Non importa.

Avvertite in tal senso anche i colleghi.

Da questo fatto voglio trar pretesto

per cantargliene quattro. E lo farò.

E scrivo subito a mia sorella

di comportarsi alla stessa maniera.

Apparecchiate intanto per il pranzo.

(Escono tutti)

 

 

 

SCENA IV – La stessa.

 

Entra KENT, travestito(26)

 

KENT -

Se sol riuscirò a cambiare accento

sì da alterare tutta la pronuncia,

potrò forse portare a pieno frutto

quel buon intendimento

che m’ha fatto mutar la mia sembianza.

Dunque, bandito Kent,

se arriverai ad entrare in servizio

presso colui che ha voluto bandirti,

forse accadrà che il padrone che ami

scoprirà quanto bene fai per lui.

(Corni da caccia più vicini)

Entra RE LEAR con alcuni dei suoi cavalieri

e altri del seguito

LEAR -

Non mi si faccia aspettare un minuto,

per il pranzo! Qualcuno vada dentro,

e guardi che sia pronto.

(Esce un uomo del seguito)

(Vede Kent)

E tu, chi sei?

KENT -

Un uomo, signoria.

LEAR -

Che professione fai? Che vuoi da noi?

KENT -

Io faccio professione, signoria,

di non essere men di quel che sembro:

di servire con piena lealtà

chi m’accorda la sua piena fiducia,

d’amar la gente onesta, e il conversare

con chi è saggio e di poche parole,

di temere i giudizi autoritari,(27)

d’azzuffarmi se non ho altra scelta,

di non mangiare pesce il venerdì.(28)

LEAR -

Che cosa sei?

KENT -

Uno onesto di cuore.

Povero come il re.

LEAR -

Se tu da suddito sei tanto povero

quanto l’è lui da re,

sei povero abbastanza. Che desideri?

KENT -

Servire.

LEAR -

E chi vorresti tu servire?

KENT -

Vossignoria.

LEAR -

Sai chi sono, messere?

KENT -

No, signore; ma avete nell’aspetto

un qualche cosa, per cui volentieri

vi chiamerei padrone.

LEAR -

Quale cosa?

KENT -

La maestà.

LEAR -

Che servizi sai fare?

KENT -

So mantenere un onesto segreto,

so guastare, se devo raccontarla,

una storia abbastanza complicata,

so riferir com’è, senza infiorarlo,

un semplice messaggio:

son capace di fare insomma tutto

che sanno fare gli uomini comuni,

ma il meglio di me è la precisione.

LEAR -

Quanti anni hai?

KENT -

Non sono tanto giovane,

signore, da invaghirmi di una donna

sol perché sa cantare,

né tanto vecchio da perder la testa

per una pur che sia;

ho quarantotto inverni sulle spalle.

LEAR -

Beh, seguimi; se dopo che ho pranzato

non si darà che tu mi piaccia meno,

ti prendo al mio servizio.

(Agli altri)

Il pranzo, dico, il pranzo!

E dov’è quel furfante del mio Matto?

Va’ tu a cercarlo, fallo venir qui.

(Esce uno del seguito)

Entra OSVALDO

LEAR -

Ehi, tu, messere, mia figlia dov’è?

OSVALDO -

Chiedo scusa…

(Esce subito)

LEAR -

Che dice quel baggiano?

Chiamate indietro quel testa di rapa.

(Esce uno dei cavalieri dietro a Osvaldo)

Dov’è dunque il mio Matto?

Diavolo, siete tutti addormentati?(29)

(Rientra il cavaliere che ha seguito Osvaldo)

Beh, che voleva quel cane bastardo?

CAVALIERE -

Dice che vostra figlia non sta bene.

LEAR -

Perché il villano, quando l’ho chiamato,

non è tornato indietro?

CAVALIERE -

Signore m’ha risposto crudo e netto

che non gli andava.

LEAR -

Come, non gli andava!

CAVALIERE -

Mio signore, non so che cosa accada,

ma vostra altezza, a mio umile avviso,

non è trattata più in questa casa

con tutto quell’affetto e quel riguardo

cui era abituato. Anzi, è palese

una gran decrescenza di attenzioni,

sia nelle file della servitù

che nello stesso Duca e in vostra figlia.

LEAR -

Tu dici, eh?

CAVALIERE -

Vogliate perdonarmi

se sbaglio, mio signore, ma il dovere

mi vieta di tener la bocca chiusa

quando ritengo vi si faccia torto.

LEAR -

Non fai che ricondurmi alla memoria

un mio sospetto. Ché ho notato anch’io,

da qualche tempo, un po’ di negligenza

nei miei riguardi, ma ne ho dato colpa

a un’eccessiva mia ombrosità,

piuttosto che a un deliberato intento

di sgarbatezza. Vo’ vederci meglio…

Ma dov’è il mio Matto?

Sono due giorni che non si fa vivo.

CAVALIERE -

Da quando la mia giovane signora

è andata in Francia, monsignore, il Matto

è molto giù di corda, e…

LEAR -

Basta, basta.

L’ho ben notato.

(A uno del seguito)

Tu, va’ da mia figlia,

e dille che desidero parlarle.

(Esce uno del seguito)

(Ad un altro del seguito)

E tu cerca il mio Matto.

(Esce un altro del seguito)

Rientra OSVALDO

Ah, giusto voi, signore! Voi, sì, voi!

Venite qua. Sapete chi son io?

OSVALDO -

Voi siete il padre della mia signora.

LEAR -

(Rifacendogli il verso)

“Il padre della mia signora…”, eh?,

servo del mio signore! Vil canaglia!

Cane bastardo! Schiavo! Bastardaccio!

OSVALDO -

(Gridando in faccia a Lear)

Non sono niente di questo che dite,

io, mio signore, con licenza vostra.

LEAR -

Che! Osi tu sostenere il mio sguardo,

manigoldo?

(Lo percuote)

OSVALDO -

Non tollero, signore,

questi modi maneschi…

KENT -

(Gli fa uno sgambetto e lo stende a terra)

E neanche questi,

vil pallonaro?(30)

LEAR -

(A Kent)

Ti ringrazio, amico.

Mi servi bene, ed io ti terrò caro.

KENT -

(A Osvaldo)

Su, su, messere, rialzatevi, e fuori!

O ch’io v’insegno a stare al vostro posto!

Se poi volete misurare ancora

quant’è lunga, distesa qui per terra,

questa vostra carcassa, rimanete.

Però se vi rimane un po’ di senno,

è meglio che partiate… Ecco, così.

(Spinge Osvaldo fuori)

LEAR -

Caro il mio buon furfante, ti ringrazio.

Ecco un anticipo pei tuoi servizi.

(Gli dà del denaro)

Entra il MATTO

MATTO -

Permetti allora che l’assuma anch’io

al mio servizio. Toh, il mio berretto.(31)

(Porge a Kent il suo berretto da buffone)

LEAR -

Ah, sei qua, mio bel tomo, come va?

MATTO -

(A Kent)

Faresti meglio a portarlo tu, amico,

il mio berretto.

KENT -

Perché io, Matto?

MATTO -

Perché ti metti a prendere le parti

di uno ch’è in disgrazia. Attento a te,

ché se non sei capace di sorridere

alla parte da dove spira il vento,

presto ti buscherai il raffreddore.

Toh, ecco, prenditi il mio berretto.

Vedi, questo buon uomo

ha messo al bando due delle sue figlie

e della terza ha fatto, a suo dispetto,

una donna felice.

S’hai intenzione di metterti al suo seguito,

devi indossare un berretto così.

(A Lear)

Eh, zietto!(32) Li avessi io due berretti

e due figlie!

LEAR -

Perché, ragazzo mio?

MATTO -

Se avessi regalato a loro due

tutto quel che posseggo, come te,

almeno mi terrei i due berretti.

Eccoti intanto il mio.

Un altro chiedilo alle tue figlie

in via di carità.

LEAR -

Bada a te, furfantaccio, c’è la frusta!

MATTO -

La verità è simile ad un cane

che deve restar chiuso in un canile;

va ricacciato lì dentro a frustate,

mentre madama Cagna

può restare sdraiata accanto al fuoco,

e puzzare.

LEAR -

Pestifero bubbone!

MATTO -

Compare, vo’ insegnarti un discorsetto…

LEAR -

Avanti.

MATTO -

Stammi ben attento, zio.

“Mostra men di quel che hai;
“parla men di quel che sai;
“presta men di quel che puoi;
“va’ a cavallo più che a piedi;
“sanne più di quanto credi;
“metti tanto, togli poco,
“resta a casa accanto al fuoco:
“ne trarrai, se t’accontenti,
“per due dieci più di venti”.

KENT -

Questo e niente è la stessa cosa, Matto.

MATTO -

Allora è simile alla parola

d’un avvocato che non ha parcella;(33)

e niente tu m’hai dato in pagamento.

Sai ricavar qualcosa, zio, dal niente?

LEAR -

No, ragazzo: da niente viene niente.

MATTO -

(A Kent)

Digli tu, per piacere,

che altrettanto ricava adesso lui

dalle sue terre: se lo dice un matto

non vorrà crederlo.

LEAR -

Un Matto amaro.

MATTO -

Sai, amico, qual è la differenza,

che c’è tra un matto amaro e uno dolce?

LEAR -

No, dimmela, ragazzo.

MATTO -

“Quel signore che ti dié
“il consiglio di dar via
“le tue terre, per follia
“venga a far coppia con me:
“è la parte adatta a te.
“Ecco allor due matti a paro:
“matto dolce e matto amaro:
“uno, in veste di buffone, è qui,
“l’altro… eccolo lì”.

LEAR -

Che!, ragazzaccio, tu mi dài del matto?

MATTO -

Gli altri titoli tuoi li hai dati via

tutti quanti: con questo ci sei nato.

KENT -

Tutto matto costui non è, signore.

MATTO -

No, in coscienza; non lo permetterebbero

lorsignori gli altolocati e i grandi:

se dovessi far io della pazzia

un monopolio mio, tutti costoro

ne vorrebbero anch’essi la lor parte;

anche le dame… non mi lascerebbero

avere la pazzia tutta per me;

verrebbero a strapparmela coi denti

per avere ciascuna la sua parte.

Zietto, toh, se tu mi dài un uovo,

io ti do due corone.

LEAR -

Che corone?

MATTO -

Dopo averlo spaccato per metà

e trangugiato il buono, le due cocce.

Quando tu hai spaccato la corona

per metà, e hai dato via così

di qua e di là entrambe le sue parti,

ti sei messo il somaro sulle spalle

per fargli traversare la palude.

C’era rimasto ben poco cervello

dentro quella corona tua pelata

quando da essa hai tolto quella d’oro.(34)

Se sono matto a dirti queste cose,

sia fustigato il primo che lo afferma.

(Cantando)

“Giammai più di quest’anno
“furono al mondo i matti sfortunati;
“e ciò perché color che senno hanno
“son tutti divenuti dissennati;
“ed il cervello ciascuno sa usare
“solo per scimmiottare”.

LEAR -

Da quando in qua, brigante,

hai preso ad imbottirti di strambotti?

MATTO -

Da quando tu hai fatto di tue figlie

le tue mamme, zietto; perché allora,

appena hai messo nelle loro mani

lo scudiscio, calandoti le braghe,

(Cantando)

“piansero quelle d’improvvisa gioia,
“e io presi a cantare per strambotti
“la pena di vedere un tal sovrano
“giocare a nascondino([35])
“per ridursi a finir matto tra i matti.”

Zio, ingaggia, ti prego, pel tuo Matto

un maestro che sia tanto istruito

da insegnargli a mentire:

mi piacerebbe tanto d’impararlo.

LEAR -

Se menti, guai a te,

ti farò riempire di frustate.

MATTO -

Mi domando che c’è di consanguineo

tra te e le tue figliole:

quelle due vogliono farmi frustare

perché dico la santa verità,

tu vuoi farmi frustare perché mento…

e a volte mi si frusta perché taccio.

Vorrei essere tutto, fuorché un matto;

una cosa non vorrei essere: te, zio.

Tu hai rifilato il tuo cervello

da una parte e dall’altra,

e nel mezzo non ci hai lasciato niente…

Ecco una delle parti rifilate.

Entra GONERILLA

LEAR -

Ebbene, figlia, che ci fa con te

quel reggifronte?(36) Da alcun tempo in qua

mi sembra di vederti, in verità,

un po’ troppo accigliata.

MATTO -

Anche tu, in verità, eri carino

quando non avvertivi alcun bisogno

di darti pena per il suo cipiglio.

Adesso non sei altro che uno zero

senza cifre davanti. Io posso dire

d’essere più di te: io sono matto,

almeno, tu non sei nulla di nulla.

(A Gonerilla)

Sì, sì, terrò la lingua sotto freno.

La vostra faccia, vedo, me l’impone,

pur non dicendo nulla.

“Zitto, ohibò!

“Chi nemmeno una crosta si serbò,
“di tutto stanco, poi ne vorrà un po’

Ecco un baccello di pisello vuoto.

GONERILLA -

Sire, non solo questo vostro Matto,

al quale tutto è lecito, mi pare,

ma altri del volgare vostro seguito

trovano ogni momento da ridire

e creare motivi di litigio.

E s’abbandonano continuamente

a intollerabili ed indegne risse.

In coscienza credevo, mio signore,

che col farvi di ciò bene informato,

avrei trovato in voi soddisfazione;

ma mi viene il timore,

per quel che avete testé fatto e detto

che proteggiate un tal comportamento,

o che lo incoraggiate addirittura

col vostro avallo; ché se così fosse,

non resterebbe senza punizione,

tale colpa, e senza alcun rinvio,

anche se il metterla ad esecuzione

possa recare alla vostra persona

tale offesa che in altre circostanze

avrebbe comportato onta per voi,

ma che necessità farà apparire

procedura corretta ed oculata.

MATTO -

Eh, già, perché lo sai com’è, zietto:

“Per tanto tempo il passero ha nutrito
“il cuculo al suo nido,
“che i cuculetti se lo son mangiato.”

Fu così che si spense la candela,

e noi restammo al buio.

LEAR -

(A Gonerilla)

Tu saresti mia figlia?

GONERILLA -

Evvia, signore,

vorrei che usaste la vostra saggezza

della quale vi so certo provvisto,

e rinunziaste a queste esibizioni

che vi stan trascinando da alcun tempo

fuori da quel che siete.

MATTO -

Anche il somaro

sa quand’è il carro che tira il cavallo.

Arri, morello, ch’io ti voglio bene!

LEAR -

C’è qui qualcuno che mi riconosca?

Non è Lear, questo! Cammina così

Parla così? Sono questi i suoi occhi?

O la sua mente s’è rimbecillita,

o gli è andata in letargo la ragione!

Ah, è sveglio?… Ma no, che non è vero!

Chi di voi mi sa dire chi son io?…

MATTO -

L’ombra di Lear.

LEAR -

… Vorrei proprio saperlo;

ché questi emblemi di regalità,

la conoscenza e la stessa ragione

mi farebbero credere, ingannandomi,

che avessi delle figlie…

MATTO -

Che vogliono ridurre all’obbedienza

il loro genitore.

LEAR -

(A Gonerilla)

Il vostro nome, bella gentildonna?

GONERILLA -

Questa vostra vanezza, mio signore,

sa molto del medesimo sapore

d’altre vostre recenti stramberie.

Ora vi supplico di non fraintendere

quello che sto per dirvi:

all’età vostra, vecchio come voi siete

e venerando, dovreste aver criterio.

Voi mantenete qui, al vostro seguito,

tra cavalieri e lor palafrenieri,

un centinaio d’uomini,

gente sì turbolenta, sregolata,

corrotta, petulante, debosciata,

che questa nostra corte,

contaminata dai loro costumi,

è ridotta a taverna da ribotte.

La continua gargotta, la lascivia

la fanno assomigliare ad una bettola,

a un bordello, piuttosto che a una reggia.

È una vergogna che invoca da sé

immediati rimedi.

Siete dunque pregato da colei

che altrimenti saprà fare di forza

le cose che vi chiede ora di grazia,

di ridimensionar la vostra scorta

e di far che i restanti siano uomini

che si convengano alla vostra età,

e siano soprattutto più coscienti

di se stessi e di voi.

LEAR -

(Scattando)

Tenebre e inferno!

Sellate i miei cavalli!

E radunate tutta la mia scorta!

Snaturata bastarda, me ne vado!

Ti toglierò il disturbo. Ho un’altra figlia!

GONERILLA -

Voi maltrattate la mia servitù,

e la vostra marmaglia turbolenta

tratta da servi i loro superiori.

Entra il DUCA D’ALBANIA

LEAR -

Guai a chi si ravvede troppo tardi!…(37)

(Al Duca d’Albania)

Ah, siete qui, signore?

E siete voi a voler tutto questo?

Parlate!… Preparate i miei cavalli!…

O ingratitudine, o tu, demonio

dal cuor di pietra, mostro ripugnante

più di quelli che popolan gli abissi,

quando ti manifesti in una figlia!

ALBANIA -

Calmatevi, vi prego, mio signore.

LEAR -

(A Gonerilla)

Detestato avvoltoio, tu mentisci!

La mia scorta è composta tutta d’uomini

scelti e di non comuni qualità,

che ben conoscono i loro doveri

e rispettano con estremo scrupolo

l’onore del lor nome.

Ah, lievissima colpa di Cordelia!

Quanto turpe mi sei tu apparsa in lei,

da scardinar, come un’arma di guerra,(38)

l’intero quadro dei miei sentimenti

stravolgendoli dalle loro sedi

e scacciando ogni affetto dal mio cuore

per mettere al suo posto solo fiele!

O Lear, o Lear, o Lear,

batti alla porta che ha lasciato entrare

(Si batte la fronte)

la tua follia e ha fatto uscire il senno!

(A quelli del seguito)

Andiamo, gente mia, andiamo via!

ALBANIA -

Mio signore, io sono senza colpa,

com’è vero che non so proprio nulla

di ciò che ha suscitato il vostro sdegno.

LEAR -

Può essere, signore.

O tu, Natura, venerata dea,

ascolta! S’era nelle tue intenzioni

di rendere feconda questa donna,

revoca il tuo proposito,

mettile in grembo la sterilità,

che i suoi organi del concepimento

si dissecchino sì che mai un figlio

abbia a sortir dal suo corpo degenere

ad onorarla. O, se proprio hai deciso

ch’ella comunque debba partorire,

fa’ ch’ella generi un figlio di fiele,(39)

che cresca sì perverso e snaturato

da viver sol per esserle tormento,

le scavi rughe sulla fronte giovane

e solchi in faccia per le troppe lacrime;

che volga tutte a scherno ed a disprezzo

le sue pene e le sue gioie di madre,

sì che anch’ella conosca qual dolore

tagliente, più del morso d’un serpente,

sia un ingrato figlio … Andiamo, andiamo!

(Esce precipitosamente)

ALBANIA -

Ma, per i sacri dèi che veneriamo,

a che cosa è dovuto tutto questo?

GONERILLA -

Non ti preoccupare di saperlo;

lascia che sfoghi i suoi cattivi umori

come gli detta l’età sua barbogia.

Rientra LEAR, di furia, piangendo

LEAR -

Come! Cinquanta dei miei cavalieri

in un sol colpo? Entro quindici giorni?

ALBANIA -

Che cosa vi succede, mio signore?

LEAR -

Ora lo sentirete… Vita e morte!

(A Gonerilla)

Mi vergogno a tal punto

che una come te abbia la forza

di scrollare la mia virilità,

da far che queste lacrime,

che m’escono cocenti mio malgrado,

ti facciano sembrar degna di loro.

Bufere e nebbie cadan sul tuo capo!

E la maledizione di tuo padre

apra in tutti i tuoi sensi

spaccature non più rimarginabili.

Vecchi miei occhi, inutilmente teneri,

se seguitate a piangere per questo,

io vi strappo dall’orbite,

e vi getto, con l’acqua che versate,

a impastarvi col fango…

A tanto siamo giunti? E così sia!

Ho ancora un’altra figlia

che, son certo, è gentile e ben capace

di recare conforto.

Quand’ella sentirà quel che m’hai fatto,

ti vorrà scorticare con le unghie

quella faccia da lupa.

Con lei saprò riprendere, vedrai,

l’aspetto che tu credi ch’io per sempre

abbia gettato via. Vedrai, vedrai!

(Esce con Kent e tutto il seguito, meno il Matto)

GONERILLA -

Hai sentito, mio caro?

ALBANIA -

Gonerilla,

malgrado il grande amore che ti porto…

non mi sento di prender le tue parti

contro tuo padre.

GONERILLA -

Basta, non dir più…

(Chiamando)

Osvaldo, ehi, Osvaldo!

(Al Matto)

Anche voi, più furfante che buffone,

fuori di qua, dietro al vostro padrone!

MATTO -

Zietto Lear, zietto Lear, aspetta!

Prendi il Matto con te!

“Una volpe incappata alla tagliola
“e questa brutta razza di figliola
“toccherebbero in sorte
“l’una e l’altra la morte,
“se mi venisse il destro
“di barattare questo mio berretto
“con un capestro.
“Così il Matto se ’n va da questo tetto…”

(Esce)

GONERILLA -

Bèi consiglieri aveva intorno a lui!

Una scorta di cento cavalieri.

Bella politica di sicurezza

lasciargli in mano cento uomini armati!

Eh già, così al minimo segnale,

al minimo sussurro, fantasia,

risentimento, disapprovazione,

egli può sempre, con il lor sostegno,

proteggere la sua senil demenza

e avere in sua mercé le nostre vite…

(Chiamando ancora)

Osvaldo, Osvaldo, ohé!

ALBANIA -

Mah, forse son timori esagerati…

GONERILLA -

È sempre meglio del fidarsi troppo.

Preferisco stornare da me stessa

i malanni che temo,

allo star lì a temere tutto il tempo

di trovarmici dentro ed implicata.

Conosco il suo carattere.

Ho scritto a mia sorella quel che ha detto.

S’ella è ancora disposta ad ospitarlo

col codazzo dei cento cavalieri,

dopo ch’io le ho spiegato a menadito

tutta la sconvenienza della cosa…

Entra OSVALDO

Oh, finalmente, Osvaldo!

Quella mia lettera per mia sorella

l’avete poi stilata?

OSVALDO -

Sì, signora.

GONERILLA -

Prendetevi qualcuno e via al galoppo.

La informerete per filo e per segno

di tutti i miei timori;

aggiungetele poi da parte vostra

gli argomenti che meglio ritenete

atti a meglio convincerla.

Andate dunque, e tornate al più presto.

(Esce Osvaldo)

No, no, signore mio,

questo remissivo atteggiamento

al latte-miele, se per certi versi

da parte mia non posso condannarlo,

suscita, però, in me assai più critiche

per l’assenza di buon discernimento,

di quanto possa suscitare lode

questa tua perniciosa dabbenaggine.

ALBANIA -

Quanto lontano tu sappia vedere

in ciò non so; ma so che molto spesso

cercando il meglio si rovina il bene.

GONERILLA -

E allora?

ALBANIA -

Allora, chi vivrà vedrà.

(Escono)

 

 

 

SCENA V – Cortile davanti allo stesso palazzo

 

Entrano LEAR, KENT e IL MATTO

 

LEAR -

Va’ avanti tu da Gloucester, al castello,(40)

con questa lettera. Di quanto sai,

a mia figlia non dire più di quello

ch’ella stessa vorrà saper da te

riguardo al contenuto della lettera.

Ma se non muovi presto,

finirà che mi troverai già là

ché sarò giunto ancor prima di te.

KENT -

Non dormirò, signore, fino a tanto

che non avrò consegnato la lettera.

(Esce)

MATTO -

Se uno avesse il cervello ai calcagni

pensi gli ci verrebbero i geloni?

LEAR -

Certo, ragazzo.

MATTO -

Allora stammi allegro,

il tuo cervello non andrà in pantofole.(41)

LEAR -

(Ridendo)

Ah, ah, ah, ah, ah!…

MATTO -

Ora vedrai quanto l’altra tua figlia

si mostrerà amorevole con te;(42)

perché sebbene ella somigli a questa

come una mela selvatica a un’altra,(43)

io so quello che so.

LEAR -

Che cosa sai?

MATTO -

Che avrà lo stesso sapore di questa.

Sai perché il naso sta in mezzo della faccia?

LEAR -

No. Perché?

MATTO -

Con un occhio da una parte

e un occhio dall’altra del tuo naso,

tutto quello che non si sente a fiuto

si scopre a vista.

LEAR -

L’ho trattata male.

MATTO -

Sai come l’ostrica si fa il suo guscio?

LEAR -

No.

MATTO -

Manco io. Ma so perché la chiocciola

si porta sempre dietro la sua casa.

LEAR -

Perché?

MATTO -

Per ripararcisi la testa,

anziché darla via alle sue figlie

e restar con le corna allo scoperto.

LEAR -

Voglio dimenticare il mio carattere…

Un padre sì affettuoso!…

Allora, sono pronti i miei cavalli?

MATTO -

I tuoi somari sono andati a prenderli.

Sarebbe bello sapere il perché

le Sette Stelle(44) non son più di sette.

LEAR -

Sarà forse perché non sono otto.

MATTO -

E sì, certo! Ma bravo!

Saresti stato un ottimo buffone.

LEAR -

Riprendermi di forza tutto il mio

da quella là!… Mostro d’ingratitudine!

MATTO -

Zietto, se tu fossi il mio buffone,

te n’avrei fatte dare di frustate,

per esserti invecchiato innanzi tempo.

LEAR -

Che vuoi dire con questo?

MATTO -

Che non avresti dovuto permetterti

d’essere vecchio prima d’esser savio.

LEAR -

Oh, no, cieli pietosi, matto no,

non fatemi impazzire!

Conservatemi il seme di ragione!

Non voglio essere matto!

Entra un GENTILUOMO

Ebbene, allora, son pronti i cavalli?

GENTILUOMO -

Pronti, signore.

LEAR -

Vieni via, ragazzo.

MATTO -

“Colei ch’è ora illibata pulzella
“e ride alla mia andata
“non sarà a lungo quella
“se non decide di cambiare strada.”(45)

(Esce con Lear e il Gentiluomo)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I – Il castello del conte di Gloucester

 

Entrano, da parti opposte, EDMONDO e CURANO

 

EDMONDO -

Salve, Curano.

CURANO -

Salute anche a voi.

Ho appena prevenuto vostro padre

che il Duca e la Duchessa di Cornovaglia

saranno qui stasera.

EDMONDO -

Come mai?

CURANO -

A dire il vero, non ve lo so dire.

Avete udito quello che si dice…

o meglio si sussurra tra la gente,

dato che sono voci bisbigliate

in un orecchio?

EDMONDO -

Io no. Quali voci?

CURANO -

Non avete sentito

di una possibile ostilità

tra i duchi d’Albania e Cornovaglia?

EDMONDO -

Nemmeno una parola.

CURANO -

Lo saprete,

lo saprete a suo tempo. Addio, signore.

(Esce)

EDMONDO -

Il Duca qui, stasera… Tanto meglio!

Anzi, benissimo!… Un altro filo

che viene ad intrecciarsi alla mia trama.

Mio padre ha messo guardie dappertutto

per catturare mio fratello Edgardo,

ed io ho per le mani una faccenda

ch’è piuttosto scabrosa da sbrigare.

Celerità e fortuna, a voi adesso!

Fratello, una parola. Vieni giù.

Fratello, dico!

Entra EDGARDO

Mio padre ti cerca.

Devi filartela. T’hanno scoperto.

Approfitta del buio della notte.

Hai detto forse qualcosa di male

contro il Duca di Cornovaglia, eh?

Arriva qui stanotte in tutta fretta,

e Regana è con lui.

O hai forse parlato in suo favore

e contro l’Albania? Pensaci bene.

EDGARDO -

No, son sicuro, non ho detto nulla.

EDMONDO -

Sento venir mio padre… Abbi pazienza,

ma devo avanti a lui mostrar per finta

di snudare la spada contro te.

Tu fa’ lo stesso, fingi di difenderti…

Su, avanti, fa’ come ti viene meglio!

(Sfodera la spada e grida)

Arrenditi! Presèntati a mio padre!

Luce, luce, qualcuno!

(Piano)

Fuggi, fuggi, fratello!

(Forte)

Torce! Torce!

(Piano a Edgardo)

Va’ ora, fuggi, addio.

(Esce Edgardo)

Se mi facessi uscire un po’ di sangue

farò credere d’essermi portato

più valorosamente.

Ho visto far di peggio da ubriachi,

per gioco…

(Si procura con la spada una lieve ferita al braccio, mentre entrano GLOUCESTER e servi con torce).

Padre! Padre!

Fermi, fermi!… Nessuno mi soccorre?

GLOUCESTER -

Dov’è quella canaglia? Dov’è, Edmondo?

EDMONDO -

Era qui, al buio, con la spada in pugno

e borbottava osceni sortilegi

invocando la luna sua patrona.

GLOUCESTER -

E adesso?

EDMONDO -

(Mostrando la ferita)

Ohimè, signore, perdo sangue.

Guardate qua.

GLOUCESTER -

Dov’è quel miserabile?

EDMONDO -

È fuggito da quella parte, padre,

quando s’è accorto di non poter più…

GLOUCESTER -

Presto, presto inseguitelo…

“Non poter più”…

EDMONDO -

… non poter più riuscire a persuadermi

all’assassinio di vossignoria;

ma quando poi gli ho detto che gli dèi

scaglian sui figli che uccidono i padri

tutti i fulmini della lor vendetta,

e gli ho detto dei molti e sacri vincoli

che debbono legare un figlio al padre…

alla fine, signore, quando ha visto

con quale repugnanza m’opponevo

a quella sua intenzione snaturata,

con un guizzo furioso, d’improvviso,

con la spada che già teneva in mano

s’è avventato contro il mio corpo inerme

e m’ha ferito, come vedi, al braccio.

Poi, quando ha visto ridestarsi in me

il mio spirito fattosi più ardito

dalla coscienza d’essere nel giusto,

e disposto allo scontro spada a spada,

o intimorito forse alla mie grida,

è scappato.

GLOUCESTER -

E fugga pure lontano!

In questa terra non potrà restare

non catturato; e quando sarà preso,

sarà per lui la fine!

Il mio nobile duca, mio signore

e mio degno patrono e protettore,

arriva qui stanotte. In nome suo

io farò proclamare in ogni luogo

che chiunque riesca a catturarlo

s’avrà da noi una cospicua taglia,

avendo assicurato alla giustizia

un vile parricida; e che avrà morte

chiunque lo protegga e lo nasconda.

EDMONDO -

Quando mi son provato a dissuaderlo

dal suo proposito, e mi sono convinto

ch’era ben risoluto a porlo in atto,

in termini furenti ho minacciato

di denunciarlo, ed ecco la risposta:

“Tu, bastardo, che non possiedi nulla,

t’illudi forse che s’io ti smentissi,

basterebbero a farti prestar credito

quel poco di fiducia, di virtù,

di merito che sono in te riposti?

No, io ti smentirò - e lo farei,

quand’anche tu riuscissi a dimostrare

che quel foglio fu scritto da mia mano -

ritorcendo contro di te, ogni trama,

invenzione, dannato stratagemma;

e tu dovresti trasformare il mondo

in una grande massa d’imbecilli,

per fargli credere che la mia morte

non sarebbe per te una tal pacchia,

da farne un grande e convincente stimolo

per te a procurarla.”

GLOUCESTER -

O inaudito, incallito mascalzone!

Quella lettera dunque negherebbe

d’averla scritta lui?… Non è mio figlio!

(Trombe all’esterno)

Son le trombe del Duca…

Non so perché stasera viene qui.

Farò ordinar da lui direttamente

la chiusura di tutti i nostri porti.

Quella canaglia non mi sfuggirà.

Il Duca non potrà dirmi di no.

Farò poi circolare il suo ritratto

per tutto il regno, in modo che ciascuno

possa identificarlo; in quanto a te,

naturale e leale figlio mio,

troverò il modo di farti eligibile

a ereditar solo tu le mie terre.

Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA e seguito

CORNOVAGLIA -

Ehi là, nobile amico! Appena giunto

– e posso dir senz’altro in questo istante –

mi tocca qui di udir strane notizie.

REGANA -

Che se fossero vere,

sarebbe inadeguato ogni castigo

per il reo… Come va, mio buon signore?

GLOUCESTER -

Oh, signora, il mio vecchio cuore è in pezzi,

schiantato!…

REGANA -

Come! È vero, dunque, allora,

è vero che il figlioccio di mio padre,

quello al quale mio padre ha imposto il nome,

voleva uccidervi? Il vostro Edgardo?

GLOUCESTER -

Oh, signora, signora!

Vergogna m’imporrebbe di nasconderlo!

REGANA -

Che non si fosse per caso imbrancato

con quei malcostumati cavalieri

che stanno con mio padre?

GLOUCESTER -

Non lo so.

Ma che obbrobrio, signora, che vergogna!

EDMONDO -

Sì, signora, era della lor congrega.

REGANA -

Quand’è così, nessuna meraviglia

che ne subisse la mala influenza;

e son certa che sono stati quelli

ad istigarlo ad uccidere suo padre,

per poter poi disporre e sperperare

tutte le sue sostanze a lor talento.

Ho ricevuto proprio questa sera

da mia sorella certe informazioni

su di loro, e con tali avvertimenti

che se vengono a stare a casa mia,

io non ci resterò un sol minuto.

CORNOVAGLIA -

E così io, Regana, puoi star certa.

Edmondo, ho appreso che, da buon figliolo,

vi siete dimostrato eccezionale

per lealtà riguardo a vostro padre.

GLOUCESTER -

Ha scoperto l’intrigo del fratello

e s’è buscato qui questa ferita

nel cercar di arrestarlo.

CORNOVAGLIA -

È ricercato?

GLOUCESTER -

Sì, signor mio.

CORNOVAGLIA -

Se viene catturato,

non s’avrà più a temer che faccia danno.

Per questo fate pure assegnamento,

Gloucester, sopra la mia autorità

come volete. In quanto a voi, Edmondo,

il cui valore e la cui devozione

han meritato tanto apprezzamento,

voi sarete dei nostri. Abbiam bisogno

di nature leli; e per intanto

vogliamo assicurarci voi per primo.

EDMONDO -

Vi servirò con cieca fedeltà

come e dove vogliate, mio signore.

GLOUCESTER -

E io ringrazio per lui vostra grazia.

CORNOVAGLIA -

Voi ignorate però la ragione

di questa nostra visita improvvisa…

REGANA -

… e per giunta in un’ora così insolita,

infilando la cruna della notte

dall’occhio nero…(46); ragioni importanti,

nobile Gloucester, intorno alle quali

abbiam bisogno del vostro consiglio.

Ci ha scritto nostro padre,

e così pure la sorella nostra

di certi loro recenti contrasti

ai quali m’è sembrato più opportuno

rispondere lontan da casa nostra.

I messaggeri per l’uno e per l’altra

son pronti per partire.

Mettete dunque, buono e vecchio amico,

un poco di conforto al vostro cuore

e concedeteci il vostro consiglio

su questo affare, che ne ha gran bisogno.

GLOUCESTER -

Sono al vostro servizio, mia signora,

le Grazie Vostre son le benvenute.

(Escono)

 

 

 

SCENA II – Davanti al castello di Gloucester. Mattino.

 

Entrano KENT e OSVALDO, incontrandosi

 

OSVALDO -

Buon risveglio a te, amico. Sei di casa?

KENT -

Già.

OSVALDO -

Ti dispiace allora d’indicarci

dove possiamo lasciare i cavalli?

KENT -

Nel letame.

OSVALDO -

Ti prego, amico, dimmelo,

se mi vuoi bene.

KENT -

Non ti voglio bene.

OSVALDO -

Quand’è così, mi faccio i fatti miei.

KENT -

Te li farei far io i fatti tuoi,

se t’avessi di fronte al parco-buoi!(47)

OSVALDO -

Ce l’hai con me? Perché? Non ti conosco.

KENT -

Ma ti conosco io!

OSVALDO -

Per chi mi prendi?

KENT -

Per un grosso furfante, una canaglia,

uno sgranocchiatore di rifiuti,

un malnato smargiasso, un tre-vestiti,(48)

cento libbre di carne mal calzate,(49)

fegato di coniglio, quereloso,

un figlio di puttana frustaspecchi,(50)

leccapiedi, servile narcisista,

sordido erede d’un sacco di stracci,

pronto a fare il ruffiano come capita,

nient’altro che un impasto di marrano,

accattone, vigliacco, portaborse,

figlio ed erede di cagna bastarda:

uno che io sbatacchierò a legnate

da farlo stridere come un maiale

se ardisce di negarmi uno soltanto

di tutti i titoli che gli ho affibbiato.

OSVALDO -

Che razza d’individuo mostruoso

sei tu ad insultare così uno

che non conosci e che non ti conosce?

KENT -

E tu che razza di faccia di bronzo

sei a negare così di conoscermi,

se non più tardi di due giorni fa

non solo t’ho mandato gambe all’aria,

ma te le ho date in presenza del re?

Fuori la spada e difenditi, verme!

Se pure è ancora notte, c’è la luna;

farò di te una zuppa al chiar di luna,(51)

figlio di buona donna,

azzimato coglione! Fuori il ferro!

OSVALDO -

Vattene, non ho niente da spartire

con uno come te.

KENT -

Fuori la spada, t’ho detto, cialtrone!

Tu vieni qui latore di messaggi

contro il re, ed a prendere le parti

di quel pupazzo della Vanità(52)

ai danni della maestà del padre.

Mano alla spada, pezzo di carogna,

o t’affetto gli stinchi! Avanti, sfodera,

canaglia, fatti sotto!

OSVALDO -

Aiuto, aiuto!

M’ammazza! Aiuto!

KENT -

Forza, miserabile,

non scappare, difenditi, carogna!

Fermo, schiavo! Difenditi! Colpisci!

(Gli si avventa con la spada ma si arresta vedendo Edmondo che esce dal castello ed entra in scena)

Entra EDMONDO

EDMONDO -

Eh, diavolo! Che c’è? Che roba è questa?

KENT -

Anche tu, se ti prude, coccobello!

Su, avanti, fatti sotto,

che t’inizio al mestiere(53), signorino!

Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, GLOUCESTER e persone del seguito

GLOUCESTER -

Armi, spade snudate… Che succede?

CORNOVAGLIA -

Fermi, cessate, per la vostra vita!

Chi s’azzarda a tirare un solo colpo,

è un uomo morto. Che litigio è questo?

REGANA -

Sono i due messaggeri:

di mia sorella l’uno, del re l’altro…

CORNOVAGLIA -

Che c’è tra voi? Parlate.

OSVALDO -

Non ho quasi più fiato, monsignore.

KENT -

Sfido io! L’hai consumato tutto

a galoppare sopra il tuo coraggio.

A te non t’ha prodotto la natura,

vile ribaldo, t’ha cucito un sarto.(54)

CORNOVAGLIA -

Strano tipo costui, a dir così.

Un sarto che fa un uomo?

KENT -

Un sarto, sì;

un tagliapietre o un uomo di pennello

non l’avrebbero fatto così male

nemmeno con due anni di mestiere.

CORNOVAGLIA -

Ma parla: com’è nata questa rissa?

OSVALDO -

Questo vecchio ruffiano, monsignore,

al quale ho fatto grazia della vita

per un riguardo alla sua barba grigia…

KENT -

Lettera zeta, figlio di puttana,

inservibile come quella lettera!(55)

Se me ne date licenza, signore,

io lo trituro, questo lestofante

fino a ridurlo polvere in calcina,

e poi c’intonaco il muro d’un cesso…

“Per un riguardo alla sua barba grigia…”,

schifoso debosciato!

CORNOVAGLIA -

Basta là!

Non conosci tu dunque alcun rispetto,

furfante imbestialito?

KENT -

Sissignore,

ma la collera ha pure i suoi diritti.

CORNOVAGLIA -

Perché questa tua collera?

KENT -

Per vedere un villano come questo

aver l’onore d’una spada al fianco,

mentre d’onore addosso non ha niente.

Sorridenti carogne come lui

spesso rodono, come tanti topi,

fino a spezzarli, sacrosanti nodi

che di per sé sarebbero inscindibili;(56)

solleticano tutte le passioni

nell’animo dei loro protettori,

come olio sul fuoco, o come neve

sopra i loro glaciali sentimenti;

negano, e poi confermano, e poi negano

e volgono i lor becchi da gabbiano

al vento dell’umor dei lor padroni,

non essendo capaci di far altro

che d’accodarsi come dei segugi…

(A Osvaldo che sorride come per un tic di natura)

Peste a quella tua faccia d’epilettico!

Che fai, ti ridi delle mie parole

come s’io fossi matto? Paperone!

Se mi dovessi incontrare con te

nella piana di Sàrum, giuraddio,

ti farei correre e starnazzare

fino a Camelot!(57)

CORNOVAGLIA -

E che, vecchio, sei pazzo?

GLOUCESTER -

Su, parla. Com’è nato tutto questo?

KENT -

Non esistono al mondo altri contrari

fra i quali ci sia tanta antipatia

come tra me ed un simile furfante.

CORNOVAGLIA -

Perché furfante, che colpa ha commesso?

KENT -

Perché non mi va a genio la sua faccia.

CORNOVAGLIA -

E allora forse nemmeno la mia,

o la sua,

(Indica Edmondo)

o la sua.

(Indica Regana)

KENT -

Signore mio,

io faccio professione d’esser schietto:

ho visto ai tempi miei facce migliori

di quante se ne vedan sulle spalle

di quelli che mi stanno ora davanti.

CORNOVAGLIA -

Costui dev’essere di quei compari

che avendo avuto da qualcuno lodi

per la loro brutale sfrontatezza,

affettano una bolsa villania

assumendo forzati atteggiamenti

del tutto estranei alla lor natura.

Non sa adulare, lui! Anima schietta,

non dice che l’onesta verità!

Se il prossimo la beve, tanto meglio;

se no, lui schietto è stato e schietto resta.

Conosco questa risma di furfanti

che dietro l’ostentata lor schiettezza

celano più scaltrezza e oscuri fini

di venti smidollati cortigiani

usi a curvar la schiena tutto il giorno

ed a profondersi in salamelecchi

nel modo più impeccabile e garbato.

KENT -

Signore, in buona fede,

ed in autentica sincerità,

con licenza dell’eminenza vostra,

la cui influenza, come la corolla

di sfolgorante fuoco fiammeggiante

sulla fronte di…

CORNOVAGLIA -

Beh, beh, che vuoi dire

con questa enfatica incensatura?

KENT -

È per allontanarmi, monsignore,

dal mio gergo, che v’è tanto sgradito.

Io non sono capace di adulare;

se c’è qualcuno che, parlando schietto,

v’ha potuto imbrogliare, quello lì

è un altrettanto schietto farabutto;

ciò che, per parte mia, non sarò mai,

dovessi indurre il vostro disfavore

a rifiutarmi d’esserlo.(58)

CORNOVAGLIA -

(A Osvaldo)

In che l’avete offeso?

OSVALDO -

Io? In niente.

Piacque al re suo padrone, ultimamente,

per un suo malinteso, di picchiarmi,

e lui, per lusingarne il malumore,

e d’accordo col lui, mi sgambettò,

mi fe’ cadere a terra, m’insultò,

e si dette tale aria di gradasso

da trarne merito e lode dal re

per aver infierito sopra un uomo

datosi già per vinto;

ed oggi, poi, ancora tutto tronfio

per quella sua valorosa prodezza,

mi s’è avventato contro, spada in pugno.

KENT -

Non c’è tra queste canaglie vigliacche

nessuna che non abbia la pretesa

di voler un Aiace per suo matto.(59)

CORNOVAGLIA -

Portatemi qui i ceppi!

T’insegneremo noi, vecchio caparbio…

KENT -

Son troppo vecchio, io, per imparare,

signore. Non mandate per i ceppi.

Io sto servendo il re,

e son venuto qui da parte sua;

mettendo in ceppi me, suo messaggero,

mostrereste la vostra volontà

di fare cosa poco rispettosa,

un atto di palese malvolere

contro l’augusta e graziosa persona

del mio padrone.

CORNOVAGLIA -

Portatemi i ceppi!

Costui, per la mia vita ed il mio onore,

li terrà stretti fino al pomeriggio!

REGANA -

Al pomeriggio? Al pomeriggio e oltre,

e per tutta la notte, mio signore!

KENT -

Eh, signora, s’io fossi pure il cane

di vostro padre, non mi trattereste

in questo modo.

REGANA -

Il cane, no, messere;

ma sei il suo scherano, e lo farò.

CORNOVAGLIA -

Costui è uno della stessa risma

di quelli di cui parla tua sorella.

Portatemi qua i ceppi!

(Inservienti recano i ceppi)

GLOUCESTER -

Ch’io possa scongiurare vostra grazia

di non farlo. La sua mancanza è grave;

e il buon re suo padrone, son sicuro,

gliene darà la giusta punizione;

ma la pena che voi volete infliggergli

è troppo ignominiosa; essa è di quelle

con cui sono puniti i più malnati

e biechi malfattori resisi rei

di ruberie e simili delitti.

Il re potrebbe ben sentirsi offeso

d’esser tenuto in tanto poco conto

nella persona del suo messaggero,

se lo saprà trattato in questo modo.

CORNOVAGLIA -

Ne risponderò io di fronte al re.

REGANA -

Ancor più offesa sarà mia sorella

nell’apprendere che il suo maggiordomo

è stato dileggiato e malmenato

perchè adempiva ad un di lei mandato.

CORNOVAGLIA -

Su, imbracategli ai ceppi le caviglie.

GLOUCESTER -

(A Kent)

Me ne dispiace, amico, veramente;

ma così vuole il Duca,

e il suo carattere, lo sanno tutti,

non tollera contrasti o interferenze.

Seguiterò a intercedere per te.

KENT -

No, signore, vi prego, non lo fate.

Ho vegliato e viaggiato tanto a lungo,

nella mia vita, che passerò il mio tempo

un po’ dormendo ed il resto fischiando.

Talvolta la fortuna ai galantuomini

mostra i calcagni.(60) Buon giorno, signore.

GLOUCESTER -

Il Duca ha torto nell’agir così;

la cosa sarà presa molto male.

(Esce)

KENT -

(Traendo da una tasca una lettera)

Gran Re,(61) tu vedi adesso di mostrarmi

la veridicità del noto adagio:

“Se il favore del cielo t’abbandona,

c’è sempre il caldo sole che t’accoglie”.

Sorgi, o faro di questo basso mondo,

così che col conforto dei tuoi raggi

io possa legger ora questa lettera.

Quasi nessuno vede più miracoli

tranne chi sta in disgrazia.

Questa lettera so ch’è di Cordelia;

ha saputo, non so da quale fonte,

del mio travestimento, con suo padre,

e coglierà certamente occasione

da questa mia iniqua situazione

di portare rimedio a tanti guai.

Stanchi occhi miei, consunti dalla veglia,

profittate di questa pesantezza

per non vedere l’onta e il vituperio

del luogo ove mi trovo.

Buona notte, fortuna. Torna ancora

a sorridermi; gira la tua ruota.

(Si addormenta)

 

 

 

SCENA III – Luogo aperto

 

Entra EDGARDO

 

EDGARDO -

Ho udito proclamare in ogni dove

la mia condanna al bando, e per fortuna,

grazie alla cavità d’un tronco d’albero,

son riuscito a sfuggire alla caccia.

Non c’è più un porto libero, più un sito,

dove non siano sguinzagliate guardie;

è in atto la più stretta sorveglianza

per evitar ch’io fugga.

Ma finché sarò in grado, fuggirò,

e farò tutto per mettermi in salvo.

Ho pensato di assumere l’aspetto

più ignobile e più povero

che la miseria abbia mai assunto

a disprezzo dell’uomo, a degradarlo

fin quasi a bestia.