Edgardo ha visto il padre tentare di gettarsi nel vuoto, saltare altrove a causa della cecità, e cadere a terra; e si domanda se non sia morto lo stesso, al solo immaginare di morire.

(127)What are you, sir?”: da questo momento Edgardo deve fingere di essere un’altra persona dal contadino che Gloucester ha fatto andar via; farà finta di essere uno che si trovava ai piedi della scogliera dalla quale Gloucester crede d’essersi gettato. Perciò domanda: “Chi siete?”.

(128) “… thou happy father”: Edgardo lo chiama “padre” (“father”) non già per scoprirsi, ma in segno di rispetto: la parola si usava in questo senso, quando ci si rivolgeva a un vecchio.

(129)The safer sense will never accomodate his master thus”: letteralm.: “La mente che fosse più sana non acconcerebbe mai in tal guisa il suo padrone”, ossia il cranio che la contiene.

(130)They flattered me like a dog”: intendi “as a dog does”, “come fa un cane”: è una delle frasi che vedo quasi ovunque tradotta: “Mi adulavano come un cane”, che non significa niente: i cani non si adulano. Anzi – ha detto il Matto alla quarta scena del I atto – “va cacciato a pedate” e “chiuso in canile” (come la Verità).

([131])“‘Ay’ and ‘no’ too was no good divinity”: “divinity” ha quasi sempre in Shakespeare il significato di “teologia” (così in “Otello”, II, 3, 341: “Divinity of hell: when devils will the blachest sins put on…”:

“Teologia d’inferno: quando il diavolo
“ti vuol far fare i più neri peccati…”

e così in “Tanto trambusto per nulla”, IV, 1, 170: “Trust not my age, / My reverence, calling, nor divinity…”

“…………… e non fate fiducia
“ai miei anni, al mio sacro ministero,
“alla mia teologia…”

(132) Qui l’inglese ha un quibble infernale che può solo essere spiegato, non tradotto. Lear dice: “I tuoi occhi sono dentro un’occhiaia cava” (“in a heavy case”), frase che, per il doppio significato di “case”(“contenitore” e “caso”) può voler dire “dentro un contenitore pesante” e anche, fuori di metafora, “in un caso grave”; mentre la tua borsa è un (contenitore/caso) leggero (“Your purse is a light”). Si è risolto alla meglio il bisticcio con “incavati” (gli occhi) e “cavati” (i denari dalla borsa).

(133) “… handy-dandy”: è il gioco dei ragazzi che consiste nel chiudere qualche piccolo oggetto in una mano e poi, nascondendo le mani dietro la schiena, scambiarlo dall’una all’altra e, presentando i due pugni chiusi, lasciar indovinare dove si trova.

(134)Thou, rascal beadle”: “beadle” era l’incaricato della parrocchia responsabile di tener l’ordine in chiesa, punire i piccoli trasgressori, vietare l’ingresso in chiesa ai noti peccatori.

(135)This a good block”: “block” ha tra gli altri significati anche quello di “forma di legno per fare le cupole dei cappelli” , ma qui ha il significato di “cappello” (come in “Tanto trambusto per nulla”, I, 1, 63: “It ever changes with the next block”:

“Cambia la fedeltà con le persone
“come cambia la foggia del cappello”.)

I cappelli erano di feltro; e il feltro suggerisce alla mente delirante di Lear di voler foderare con quel tessuto gli zoccoli dei cavalli. Lo Stevens immagina che Lear, nel dire queste parole a Gloucester (“Voglio farti la predica”), prenda in mano il cappello, come solevano fare i predicatori salutando l’uditorio.

(136) V. sopra la nota 128.

(137) Shakespeare a Edgardo che si finge contadino mette qui in bocca il dialetto del Somersetshire: sillabe finali tronche, uso di v per f, di z per s, contrazioni “I will” in “’chill”, “I should” in “’choud”, e “I shall” in “I’ce”. Il Chiarini e il Dettori lo rendono in dialetto fiorentino; il Lodovici nel ligure-apuano della Val di Magra; il Melchiori in un ibrido ciociaro-romanesco. Questo traduttore ha preferito un tocco di veneto. S’immagini il lettore il dialetto che vuole, così come gli attori nel recitarlo ci mettono ciascuno il loro.

(138)Thee I’ll rake up, the post unsanctified of morderous leachers”: passo controverso; c’è chi legge: “Ti seppellirò, profano messaggero di fornicatori assassini”, intendendo cioè, tutta la frase dopo la virgola come un’apposizione di “thee” e “post” non come “posto” ma come “messaggero”; che è interpretazione suggestiva e forse più calzante, che avremmo adottata anche noi, anche perché il “lascivo assassino” (“murderous leacher”) non è lui, Osvaldo, ma la sua padrona; se non fosse però che è difficile riferire a una persona (messaggero, “post”) il participio passato “unsanctified” che si diceva proprio e solo della terra “sconsacrata”.

(139) Si capisce che Cordelia, nel dir questo, indica la rada capigliatura bianca del padre.

(140)My point and period will be throughly wrought, / Or well or ill as this day’s battle’s fought”: altro distico finale in rima il cui traslato è quello della vita paragonata a una frase, scritta o parlata (“period”) che può essere scritta bene o male, ma il cui punto fermo (“point”) è la morte.

(141)Ripeness is all”: è il concetto della maturazione cui giunge l’uomo attraverso l’esperienza di vita; ma è anche, in chiave religiosa, il concetto cristiano di esser preparati alla morte: così in “Amleto”, V, 2, 168: “The readiness is all”: “Tutt’è tenersi pronti” (alla morte).

(142)The walls are thine”: è la formula della resa a discrezione dopo un assedio.

(143)In wisdom I should ask thy name”: non s’è potuto tradurre letteralmente “Dovrei domandarti il tuo nome” perché Edgardo ha già risposto all’araldo che gli ha posto la stessa domanda, dicendo di averlo perduto, il nome.

(144) “… the laws are mine, not thine”: cioè delle leggi dispongo io, sono io a far la legge, qui, non tu; sono io la titolare della sovrana potestà… ma ogni altra resa, al di fuori della letteraria, avrebbe corrotto la realtà lirica della secca risposta di Gonerilla.

(145) La “ruota”, s’intende, della Fortuna, raffigurata nell’iconografia tradizionale come una donna con cornucopia in mano, e una ruota che fa girare a suo talento.

(146) È, mutatis mutandis, lo stesso concetto dell’attaccamento dell’uomo alla vita espresso da Amleto nel suo famoso monologo: “To be or not to be that is the question…” nella prima scena del III atto.

(147) I cani randagi abbaiano ai mendicanti cenciosi.

(148) “… and shall perchance do good”: Edmondo è a terra morente, e il “bene” che Edmondo sente che possa fargli la storia delle traversie di coloro che sono in fondo suo padre e suo fratello, è una morte serena. “Edmondo – annota Giuseppe Tomasi di Lampedusa (“Shakespeare”, Mondadori, Milano, 1955, pag. 72) – muore addirittura bene; dicendo una di quelle frasi che Shakespeare andava a trovare in cielo quando ci si metteva sul serio: “Yet Edmund was beloved”. Pare che Shakespeare si sia finalmente accorto che due cose possono sempre salvarci: la morte e la forza d’animo”.

(149) Si noti l’accorgimento del drammaturgo esperto, che non fa morire le due perverse figlie di Lear sulla scena, ma ne fa annunciare la morte da un estraneo al dramma; perché l’onore, la commozione e la pietà della morte sulla scena dovranno essere tutti per Cordelia, la figlia buona.

(150)Is this the promised end?”: è la frase che mette al “Re Lear” il sigillo di tragedia cosmica, che – nota sempre il Tomasi di Lampedusa (op. cit.) – “passa su chi la legge (non su chi l’ascolta), come il galoppo dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse”. Il servizievole Kent, si trova in poco tempo ad assistere alla disfatta in battaglia delle forze francesi, alla morte di Gloucester, alla morte violenta delle due figlie di Lear, a quella di Edmondo e a quella di Cordelia, con Lear impazzito: gli crolla tutto intorno, e non può che chiedersi se questa sia la fine del mondo profetizzata dalle Scritture.

(151) Questa invettiva di Lear all’indirizzo di Edgardo e Kent può riuscire incomprensibile; essa richiede, per essere compresa e giustificata, tutto un processo mentale: il contr’ordine di Edmondo al suo sicario, il capitano del castello è giunto troppo tardi: questi stava già impiccando Cordelia, ma Lear lo uccide, strappa dal capestro la figlia che dà ancor segni di vita e la reca in braccio che respira; in questo momento Lear è distratto per un momento da Kent, che gli si getta ai piedi, mentra Edgardo gli rivela la vera identità di costui (“È il nobile Kent, amico vostro”), che peraltro Lear non riconosce, se subito dopo gli domanda “Chi siete voi?”; ma Lear ha l’illusione che in quell’istante prezioso egli avrebbe potuto far qualcosa per tenere in vita Cordelia. Perciò se la prende con i due, chiamandoli “assassini” e “traditori”.

(152) Si capisce – anche se questo Caio non sia stato mai nominato prima – che si tratta del nome assunto da Kent nelle sue mentite spoglie di servo di Lear. Quando s’accorge che Lear non lo riconosce come Kent, questi cerca almeno di forsi riconoscere come Caio; ma la mente ormai svanita di Lear non riconosce più nessuno.

(153) Il testo ha: “And my poor fool is hanged!”, che letteralm. è: “E il mio povero matto è impiccato”. Così lo vedo tradotto da alcuni (Melchiori) che ritengono verosimilmente che Lear si riferisca effettivamente al suo Matto, cioè allo stesso ragazzo-attore che interpretava le parti del Matto e di Cordelia; che è congettura dotta e suggestiva, ma incomprensibile al lettore moderno. Si è perciò reso il “poor fool” siccome riferito direttamente a Cordelia: “poor fool” era al tempo di Shakespeare, come osserva giustamente il Malone (citato dal Rusconi, “Re Lear”, Soc. editr. toscana, Firenze), espressione di tenerezza che Shakespeare usa altre volte (“la mia povera pazzerella” la intende il Lodovici); e questa si lega con quel che Lear dice subito dopo.

(154)Pray you undo this button”: abbiamo inteso che Lear chieda di sbottonargli qualcosa addosso; perché anche prima (III, 4, 108) ha usato la stessa frase: “Come, unbutton here” rivolto al Matto; altri crede che il bottone cui allude Lear sia sull’abito di Cordelia: scelga il lettore.

(155) Passo di significato oscuro: forse Edgardo, ormai compreso delle responsabilità pubbliche attribuitegli dal Duca, vuol dire che in un’ora grave come questa anche chi è investito di tali responsabilità non può che dar voce a quel che sente dentro, piuttosto che velare i propri sentimenti sotto il manto dell’ufficialità: è il riconoscimento dell’esperienza e della piena maturazione del giovane che dovrà “sanare le piaghe dello Stato”.

(156) Varrà la pena, a chiusura di questo nostro commento, e a conforto della nostra convinzione della irrappresentabilità di Shakespeare, riportare due autorevoli giudizi su questo particolare lavoro del Grande: uno è del Baldini (Gabriele Baldini, “Manualetto shakespeariano”, Einaudi, 1964, pag. 453): “Il senso ultimo di King Lear, come sempre quello delle grandi opere di poesia, vorrà svelarsi gradualmente per letture meditate e insistite; la realizzazione scenica… potrà dare difficilmente essa sola, ragione di tutte le complessità di quest’opera cui Shakespeare ha voluto consegnare il massimo di sé”; l’altro è di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (cit., pag.73): “La storia scenica di Lear è povera. Pochi attori si sono arrischiati di impersonare questo personaggio michelangiolesco. E nessuno, pare, vi sia pienamente riuscito”. (Le sottolineature sono nostre).

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