamente orribile; si notano soprattutto
delle singolarità che vanno viste con la lente…
Le reni portano due gravi parole: Clara Venus;
- E tutto ’sto corpo si dimena e tende il suo groppone
Schifosamente bella per un’ulcera anale.
27 luglio 1870.
PRIMA SERATA
(Première soirée)
- Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti
buttavano sui vetri il loro fogliame
maliziosamente, vicino, vicino.
Seduta sulla mia grande sedia,
seminuda, incrociava le mani.
Sul pavimento rabbrividivano senza disagio
i suoi piedini minuti, minuti.
- Io guardavo, color della cera,
un piccolo raggio fuggiasco
svolazzare sul suo sorriso
e sui suoi seni, - mosca sul rosaio.
- Io baciavo le sue caviglie fini.
Lei un dolce riso brutale
che s’allungava in trilli luminosi,
un riso amabile di cristallo.
I piedini sotto la camicia
Trovarono scampo: “La fai finita!”
- La prima audacia concessa,
il riso fingeva di punire!
- Sommessi palpitanti sul mio labbro,
io baciavo i suoi occhi dolcemente:
- lei ritirò la sua testolina
indietro: “Oh! è meglio ancora!…
signorino, ho due parole da dirti…”
- il resto io glielo gettai sul seno
con un bacio, che la fece ridere
di un riso quieto, compiacente…
- Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti
buttavano sui vetri il loro fogliame
maliziosamente, vicino, vicino.
LE RISPOSTE DI NINA
(Les reparties de Nina)
. . .
LUI. Il tuo petto sul mio,
eh? ce ne andremo,
respirando tutta l’aria
nel fresco dei raggi.
Del bel mattino azzurro, che bagna
nel vino del giorno?…
Quando il bosco in brividi goccia
muto d’amore
da ogni ramo, verdi stille,
le gemme chiare,
senti, nelle cose aperte
fremere le carni:
tu immergerai nell’erba medica
la tua vestaglia bianca,
nell’aria roseo questo blu che cerchia
l’occhio tuo grande e nero,
innamorata della campagna,
seminando ovunque,
come una mousse di champagne,
il tuo riso matto:
ridendo di me, brutale nell’ebbrezza,
che ti prenderò
così, - la bella treccia,
oh! - che berrò
il tuo gusto di fragola e lampone,
o carne in fiore!
Ridente al vento vivo che ti bacia
come un predone,
alla rosa canina che ti stuzzica
amabilmente:
ridente soprattutto, o pazzerella,
del tuo amante!…
. . .
[Diciassette anni! Sarai gioiosa!
Oh! i prati immensi,
la vasta campagna amorosa!
- Dai, vieni più vicino!…]
- Il tuo petto sul mio,
mischiate le voci,
lenti, raggiungeremo il burrone,
poi le foreste!…
Poi, come una piccola morta,
il cuore svenuto,
tu mi dirai di portarti
con l’occhio socchiuso…
Io ti porterò, palpitante,
nel sentiero:
l’uccello fischierà il suo andante:
Au Noisetier…
Io ti parlerò nella tua bocca;
andrò, stringendo
il tuo corpo, di fanciulla sopita,
ebbro di sangue
che scorre, blu, sotto la tua pelle bianca
dai toni rosati:
e parlandoti la lingua franca…
Guarda!… - tu lo sai…
Le nostre foreste sentiranno la linfa,
e il sole
saprà d’oro zecchino nel loro gran sogno
verde e vermiglio.
. . .
La sera?… Riprenderemo la strada
bianca che percorre
svagata, come un gregge che bruca,
tutto all’intorno
i bei frutteti dall’erba celeste,
dai meli torti!
Sentire tutto in unione
i loro profumi forti!
Noi torneremo al villaggio
col cielo che s’oscura;
si sentirà odore di caglio
nell’aria della sera;
si sentirà odore di stalla, piena
di caldi letami,
piena d’un lento ritmo di aliti,
e di grandi dorsi
che biancheggiano sotto una lucerna;
e, proprio laggiù,
una mucca evacuerà, fiera,
ad ogni passo…
- Gli occhiali della nonna
e il suo lungo naso
nel messale; il boccale di birra
cerchiato di piombo,
spumeggiante tra le grandi pipe
che, spavaldamente,
fumano: i labbroni spaventosi
che, fumanti ancora,
azzannano il prosciutto con le forchette
a più non posso:
il fuoco che rischiara le cuccette
e le cassapanche.
Le chiappe lustre e grasse
d’un gran bimbone
che fruga, in ginocchio, nelle tazze
col suo bianco faccione
sfiorato da un muso che gronda
un tono grazioso
e slingua la faccia rotonda
del caro moccioso…
[Nera, fiera sul bordo della sedia,
dall’orrendo profilo,
una vecchia, davanti al camino,
che fa il filo;]
Che cose vedremo, cara,
in queste stamberghe,
quando la fiamma illumina, chiara,
le grigie finestre!…
- Poi, piccolo e tutto rannicchiato
tra i lillà
neri e freschi: un vetro celato
che ride là…
Tu verrai, tu verrai, io t’amo!
Sarà bello.
Tu verrai, nevvero, e persino…
LEI. - E il mio ufficio?
15 agosto 1870
GLI SGOMENTI
(Les effarés)
Neri nella neve e nella nebbia,
al grande spiraglio che s’accende,
i culetti in tondo,
in ginocchio, cinque bimbi - miseri! -
guardano il fornaio che fa
il pane greve e biondo.
Vedono il braccio forte e bianco che gira
la pasta grigia e che la inforna
in un buco chiaro.
Ascoltano il buon pane cuocere.
Il Fornaio dal sorriso grasso
canticchia una vecchia aria.
Sono rannicchiati, nessuno si muove,
nel soffio dello spiraglio rosso
caldo come un seno.
Quando per una cena di mezzanotte,
fatto a forma di broscia
si toglie il pane,
quando, sotto le travi affumicate,
cantano le croste profumate
insieme ai grilli,
che questo caldo buco soffia la vita,
hanno la loro anima così rapita
sotto i loro cenci,
si sentono vivere così bene,
i poveri Gesú pieni di brina,
che sono tutti lì,
incollando i loro musetti rosa
alla griglia, grugnendo qualcosa
attraverso i buchi,
inebetiti, dicendo le loro preghiere
e chini verso quelle luci
del cielo riaperto,
così forte, che si strappano le brache
e la camicia tremola
al vento d’inverno.
ROMANZO
(Roman)
I
Non si è molto seri a diciassette anni.
- Una bella sera, stufo di birre e di limonate,
di caffè chiassosi dalle luci scintillanti!
- Si va tra i tigli verdi della passeggiata.
I tigli sanno di buono nelle belle sere di giugno!
L’aria è talvolta così dolce, che lo sguardo s’arresta;
il vento carico di suoni, - la città non è lontana, -
ha profumi di vigna e profumi di birra…
II
- Ecco che intravedi uno straccetto
d’azzurro cupo, incorniciato da un rametto,
punto da una cattiva stella, che si fonde
con dei dolci brividi, piccola e tutta bianca…
Notte di giugno! Diciassette anni! - Ci si lascia inebriare.
La linfa è champagne e vi va alla testa…
Si divaga; si sente un bacio sulle labbra
Che là palpita, come una piccola bestia…
III
Il cuore pazzo Robinson attraverso i romanzi,
- Fino a che, nel chiarore di un pallido riverbero,
passa una signorina dai vezzi affascinanti,
sotto l’ombra del colletto terribile di suo padre…
IV
Tu sei innamorato. Cotto fino ad agosto.
Tu sei innamorato. - I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti i tuoi amici se ne vanno, tu non hai buon gusto.
- Poi, l’adorata, una sera, s’è degnata di scriverti!…
- Quella sera,… - tu torni nei caffè chiassosi,
tu ordini delle birre o della limonata…
Non si è molto seri a diciassette anni.
E con i verdi tigli della passeggiata.
IL MALE
(Le mal)
Mentre gli scaracchi rossi della mitraglia
sibilano tutto il giorno nell’infinito del cielo blu;
quando scarlatti o verdi, accanto al Re che l’irride,
i battaglioni crollano in massa sotto il fuoco;
mentre una follia spaventosa, maciulla
e fa di centomila uomini una catasta fumante;
- Poveri morti! In estate, nell’erba, nella tua gioia,
natura! tu che santa creasti questi uomini!… -
- C’è un Dio, che ride ai corporali damascati
degli altari, all’incenso, ai grandi calici d’oro;
che nel cullare degli osanna s’addormenta,
e si risveglia, quando le madri, raccolte
nell’angoscia, e gementi sotto le vecchie cuffie nere,
gli offrono un soldone legato nei loro fazzoletti!
IRE CESAREE
(Rages de Césars)
L’uomo pallido, lungo le aiuole fiorite,
cammina, vestito di nero, e il sigaro tra i denti:
l’uomo pallido ripensa ai fiori delle Tuileries
- E talvolta il suo occhio smorto ha sguardi ardenti…
Giacché l’Imperatore è sazio dei suoi vent’anni d’orgia!
Si diceva: “Io soffierò sulla Libertà
con delicatezza, come fosse una candela!”
La libertà rivive! Lui si sente sfinito!
È prigioniero. - Oh! qual nome sulle sue labbra mute
trasale? Qual rimpianto implacabile lo rimorde?
Non si saprà mai. L’Imperatore ha l’occhio spento.
Ripensa forse al Compare occhialuto…
E guarda il fil di fumo del suo sigaro acceso,
come nelle sere di Saint-Cloud , un’azzurra nube fine.
SOGNO INVERNALE
A *** Lei.
(Rêvé pour l’hiver - A *** Elle.)
L’inverno, noi andremo in un piccolo vagone rosa
Con dei cuscini blu.
Noi staremo bene. Un nido di folli baci riposa
in ogni morbido cantuccio.
Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dal finestrino,
le smorfie delle ombre serali,
queste mostruosità ringhiose, plebaglia
di demoni e lupi neri.
Poi tu ti sentirai la guancia punzecchiata…
Un bacetto, come un ragno impazzito,
ti correrà per il collo…
E tu abbassando la testa mi dirai: “Cerca!”,
- E noi prenderemo tempo a cercare questa bestia
- Che viaggia assai…
In treno, 7 ottobre ’70.
DORMIGLIONE DELLA VALLE
(Le dormeur du val)
È un verde recesso dove canta un fiume
che pazzo appende sull’erba degli stracci
d’argento; dove il sole, della montagna fiera,
riluce: è una piccola valle che spuma di raggi.
Un giovane soldato, la bocca aperta, il capo nudo,
e la nuca bagnata dal fresco crescione blu,
dorme; è disteso nell’erba, sotto la nube,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.
I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bambino malato, fa un sonno:
natura, ninnalo tu con calore: ha freddo.
I profumi non fanno fremere le sue narici;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo.
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