Rime
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Dante Alighieri
Rime
I
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO
Savete giudicar vostra ragione,
o om che pregio di saver portate
per che, vitando aver con voi quistione
com so rispondo a le parole ornate.
Disio verace, ù rado fin si pone,
che mosse di valore o di bieltate,
imagina l’amica oppinione
significasse il don che pria narrate.
Lo vestimento, aggiate vera spene
che fia, da lei cui desiate, amore
e ‘n ciò provide vostro spirto bene:
dico, pensando l’ovra sua d’allore.
La figura che già morta sorvene
è la fermezza ch’averà nel core.
II
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO
Qual che voi siate, amico, vostro manto
di scienza parmi tal che non è gioco;
sì che, per non saver, d’ira mi coco,
non che laudarvi sodisfarvi tanto.
Sacciate ben (ch’io mi conosco alquanto)
che di saver ver’ voi ho men d’un moco,
né per via saggia come voi non voco,
così parete saggio in ciascun canto.
Poi piacevi saver lo meo coraggio,
e io ‘l vi mostro di menzogna fore,
sì come quei ch’a saggio è ‘l suo parlare:
certanamente a mia coscienza pare,
chi non è amato, s’elli è amadore
che ‘n cor porti dolor senza paraggio.
III
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO
Non canoscendo, amico, vostro nomo,
donde che mova chi con meco parla,
conosco ben che scienz’à di gran nomo,
sì che di quanti saccio nessun par l’à:
ché si po’ ben canoscere d’un omo,
ragionando, se ha senno, che ben par là;
conven poi voi laudar sanza far nomo,
è forte a lingua mia di ciò com parla.
Amico (certo sonde, acciò ch’amato
per amore aggio), sacci ben, chi ama,
se non è amato, lo maggior dol porta;
ché tal dolor ten sotto suo camato
tutti altri, e capo di ciascun si chiama:
da ciò ven quanta pena Amore porta.
IV
DANTE ALIGHIERI A DANTE DA MAIANO
Savere e cortesia, ingegno ed arte,
nobilitate, bellezza e riccore,
fortezza e umiltate e largo core,
prodezza ed eccellenza, giunte e sparte,
este grazie e vertuti in onne parte
con lo piacer di lor vincono Amore:
una più ch’altra ben ha più valore
inverso lui, ma ciascuna n’ha parte.
Onde se voli, amico, che ti vaglia
vertute naturale od accidente,
con lealtà in piacer d’Amor l’adovra,
e non a contastar sua graziosa ovra:
ché nulla cosa gli è incontro possente,
volendo prender om con lui battaglia.
V
Se Lippo amico sé tu che mi leggi,
davanti che proveggi
a le parole che dir ti prometto,
da parte di colui che mi t’ha scritto
in tua balia mi metto
e recoti salute quali eleggi.
Per tuo onor audir prego mi deggi
e con l’udir richeggi
ad ascoltar la mente e lo ‘ntelletto:
io che m’appello umile sonetto,
davanti al tuo cospetto
vegno, perché al non caler non feggi.
Lo qual ti guido esta pulcella nuda,
che ven di dietro a me sì vergognosa
ch’a torto gir non osa,
perch’ella non ha vesta in che si chiuda;
e priego il gentil cor che ‘n te riposa
che la rivesta e tegnala per druda,
VI
Lo meo servente core
vi raccomandi Amor, che vi l’ha dato,
e Merzé d’altro lato
di me vi rechi alcuna rimembranza;
ché, del vostro valore
avanti ch’io mi sia guari allungato,
mi tien già confortato
di ritornar la mia dolce speranza.
Deo, quanto fie poca addimoranza,
secondo il mio parvente:
ché mi volge sovente
la mente per mirar vostra sembianza;
per che ne lo meo gire e addimorando,
gentil mia donna, a voi mi raccomando.
VII
La dispietata mente, che pur mira
di retro al tempo che se n’è andato,
da l’un de’ lati mi combatte il core;
e ‘l disio amoroso, che mi tira
ver’ lo dolce paese c’ho lasciato,
d’altra part’è con la forza d’Amore;
né dentro ì sento tanto di valore
che lungiamente ì possa far difesa,
gentil madonna, se da voi non vene:
però, se a voi convene
ad iscampo di lui mai fare impresa,
piacciavi di mandar vostra salute,
che sia conforto de la sua virtute.
Piacciavi, donna mia, non venir meno
a questo punto al cor che tanto v’ama,
poi sol da voi lo suo soccorso attende;
ché buon signor già non ristringe freno
per soccorrer lo servo quando ‘l chiama
VIII
Non mi poriano già mai fare ammenda
del lor gran fallo gli occhi miei, sed elli
non s’accecasser, poi la Garisenda
torre miraro cò risguardi belli,
e non conobber quella (mal lor prenda)
ch’è la maggior de la qual si favelli:
però ciascun di lor voì che m’intenda
che già mai pace non farò con elli;
poi tanto furo, che ciò che sentire
doveano a ragion senza veduta,
non conobber vedendo; onde dolenti
son li miei spirti per lo lor fallire,
e dico ben, se ‘l voler non mi muta,
ch’eo stesso li uccidrò, què scanoscenti.
IX
Guido, ì vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ‘l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come ì credo che saremmo noi.
X
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.
I’ vidi a voi, donna, portare
ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile;
e ‘n suo cantar sottile
dicea: “Chi mi vedrà
lauderà ‘l mio signore”.
Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella a sentire,
allor dirò la donna mia
che port’in testa i miei sospire.
Ma per crescer disire
mia donna verrà
coronata da Amore.
Le parolette mie novelle,
XI
Madonna, quel signor che voi portate
ne gli occhi, tal che vince ogni possanza,
mi dona sicuranza
che voi sarete amica di pietate,
però che là dov’ei fa dimoranza
ed ha in compagnia molta beltate,
tragge tutta bontate
a sé, come principio c’ha possanza;
ond’io conforto sempre mia speranza,
la qual è stata tanto combattuta
che sarebbe perduta,
se non fosse che Amore
contro ogni avversità le dà valore
con la sua vista e con la rimembranza
del dolce loco e del soave fiore
che di novo colore
cerchiò la mente mia,
merzé di vostra grande cortesia.
XII
Deh, Violetta, che in ombra d’Amore
ne gli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.
Tu, Violetta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch’io vidi;
poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana
là dove tu mi ridi.
Deh, non guardare perché a lei mi fidi,
ma drizza li occhi al gran disio che m’arde,
ché mille donne già per esser tarde
sentiron pena de l’altrui dolore.
XIII
Volgete li occhi a veder chi mi tira,
per ch’ì non posso più venir con vui,
e onoratel, ché questi è colui
che per le gentil donne altrui martira.
La sua vertute, ch’ancide sanz’ira,
pregatel che mi laghi venir pui,
ed io vi dico, de li modi sui
cotanto intende quanto l’om sospira:
ch’elli m’è giunto fero ne la mente,
e pingevi una donna sì gentile
che tutto mio valore à pie’ le corre;
e fammi udire una voce sottile
che dice: “Dunque vuò tu per neente
a li occhi tuoi sì bella donna tòrre?”
XIV
Deh, ragioniamo insieme un poco, Amore,
e tràmi d’ira, che mi fa pensare;
e se vuol l’un de l’altro dilettare,
trattiam di nostra donna omai, signore.
Certo il viaggio ne parrà minore
prendendo un così dolze tranquillare,
e già mi par gioioso il ritornare,
audendo dire e dir di suo valore.
Or incomincia, Amor, ché si convene,
e moviti a far ciò ch’è la cagione
che ti dichini a farmi compagnia,
o vuol merzede o vuol tua cortesia;
ché la mia mente il mio penser dipone,
cotal disio de l’ascoltar mi vene.
XV
Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,
lepri levare, ed isgridar le genti,
e di guinzagli uscir veltri correnti,
per belle piagge volgere e imboccare
assai credo che deggia dilettare
libero core e van d’intendimenti.
Ed io, fra gli amorosi pensamenti,
d’uno sono schernito in tale affare;
e dicemi esto motto per usanza:
“Or ecco leggiadria di gentil core,
per una sì selvaggia dilettanza
lasciar le donne e lor gaia sembianza”.
Allor, temendo non che senta Amore,
prendo vergogna, onde mi ven pesanza.
XVI
Com più vi fere Amor cò suoi vincastri,
più li vi fate in ubidirlo presto,
ch’altro consiglio, ben lo vi protesto,
non vi si può già dar: chi vuol, l’incastri.
Poi, quando fie stagion, coi dolci impiastri
farà stornarvi ogni tormento agresto,
ché ‘l mal d’Amor non è pesante il sesto
ver’ ch’è dolce lo ben. Dunque ormai lastri
vostro cor lo cammin per seguitare
lo suo sommo poder, se v’ha sì punto
come dimostra ‘l vostro buon trovare;
e non vi disviate da lui punto,
ch’elli sol può tutt’allegrezza dare
è suoi serventi meritare a punto.
XVII
Sonetto, se Meuccio t’è mostrato,
così tosto ‘l saluta come ‘l vedi,
e va’ correndo e gittaliti à piedi,
sì che tu paie bene accostumato.
E quando sé con lui un poco stato,
anche ‘l risalutrai, non ti ricredi;
e poscia a l’ambasciata tua procedi,
ma fa’ che ‘l tragghe prima da un lato;
e di’: “Meuccio, què che t’ama assai
de le sue gioie più care ti manda,
per accontarsi al tù coraggio bono”.
Ma fa’ che prenda per lo primo dono
questi tuò frati, e a lor sì comanda
che stean con lui e qua non tornin mai.
XVIII
De gli occhi de la mia donna si move
un lume sì gentil che, dove appare,
si veggion cose ch’uom non po’ ritrare
per loro altezza e per lor esser nove:
e de’ suoi razzi sovra ‘l meo cor piove
tanta paura che mi fa tremare
e dicer: “Qui non voglio mai tornare”;
ma poscia perdo tutte le mie prove:
e tornomi colà dov’io son vinto,
riconfortando gli occhi paurusi,
che sentiêr prima questo gran valore.
Quando son giunto, lasso, ed è son chiusi;
lo disio che li mena quivi è stinto:
però proveggia a lo mio stato Amore.
XIX
Ne le man vostre, gentil donna mia,
raccomando lo spirito che more:
è se ne va sì dolente ch’Amore
lo mira con pietà, che ‘l manda via.
Voi lo legaste a la sua signoria,
sì che non ebbe poi alcun valore
di poter lui chiamar se non: “Signore,
qualunque vuoi di me, quel vò che sia”.
Io so che a voi ogni torto dispiace:
però la morte, che non ho servita,
molto più m’entra ne lo core amara.
Gentil mia donna, mentre ho de la vita,
per tal ch’io mora consolato in pace,
vi piaccia agli occhi miei non esser cara.
XX
È m’incresce di me sì duramente
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’aire del sezzà sospiro
entro ‘n quel cor che i belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oimè, quanto piani,
soavi e dolci ver’ me si levaro,
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo: “Nostro lume porta pace”.
“Noi darem pace al core, a voi diletto”,
diceano a li occhi miei
quei de la bella donna alcuna volta;
ma poi che sepper di loro intelletto
XXI
Lo doloroso amor che mi conduce
a fin di morte per piacer di quella
che lo mio cor solea tener gioioso,
m’ha tolto e toglie ciascun di’ la luce
che avean li occhi miei di tale stella
che non credea di lei mai star doglioso:
e ‘l colpo suo, c’ho portato nascoso,
omai si scopre per soverchia pena,
la qual nasce del foco
che m’ha tratto di gioco,
sì ch’altro mai che male io non aspetto;
e ‘l viver mio (omai esser de’ poco)
fin a la morte mia sospira e dice:
“Per quella moro c’ha nome Beatrice”.
Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fiate ch’ì lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch’io sento;
e de la doglia diverrò sì magro
XXII
Di donne io vidi una gentile schiera
questo Ognissanti prossimo passato,
e una ne venia quasi imprimiera,
veggendosi l’Amor dal destro lato.
De gli occhi suoi gittava una lumera,
la qual parea un spirito infiammato;
e ì ebbi tanto ardir ch’in la sua cera
guardà, e vidi un angiol figurato.
A chi era degno donava salute
co gli atti suoi quella benigna e piana,
e ‘mpiva ‘l core a ciascun di vertute.
Credo che de lo ciel fosse soprana,
e venne in terra per nostra salute:
là ‘nd’è beata chi l’è prossimana.
XXIII
Onde venite voi così pensose?
Ditemel, s’a voi piace, in cortesia,
ch’ì ho dottanza che la donna mia
non vi faccia tornar così dogliose.
Deh, gentil donne, non siate sdegnose,
né di ristare alquanto in questa via
e dire al doloroso che disia
udir de la sua donna alquante cose;
avvegna che gravoso m’è l’udire:
sì m’ha in tutto Amor da sé scacciato
ch’ogni suo atto mi trae a ferire.
Guardate bene s’ì son consumato,
ch’ogni mio spirto comincia a fuggire,
se da voi, donne, non son confortato.
XXIV
“Voi, donne, che pietoso atto mostrate,
chi è esta donna che giace sì venta?
sarebbe quella ch’è nel mio cor penta?
Deh, s’ella è dessa, più non mel celate.
Ben ha le sue sembianze sì cambiate,
e la figura sua mi par sì spenta,
ch’al mio parere ella non rappresenta
quella che fa parer l’altre beate”.
“Se nostra donna conoscer non pòi,
ch’è sì conquisa, non mi par gran fatto,
però che quel medesmo avvenne a noi.
Ma se tu mirerai il gentil atto
de li occhi suoi, conosceraila poi:
non pianger più, tu sé già tutto sfatto”.
XXV
Un di’ si venne a me Malinconia
e disse: “Io voglio un poco stare teco”;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.
E io le dissi: “Partiti, va’ via”;
ed ella mi rispose come un greco:
e ragionando a grande agio meco,
guardai e vidi Amore, che venia
vestito di novo d’un drappo nero,
e nel suo capo portava un cappello;
e certo lacrimava pur di vero.
Ed eo li dissi: “Che hai, cattivello?”
Ed el rispose: “Eo ho guai e pensero
ché nostra donna mor, dolce fratello”.
XXVI
DANTE A FORESE
Chi udisse tossir la malfatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ‘l cristallo, in quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata:
or sappi che de’ far d’ogni altro mese...;
e non le val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
La tosse, ‘l freddo e l’altra mala voglia
no l’addovien per omor’ ch’abbia vecchi,
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: “Lassa, che per fichi secchi
messa l’avrè ‘n casa del conte Guido”.
XXVII
DANTE A FORESE
Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, è petti de le starne,
ma peggio fia la lonza del castrone,
ché ‘l cuoio farà vendetta de la carne;
tal che starai più presso a San Simone,
se tu non ti procacci de l’andarne:
e ‘ntendi che ‘l fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
Ma ben m’è detto che tu sai un’arte
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;
e fa sì, a tempo, che tema di carte
non hai, che ti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male à fì di Stagno.
XXVIII
DANTE A FORESE
Bicci novel, figliuol di non so cui
(s’ì non ne domandasse monna Tessa),
giù per la gola tanta roba hai messa
ch’a forza ti convien tòrre l’altrui.
E già la gente si guarda da lui,
chi ha borsa a lato, là dov’è s’appressa
dicendo: “Questi c’ha la faccia fessa,
è piuvico ladron negli atti sui”.
E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ‘mbolare,
che gli appartien quanto Giosepp’a Cristo.
Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del malacquisto
sanno a lor donne buon’ cognati stare.
XXIX
Voi che savete ragionar d’Amore,
udite la ballata mia pietosa,
che parla d’una donna disdegnosa,
la qual m’ha tolto il cor per suo valore.
Tanto disdegna qualunque la mira,
che fa chinare gli occhi di paura,
però che intorno à suoi sempre si gira
d’ogni crudelitate una pintura;
ma dentro portan la dolze figura
ch’a l’anima gentil fa dir: “Merzede”,
sì vertuosa che, quando si vede,
trae li sospiri altrui fora del core.
Par ch’ella dica: “Io non sarò umile
verso d’alcun che ne li occhi mi guardi,
ch’io ci porto entro quel segnor gentile
che m’ha fatto sentir de li suoi dardi”.
E certo ì credo che così li guardi
per vederli per sé quando le piace,
XXX
Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
ì canterò così disamorato
contra ‘l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’è vile e noioso
con nome di valore
cioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ella regna:
ell’è verace insegna
la qual dimostra ù la vertù dimora
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ‘ntendo,
XXXI
Parole mie che per lo mondo siete,
voi che nasceste poi ch’io cominciai
a dir per quella donna in cui errai:
“Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete”,
andatevene a lei, che la sapete,
chiamando sì ch’ell’oda i vostri guai;
ditele: “Noi siam vostre, ed unquemai
più che noi siamo non ci vederete”.
Con lei non state, ché non v’è Amore,
ma gite a torno in abito dolente
a guisa de le vostre antiche sore.
Quando trovate donna di valore,
gittatelevi à piedi umilemente,
dicendo: “A voi dovem noi fare onore”.
XXXII
O dolci rime che parlando andate
de la donna gentil che l’altre onora,
a voi verrà, se non è giunto ancora,
un che direte: “Questi è nostro frate”.
Io vi scongiuro che non l’ascoltiate,
per quel signor che le donne innamora,
ché ne la sua sentenzia non dimora
cosa che amica sia di veritate.
E se voi foste per le sue parole
mosse a venire inver’ la donna vostra,
non v’arrestate, ma venite a lei.
Dite: “Madonna, la venuta nostra
è per raccomandarvi un che si dole,
dicendo: Ov’è ‘l disio de li occhi miei?”
XXXIII
Due donne in cima de la mente mia
venute sono a ragionar d’amore:
l’una ha in sé cortesia e valore,
prudenza e onestà in compagnia;
l’altra ha bellezza e vaga leggiadria,
adorna gentilezza le fa onore:
e io, merzé del dolce mio signore,
mi sto a pie’ de la lor signoria.
Parlan Bellezza e Virtù a l’intelletto
e fan quistion come un cor puote stare
intra due donne con amor perfetto.
Risponde il fonte del gentil parlare
ch’amar si può bellezza per diletto
e puossi amar virtù per operare.
XXXIV
“I’ mi son pargoletta bella e nova,
che son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’io fui.
I’ fui del cielo, e tornerovvi ancora
per dar de la mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’amor non averà mai intelletto,
ché non mi fu in piacer alcun disdetto
quando Natura mi chiese a Colui
che volle, donne, accompagnarmi a vui.
Ciascuna stella ne li occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute;
le mie bellezze sono al mondo nove,
però che di là su mi son venute:
le quai non posson esser canosciute
se non da canoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer altrui”.
Queste parole si leggon nel viso
XXXV
Perché ti vedi giovinetta e bella,
tanto che svegli ne la mente Amore,
pres’hai orgoglio e durezza nel core.
Orgogliosa sé fatta e per me dura,
po’ che d’ancider me, lasso, ti prove:
credo che ‘l facci per esser sicura
se la vertù d’Amore a morte move.
Ma perché preso più ch’altro mi trove,
non hai respetto alcun del mì dolore.
Possi tu spermentar lo suo valore.
XXXVI
Chi guarderà già mai sanza paura
ne li occhi d’esta bella pargoletta,
che m’hanno concio sì che non s’aspetta
per me se non la morte, che m’è dura?
Vedete quanto è forte mia ventura,
che fu tra l’altre la mia vita eletta
per dare essemplo altrui ch’uom non si metta
in rischio di mirar la sua figura.
Destinata mi fu questa finita,
da ch’un uom convenia esser disfatto,
perch’altri fosse di pericol tratto;
e però, lasso, fùio così ratto
in trarre a me ‘l contrario de la vita
come vertù di stella margherita.
XXXVII
Amor, che movi tua vertù da cielo
come ‘l sol lo splendore,
che là s’apprende più lo suo valore
dove più nobiltà suo raggio trova;
e come el fuga oscuritate e gelo,
così, alto segnore,
tu cacci la viltate altrui del core,
né ira contra te fa lunga prova:
da te conven che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto;
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenzia di ben fare,
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
né dar diletto di color né d’arte.
Feremi ne lo cor sempre tua luce,
come raggio in la stella,
poi che l’anima mia fu fatta ancella
XXXVIII
Io sento sì d’Amor la gran possanza
ch’io non posso durare
lungamente a soffrire, ond’io mi doglio:
però che ‘l suo valor si pur avanza,
e ‘l mio sento mancare
sì ch’io son meno ognora ch’io non soglio.
Non dico ch’Amor faccia più ch’io voglio,
ché, se facesse quanto il voler chiede,
quella vertù che natura mi diede
non sosterria, però ch’ella è finita:
ma questo è quello ond’io prendo cordoglio,
che a la voglia il poder non terrà fede;
e se di buon voler nasce merzede,
io l’addimando per aver più vita
da li occhi che nel lor bello splendore
portan conforto ovunque io sento amore.
Entrano i raggi di questi occhi belli
né miei innamorati,
XXXIX
DANTE ALL’IGNOTO
Io Dante a te, che m’hai così chiamato,
rispondo brieve con poco pensare,
però che più non posso soprastare,
tanto m’ha ‘l tuo pensier forte affannato.
Ma ben vorrei saper dove e in qual lato
ti richiamasti, per me ricordare:
forse che per mia lettera mandare
saresti d’ogni colpo risanato.
Ma s’ella è donna che porti anco vetta,
sì ‘n ogni parte mi pare esser fiso
ch’ella verrà a farti gran disdetta.
Secondo detto m’hai ora, m’avviso
che ella è d’ogni peccato netta
come angelo che stia in paradiso.
XL
DANTE A CINO
I’ ho veduto già senza radice
legno ch’è per omor tanto gagliardo
che què che vide nel fiume lombardo
cader suo figlio, fronde fuor n’elice;
ma frutto no, però che ‘l contradice
natura, ch’al difetto fa riguardo,
perché conosce che saria bugiardo
sapor non fatto da vera notrice.
Giovane donna a cotal guisa verde
talor per gli occhi sì a dentro è gita
che tardi poi è stata la partita.
Periglio è grande in donna sì vestita:
però l’affronto de la gente verde
parmi che la tua caccia non seguer de’.
XLI
DANTE A CINO
Perch’io non trovo chi meco ragioni
del signor a cui siete voi ed io,
conviemmi sodisfare al gran disio
ch’ì ho di dire i pensamenti boni.
Null’altra cosa appo voi m’accagioni
del lungo e del noioso tacer mio
se non il loco ov’ì son, ch’è sì rio
che ‘l ben non trova chi albergo li doni.
Donna non ci ha ch’Amor le venga al volto,
né omo ancora che per lui sospiri;
e chi ‘l facesse, qua sarebbe stolto.
Oh, messer Cin, come ‘l tempo è rivolto
a danno nostro e de li nostri diri,
da po’ che ‘l ben è sì poco ricolto.
XLII
Messer Brunetto, questa pulzelletta
con esso voi si ven la pasqua a fare:
non intendete pasqua di mangiare,
ch’ella non mangia, anzi vuol esser letta.
La sua sentenzia non richiede fretta
né luogo di romor né da giullare;
anzi si vuol più volte lusingare
prima che ‘n intelletto altrui si metta.
Se voi non la intendete in questa guisa,
in vostra gente ha molti frati Alberti
da intender ciò ch’è posto loro in mano.
Con lor vi restringete sanza risa;
e se li altri de’ dubbî non son certi,
ricorrete a la fine a messer Giano.
XLIII
Io son venuto al punto de la rota
che l’orizzonte, quando il sol si corca,
ci partorisce il geminato cielo,
e la stella d’amor ci sta remota
per lo raggio lucente che la ‘nforca
sì di traverso che le si fa velo;
e quel pianeta che conforta il gelo
si mostra tutto a noi per lo grand’arco
nel qual ciascun di sette fa poca ombra:
e però non disgombra
un sol penser d’amore, ond’io son carco,
la mente mia, ch’è più dura che petra
in tener forte imagine di petra.
Levasi de la rena d’Etiopia
lo vento peregrin che l’aere turba,
per la spera del sol ch’ora la scalda;
e passa il mare, onde conduce copia
di nebbia tal che, s’altro non la sturba,
XLIV
Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli,
quando si perde lo color ne l’erba:
e ‘l mio disio però non cangia il verde,
sì è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.
Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra:
ché non la move, se non come petra,
il dolce tempo che riscalda i colli,
e che li fa tornar di bianco in verde
perché li copre di fioretti e d’erba.
Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
trae de la mente nostra ogn’altra donna:
perché si mischia il crespo giallo e ‘l verde
sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.
XLV
Amor, tu vedi ben che questa donna
la tua vertù non cura in alcun tempo
che suol de l’altre belle farsi donna;
e poi s’accorse ch’ell’era mia donna
per lo tuo raggio ch’al volto mi luce,
d’ogne crudelità si fece donna;
sì che non par ch’ell’abbia cor di donna,
ma di qual fiera l’ha d’amor più freddo:
ché per lo tempo caldo e per lo freddo
mi fa sembiante pur come una donna
che fosse fatta d’una bella petra
per man di quei che mè intagliasse in petra.
E io, che son costante più che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
porto nascoso il colpo de la petra
con la qual tu mi desti come a petra
che t’avesse innoiato lungo tempo,
tal che m’andò al core ov’io son petra.
XLVI
Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda;
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi dà colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
sì ch’io non so da lei né posso atarme.
Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
né loco che dal suo viso m’asconda:
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi
XLVII
Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore:
ché dentro siede Amore
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute
che ‘l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui vertute né beltà non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’amico:
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.
XLVIII
Se vedi li occhi miei di pianger vaghi
per novella pietà che ‘l cor mi strugge,
per lei ti priego che da te non fugge,
Signor, che tu di tal piacere i svaghi:
con la tua dritta man, cioè, che paghi
chi la giustizia uccide e poi rifugge
al gran tiranno, del cui tosco sugge
ch’elli ha già sparto e vuol che ‘l mondo allaghi;
e messo ha di paura tanto gelo
nel cor de’ tuò fedei che ciascun tace.
Ma tu, foco d’amor, lume del cielo,
questa vertù che nuda e fredda giace,
levala su vestita del tuo velo,
ché sanza lei non è in terra pace.
XLIX
Doglia mi reca ne lo core ardire
a voler ch’è di veritate amico:
però, donne, s’io dico
parole quasi contra tutta gente,
non vi maravigliate,
ma conoscete il vil vostro disire;
ché la beltà ch’Amore in voi consente,
a vertù solamente
formata fu dal suo decreto antico,
contra ‘l qual voi fallate.
Io dico a voi che siete innamorate
che, se vertute a noi
fu data, e beltà a voi,
e a costui di due potere un fare,
voi non dovreste amare
ma coprir quanto di biltà v’è dato,
poi che non c’è vertù, ch’era suo segno.
Lasso, a che dicer vegno?
L
DANTE A CINO
Io sono stato con Amore insieme
da la circulazion del sol mia nona
e so com’egli affrena e come sprona,
e come sotto lui si ride e geme.
Chi ragione o virtù contra gli sprieme,
fa come què che ‘n la tempesta sona,
credendo far colà dove si tona
esser le guerre de’ vapori sceme.
Però nel cerchio de la sua palestra
liber arbitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco,
e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra,
seguitar si convien, se l’altro è stanco.
LI
DANTE A CINO
Degno fa voi trovare ogni tesoro
la voce vostra sì dolce e latina,
ma volgibile cor ven disvicina,
ove stecco d’Amor mai non fè foro.
Io, che trafitto sono in ogni poro
del prun che con sospir’ si medicina,
pur trovo la minera in cui s’affina
quella virtù per cui mi discoloro.
Non è colpa del sol se l’orba fronte
nol vede quando scende e quando poia,
ma de la condizion malvagia e croia.
S’ì vi vedesse uscir de gli occhi ploia
per prova fare a le parole conte,
non mi porreste di sospetto in ponte.
LII
DANTE A CINO
Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
ché si conviene omai altro cammino
a la mia nave più lungi dal lito;
ma perch’ì ho di voi più volte udito
che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
piacemi di prestare un pocolino
a questa penna lo stancato dito.
Chi s’innamora sì come voi fate,
or qua or là, e sé lega e dissolve,
mostra ch’Amor leggermente il saetti.
Però, se leggier cor così vi volve,
priego che con vertù il correggiate,
sì che s’accordi i fatti à dolci detti.
LIII
Amor, da che convien pur ch’io mi doglia
perché la gente m’oda,
e mostri me d’ogni vertute spento,
dammi savere a pianger come voglia,
sì che ‘l duol che si snoda
portin le mie parole com’io ‘l sento.
Tu vò ch’io muoia, e io ne son contento:
ma chi mi scuserà, s’io non so dire
ciò che mi fai sentire?
chi crederà ch’io sia omai sì colto?
E se mi dài parlar quanto tormento,
fa’, signor mio, che innanzi al mio morire
questa rea per me nol possa udire:
ché, se intendesse ciò che dentro ascolto,
pietà faria men bello il suo bel volto.
Io non posso fuggir ch’ella non vegna
ne l’imagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.
LIV
Per quella via che la bellezza corre
quando a svegliare Amor va ne la mente,
passa Lisetta baldanzosamente,
come colei che mi si crede tòrre.
E quando è giunta a pie’ di quella torre
che s’apre quando l’anima acconsente,
odesi voce dir subitamente:
“Volgiti, bella donna, e non ti porre:
però che dentro un’altra donna siede,
la qual di signoria chiese la verga
tosto che giunse, e Amor glile diede”.
Quando Lisetta accommiatar si vede
da quella parte dove Amore alberga,
tutta dipinta di vergogna riede.
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