Sogno di una notte di mezza estate

WILLIAM SHAKESPEARE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOGNO D’UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

 

Commedia in 5 atti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Traduzione e note di Goffredo Raponi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Titolo originale: “A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM”

 

NOTE PRELIMINARI

 

1) Il testo adottato per la traduzione è quello dell’edizione dell’opera completa di Shakespeare curata dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare – The Complete Works, Collins, London & Glasgow, 1960, pag. XXXII - 1370) con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello della più recente edizione dell’Oxford Shakespeare curata da G. Welles e G. Taylor per la Clarendon Press, New York, U.S.A.,1988-94, pagg. XLIX - 1274; quest’ultima contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Noble Kinsmen”) che manca nell’Alexander.

 

2) Alcune didascalie (“stage instructions”) sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è espressamente ordinata ed intesa, il traduttore essendo convinto della irrappresentabilità del teatro di Shakespeare –come del teatro elisabettiano in genere – sulle moderne ribalte.(1)

Si è conservata comunque la rituale indicazione “Entra”/ “Entrano” (“Enter”) e “Esce”/ “Escono” (“Exit”/ “Exeunt”), avvertendo peraltro che non sempre essa indica entrata/uscita dei personaggi, potendosi dare che questi si trovino già sulla scena all’apertura, o vi rimangano alla chiusura della stessa.

 

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto alternato da settenari; altro metro si è usato per citazioni, proverbi, canzoni, ecc, quando, in accordo col testo, sia stato richiesto uno stacco di stile.

 

4) Poiché la vicenda è situata nella Grecia classica, la forma colloquiale del “tu” è sembrata al traduttore obbligatoria in italiano, i greci non conoscendone altra.

 

5) Il traduttore riconosce di essersi avvalso, ed anche largamente in alcuni casi, di traduzioni precedenti dalle quali ha preso in prestito, oltre all’interpretazione di passi controversi, intere frasi e costrutti, dandone opportuno credito in nota.

 

PERSONAGGI

 

 

TESEO, duca d’Atene

 

EGEO, padre di Ermia

 

LISANDRO, DEMETRIO giovani spasimanti di Ermia

 

FILOSTRATO, maestro delle feste alla corte del duca

 

COTOGNA, falegname

CONFORTO, stipettaio

BOTTONE, tessitore

FLAUTO, aggiustatore di mantici

NASONE, calderaio

IL LANCA, sarto

 

IPPOLITA, regina delle Amazzoni, promessa a Teseo

 

ERMIA, figlia di Egeo, innamorata di Lisandro

 

ELENA, innamorata di Demetrio

 

OBERON, re delle fate

TITANIA, regina delle fate

 

PUCK, detto “Robin Bravomo”, folletto-monello

 

FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO, GRANDISENAPE, elfi

 

 

Personaggi dell’Interludio

 

PROLOGO

PIRAMO

TISBE

MURO

CHIARDILUNA

LEONE

 

ALTRI SPIRITI al seguito di Oberon e Titania

 

SERVI di Teseo e Ippolita

 

 

SCENA: Atene, e un bosco nelle adiacenze della città

 

ATTO PRIMO

 

 

 

SCENA I - Atene, sala nel Palazzo di Teseo

 

Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO e seguito

TESEO -

La nostra ora nuziale, bella Ippolita,

s’approssima: quattro giorni felici

ci porteranno la novella luna…

Oh, come questa vecchia pare lenta

a dileguarsi, quasi a ritardare

malignamente, come una matrigna,(2)

l’appagamento dei miei desideri,

o somigliante ad una ricca vedova

ostinatasi a viver troppo a lungo

per rendere a più a più sottili

le rendite del suo giovane erede.

IPPOLITA -

Quattro giorni faran presto a svanire

con le lor notti, e queste a dileguarsi

coi loro sogni; e la novella luna

come un arco d’argento teso in cielo(3)

salirà a contemplare sulla terra

la notte dei solenni nostri riti.

TESEO -

Va’, Filostrato, smuovi alla letizia

la gioventù d’Atene,

desta vivezza e gioia nei lor cuori,

ricaccia ai funerali l’umor triste,

ché quel pallido socio mal s’addice

alla festosità del nostro rito.

(Esce Filostrato)

Se con la spada, Ippolita,

t’ho corteggiata e ho vinto l’amor tuo(4)

con la forza, ora in ben diversa chiave

voglio condurti sposa: con gran pompa

e gran tripudio di festeggiamenti.

Entra EGEO, conducendo per mano sua figlia ERMIA; dietro di loro LISANDRO e DEMETRIO

EGEO -

Pace e gioia all’illustre nostro Duca!

TESEO -

Grazie, mio buon Egeo. Che c’è di nuovo?

EGEO -

Ecco, vengo da te col cuore amaro

a lagnarmi di questa mia creatura,

mia figlia Ermia.

(A Demetrio, che è rimasto indietro)

Vieni Demetrio, vieni pure avanti.

(A Teseo, indicando Demetrio)

Signore, questo giovine, Demetrio,

ha il mio consenso per condurla in moglie;

quest’altro - vieni avanti, tu, Lisandro -

me l’ha stregata, mio grazioso Duca.

Sì, proprio tu, Lisandro, l’hai stregata!

Hai profferto a mia figlia versi e rime,

hai scambiato con lei pegni d’amore;

sei venuto di notte, tu, Lisandro,

sotto la sua finestra, al chiar di luna,

a cantarle, con voce di lusinga,

strofe di falso amore;

ed hai rubato la sua fantasia

coll’inviarle in grazioso regalo

braccialetti di tuoi capelli in treccia,

e con anelli e dolci paroline

e chicche e zuccherini d’ogni sorta,

tutti araldi di forte seduzione

sulla sconsiderata gioventù,

sei giunto con astuzia a catturare

il cuore di mia figlia, fino al punto

di volgere in aperta ribellione

l’obbedienza di figlia che mi deve.

(A Teseo)

E se ora, grazioso mio signore,

ella non voglia acconsentire qui,

dinanzi a te, a sposare Demetrio,

io invoco per me l’applicazione

dell’antico privilegio di Atene:

poiché è cosa mia,

io posso far di lei quello che voglio;

o darla sposa a questo gentiluomo,(5)

o ad immediata morte,

come dispone in tal caso la legge.

TESEO -

E tu, Ermia, che dici?

Pensaci bene, vezzosa fanciulla.

Tuo padre dovrebb’essere per te

un dio, perché è lui, fanciulla mia,

che t’ha foggiata in questa bella forma;

come un blocco di cera

ch’egli con le sue mani ha modellato,

e può quindi lasciar così com’è,

o mandare distrutto, a suo talento.

Demetrio è un giovane degno di te.

ERMIA -

Lisandro non lo è meno.

TESEO -

Non lo nego;(6)

ma essendo necessario, in questo caso,

l’assenso di tuo padre,

più degno deve ritenersi l’altro.

ERMIA -

Vorrei solo, signore, che mio padre

potesse veder me con gli occhi miei.

TESEO -

Eh, no, sono piuttosto gli occhi tuoi

che devono vedere col suo senno.

ERMIA -

Perdonami signore, io non so

da quale misteriosa interna forza

mi venga tanta temerarietà,

né se s’addica alla mia pudicizia

perorare a favor dei miei pensieri

qui, dinnanzi a sì inclita presenza,

ma voglio supplicarti, mio signore,

di dirmi il peggio che mi può venire

se mi rifiuto di sposar Demetrio.

TESEO -

Esser mandata a morte,

o segregata per sempre dal mondo

in clausura. Perciò, ragazza mia,

indaga a fondo nei tuoi desideri,

considera la tua giovane età,

esamina gli impulsi del tuo sangue

e chiediti, qualora ti ostinassi

a ricusar la scelta di tuo padre,

se veramente ti senti la forza

di sopportar la veste monacale

restando chiusa per tutta la vita,

sterile monaca, in un tetro chiostro,

ad intonare notte e giorno cantici

alla gelida ed infeconda luna.(7)

Siano pure tre volte benedette

quelle che così bene san reprimere

e dominare gli impulsi del sangue

da incamminarsi come pellegrine

per il sentiero della castità;

ma più felice è assai su questa terra

la rosa che distilla il suo profumo

di quella che sul suo virgineo spino

avvizzendo, fiorisce, vive e muore

in sacra virginale solitudine.

ERMIA -

E così io, mio nobile signore,

voglio crescere, vivere e morire,

piuttosto che dover ceder la chiave

del mio virgineo ingresso ad un signore,

sotto il cui giogo non desiderato

l’animo mio non intende restare.

TESEO -

Prendi pure il tuo tempo per riflettere,

ma non più tardi della luna nuova

che vedrà suggellar solennemente

il patto d’un legame imperituro

fra l’amor mio e me. Dopo quel giorno,

disponiti pur l’animo a morire

per rifiutata obbedienza a tuo padre,

o a vivere, com’è sua volontà,

accettando d’andar sposa a Demetrio;

o a pronunciar sull’altare di Diana

i voti d’una vita austera e sola.

DEMETRIO -

Piègati, dolce Ermia. E tu, Lisandro,

desisti da un’invalida pretesa

a confronto d’un mio diritto certo.

LISANDRO -

Tu tieniti l’amore di suo padre

- spòsati lui, se vuoi! - e lascia a me

quello di Ermia.

EGEO -

Insolente Lisandro!

Sì, Demetrio sicuramente gode

del mio affetto, e deve aver da me

quello ch’è mio, e cosa mia è Ermia;

e in testa a lui io voglio trasferire

tutti i diritti miei sopra di lei.

LISANDRO -

Io, signor mio, discendo come lui

da nobili natali,

e pari al suo è il mio stato sociale;

ma più forte del suo è l’amor mio.

Le mie fortune sono pari in tutto

a quelle sue, se non anche maggiori;

ma al disopra di tutti questi vanti

quello che conta più di tutto il resto

è ch’io sono riamato da Ermia bella.

Perché dunque dovrei io desistere,

non far valere questo mio diritto?

Demetrio - glielo voglio dire in faccia -

ha intrattenuto rapporti d’amore

con la figliola di Nestore, Elena,

e se n’è conquistato tanto il cuore,

che quella dolce e bella creatura

si strugge in un amore appassionato,

devoto ed idolatra per quest’uomo

leggero, screditato ed incostante.

TESEO -

Di ciò, confesso, m’era giunta voce

e m’ero già proposto, in verità,

di parlarne a Demetrio;

altre cure me n’hanno poi distolto.

Ma venite di là, Egeo, Demetrio,

che ho da darvi in privato a tutti e due

qualche istruzione.(8)

(A Ermia)

Quanto a te, mia carina,

sforzati di trovare nel tuo animo

la forza di acconciare il tuo capriccio

al desiderio del tuo genitore,

altrimenti il rigore della legge

che a noi non è concesso mitigare

per alcun verso, ti consegnerà

alla morte o alla vita monacale.

Vieni, Ippolita. Come va, mia cara?(9)

Voi, Demetrio ed Egeo, accompagnateci.

Dovrò giovarmi dei vostri servigi

per disbrigare più di un’incombenza

in occasione delle nostre nozze.

Eppoi ho da parlarvi di qualcosa

che vi riguarda molto da vicino.(10)

EGEO -

È un gradito dovere accompagnarti.

(Escono tutti meno Lisandro ed Ermia)

LISANDRO -

Ed ora, amore mio?…

Perché sì pallida quella tua gota?

Com’è possibile che quella rosa

abbia perso sì presto il suo colore?

ERMIA -

Forse perché le è mancata la pioggia;

con la quale potrei ben irrorarla

sfogando la tempesta dei miei occhi.

LISANDRO -

Ahimè, per quanto io abbia udito o letto

d’antiche favole o d’istorie vere,

mai al mondo fu piano e senza ostacoli

il cammino dei grandi amori, cara,

o per disparità di condizione…

ERMIA -

Oh, quale croce, stare troppo in alto

e volersi legare troppo in basso!

LISANDRO -

… o per l’ineguaglianza dell’età…

ERMIA -

Oh, qual dispetto, stare in là con gli anni

e impegnarsi con chi è assai più giovane!

LISANDRO -

… o perché a scegliere sono i parenti…

ERMIA -

Ah, qual maledizione, dover scegliere

il proprio amore cogli occhi degli altri!

LISANDRO -

… E quando pur vi sia stata fra i due

perfetta intesa nella mutua scelta,

o guerra o morte, o altra traversìa

han sempre cinto d’assedio l’amore,

sì da ridurlo aereo come un suono,

fugace come un’ombra,

labile, evanescente come un sogno,

fulmineo come un baleno notturno

che illumina d’un tratto e cielo e terra,

e prima che tu possa dire “Guarda!”

le mascelle del cielo son richiuse

ad inghiottirlo rapide nel buio.

Perché con questa subitaneità

tutto che al mondo splende, si dilegua.

ERMIA -

Se dunque al mondo tutti i grandi amori

sono stati in eterno contrastati,

vuol dire che è decreto del destino;

e questa prova, cui siam sottoposti

anche noi due ci sia di ammonimento

che ci dobbiamo armare di pazienza,

pensando ch’è retaggio dell’amore

d’esser sempre impedito,

come lo sono i sogni, i desideri,

i pensieri, le lacrime, i sospiri

che fan corteggio all’amore conteso.

LISANDRO -

È vero.(11) Ordunque, Ermia, sta’ a sentire:

io ho una ricca zia, rimasta vedova,

erede d’un cospicuo patrimonio,

e che mi tiene caro come un figlio;

la casa dove abita è distante

da Atene non più di sette leghe;

ma quanto basta perché fin laggiù

possa arrivare la legge di Atene.

Se dunque mi vuoi bene,

domani notte invòlati da casa;

ad una lega fuori di città,

nel bosco, dove t’incontrai con Elena

quella mattina del Calendimaggio,

sarò ad attenderti.

ERMIA -

Mio buon Lisandro,

per l’arco più robusto di Cupido,

pel migliore dei suoi dorati strali,

pel piumato candor delle colombe

che fan corteggio a Venere celeste,

per tutto ciò che al mondo

unisce i cuori e alimenta gli amori,

per quel fuoco che divorò d’amore

la misera regina di Cartagine

allorché vide allontanarsi in mare

la vela del fedifrago Troiano;(12)

pei giuramenti che da sempre gli uomini,

assai più che noi donne, hanno violato,

ti giuro ch’io domani, puntuale,

ti verrò incontro al luogo che m’hai detto.

LISANDRO -

Va bene, amore. Tieni la promessa.

(Entra Elena)

Oh, guarda, viene Elena.

ERMIA -

Salute, Elena bella, dove vai?

ELENA -

“Bella” dici tu a me?… Ritira il “bella”!

“Bella”, Ermia, sei tu,

ché della tua non della mia bellezza(13)

Demetrio è innamorato, fortunata,

fortunata davvero quella tua!!

Hai due occhi che paiono due stelle

ed il dolce alitar della tua voce

suona all’orecchio suo più melodioso

del canto dell’allodola al pastore

nella stagione che verzica il grano

e spuntano le gemme al biancospino.

Se fosse contagiosa come un male

la bellezza, Ermia bella,

come vorrei attaccarmi la tua,

e rapirti la voce col mio orecchio,

lo sguardo col mio occhio, con la bocca

la dolce musica di quella tua!

Avessi in mio possesso tutto il mondo,

lo darei via, tranne solo Demetrio,

pur di potermi trasformare in te.

Oh, insegnami il tuo modo di guardare,

e l’arte che ti fa tenere avvinto

il cuore palpitante di Demetrio!

ERMIA -

Non lo so. Più gli faccio il viso duro,

più lui mi si dimostra innamorato.

ELENA -

Oh, potesse quel tuo duro cipiglio

insegnare quell’arte ai miei sorrisi!

ERMIA -

Più lo ricolmo di maledizioni,

più mi ricambia con frasi d’amore.

ELENA -

Oh, potessero mai le mie preghiere

destare in lui una pari reazione!

ERMIA -

Più lo detesto, più mi viene dietro.

ELENA -

Ed io più l’amo, più lui mi detesta.

ERMIA -

Di questa sua follia io non ho colpa.

ELENA -

Tu no, ce l’ha però la tua bellezza.

Come vorrei aver io questa colpa!

ERMIA -

Rassicùrati, non mi vedrà più.

Lisandro ed io ce n’andremo da qui.

Atene, prima che incontrassi lui,

era per me un vero paradiso…

Quale incantesimo avrà preso stanza

in questo amore da mutar così

quel ch’era paradiso in un inferno?

LISANDRO -

Elena, a te possiamo rivelare

quello che abbiamo progettato insieme.

Domani notte, appena giunta l’ora

che Febe(14) specchierà l’argenteo volto

nell’acque e spanderà liquide perle

sovra gli steli dell’erba dei prati

(l’ora adatta alla fuga degli amanti),

noi varcheremo, come abbiam deciso,

furtivamente le porte di Atene…

ERMIA -

… e in quel boschetto dove tante volte

ci siam sedute insieme, tu ed io,

su molli e languidi letti di primule

a versarci nel petto, una dell’altra,

i più dolci segreti,

c’incontreremo il mio Lisandro ed io,

e volgerem per sempre là da Atene

la vista, per cercare in altri luoghi

nuovi amici ed ignote compagnie.

Perciò, Elena, addio,

dolce compagna dell’età mia tenera.

Prega per noi, e a te la buona sorte

faccia ottenere il cuore di Demetrio.

(Accingendosi a partire, a Lisandro che la vuol baciare)

No, Lisandro, mantieni la parola:

fino alla mezzanotte di domani

noi dobbiamo tenere gli occhi nostri

a digiuno del cibo degli amanti.(15)

LISANDRO -

La manterrò, mia cara.

(Esce Ermia)

Elena, addio. Possa Demetrio amarti

di quello stesso amor che porti a lui.

(Esce)

ELENA -

Quanto può esser più felice al mondo

un essere di un altro!…

In tutta Atene io son tenuta bella

almeno quanto lei. Ma a che mi vale?

Tale non mi considera Demetrio;

rifiuta di vedere coi suoi occhi

quel che vedono tutti, meno lui.

Ed io, lo stesso abbaglio ch’egli prende

a infatuarsi degli occhi di Ermia,

lo prendo ad ammirar le sue virtù.

L’amore può dar forma e dignità

a cose basse e vili, e senza pregio;

ché non per gli occhi Amore guarda il mondo,

ma per sua propria rappresentazione,

ed è per ciò che l’alato Cupido

viene dipinto col volto bendato.

Né Amore ha il gusto del saper discernere:

ali ed occhi bendati sono il simbolo

d’irriflessività precipitosa.

Perciò si dice che Amore è bambino:

perché s’inganna spesso nello scegliere,

e, simile ai bambini nei lor giochi,

che fanno spensierati giuramenti,

il fanciulletto Amore

è sempre mancatore di parola.

Così Demetrio. Prima che i suoi occhi

incontrassero il bello sguardo d’Ermia,

grandinava promesse e giuramenti

d’essere solo mio; ma quella grandine

appena che avvertì il calore d’Ermia

si dissolse, con tutti i giuramenti.

Voglio andare comunque ad informarlo

della fuga della sua bella Ermia;

così domani notte, già lo vedo,

correrà per il bosco dietro a lei;

e se in cambio di questa informazione

avrò da lui un po’ di gratitudine,

me la sarò acquistata a caro prezzo…

anche se mi vedrò poi ripagata

dal vederlo tornar senza di lei.

(Esce)




SCENA II - Atene, in casa del falegname Cotogna


Entrano COTOGNA, CONFORTO, BOTTONE, FLAUTO, NASONE e IL LANCA(16)

COTOGNA -

Ci siamo tutti della compagnia?

BOTTONE -

Farai meglio a chiamarli ad uno ad uno

come figurano nella tua lista.

COTOGNA -

Questo è l’elenco completo dei nomi

di quelli reputati in tutta Atene

adatti a recitare l’interludio

davanti al Duca ed alla sua Duchessa

alla sera del loro dì nuziale.

BOTTONE -

Prima però, mio buon Piero Cotogna,

dicci che cosa tratta la commedia;

poi leggerai i nomi degli attori,

e quindi arrivi al punto. Non ti pare?

COTOGNA -

Ebbene, il titolo del dramma è questo:

“La molto lamentevole commedia

“con la crudele e tristissima morte

“di Piramo e di Tisbe”.

BOTTONE -

Roba buona!

Un assai bel lavoro, v’assicuro,

e allegro. Adesso, buon Piero Cotogna,

puoi pure far l’appello degli attori

nell’ordine di lista. E voi, maestri,

verrete avanti come lui vi chiama.

COTOGNA -

(Leggendo l’elenco)

Ognun risponda quando chiamo il nome.

“Bottone Nicoletto, tessitore”.

BOTTONE -

Pronto, dimmi qual è la parte mia,

e tira avanti.

COTOGNA -

(Sempre leggendo)

“Bottone Nicola”…

Sei assegnato alla parte di Piramo.

BOTTONE -

E che cos’è nel dramma questo Piramo?

L’amoroso? Il tiranno?

COTOGNA -

L’amoroso, che coraggiosamente

s’uccide per amore.

BOTTONE -

Questa parte, a volerla fare bene,

richiederà ch’io versi qualche lacrima;

e s’io mi metto a piangere,

gli spettatori stiano attenti agli occhi,

perché scatenerò coi miei lamenti

dei veri temporali… Andiamo avanti,

sentiamo quali sono le altre parti.

Però, in coscienza, la mia vocazione

sarebbe quella di fare il tiranno.

Ti saprei fare un Ercole, mannaggia,

come è difficile sentirlo altrove;(17)

o una parte dal roboante eloquio(18)

da far saltare in aria tutto e tutti.

“Rocce ruggenti

“massi frementi,

“della prigione

“rompo i battenti.

“Di Febo il carro

“dall’alto splende

“e i folli fati

“innocui rende”.

Eh, maestri, qui andiamo nel sublime!

Bah!… Chiama pure adesso gli altri, va’!

Eccolo, questo è il tono per un Ercole,

il tono del parlare da tiranno.

L’amoroso s’esprime più sommesso.

COTOGNA -

(Leggendo)

“Flauto Francesco, mastro aggiustamantici”.

FLAUTO -

Presente.

COTOGNA -

Flauto, tu dovrai far Tisbe.

FLAUTO -

E chi è Tisbe, un cavaliere errante?

COTOGNA -

È la dama che deve amare Piramo.

FLAUTO -

Ah, no! parti da donna per me, no!

Non vedi che ho la barba?

COTOGNA -

Non fa niente.

Vuol dire che ti metterai la maschera,

e farai la vocina che vorrai.

BOTTONE -

Anch’io posso nascondermi la faccia.

Lasciami far la parte anche di Tisbe:

saprò fare un vocino prodigioso!

(Con voce grossa, imitando Piramo)

“Oh, Tisbe, Tisbe!”.

(In falsetto imitando la voce femminile)

“Piramo, amor mio!”.

“La tua Tisbe! La tua diletta Tisbe!”.

COTOGNA -

No, no, tu devi fare solo Piramo.

Tisbe la farà Flauto.

BOTTONE -

E sia così! Andiamo pure avanti.

COTOGNA -

(Leggendo)

“Robin Lanca, sartore”.

LANCA -

Presente, Pier Cotogna.

COTOGNA -

Robin Lanca,

tu devi fare la madre di Tisbe.

(Leggendo)

“Conforto Felicetto, stipettaio”.

A te tocca la parte del leone.

Ecco, mi pare siate tutti a posto.

CONFORTO -

Ce l’hai scritta, la parte del leone?

Se sì, ti prego di darmela subito,

perché son tardo a mandare a memoria.

COTOGNA -

Non c’è bisogno; questa la improvvisi.

Non devi altro che emettere ruggiti.

BOTTONE -

Senti, Piero Cotogna,

lascialo fare a me anche il leone.

So ruggire così meraviglioso,

che sarà a tutti un vero godimento.

Così bene, che il Duca dovrà dire:

“Ancora, fatelo ruggire ancora!”.

COTOGNA -

A ruggire però così terribile

potresti spaventare la Duchessa

e le sue dame, fino a farle urlare.

Allora sì che n’avremmo abbastanza

per finir tutti quanti sulla forca.

TUTTI GLI ALTRI

(meno Bottone) -

Eh, sì, impiccàti, poveretti noi!

BOTTONE -

Ah, certo, se accadesse che le dame

dovessero svenire di paura,

non si farebbero davvero scrupolo

a mandarci alla forca tutti quanti.(19)

Ma io saprò aggravare(20) la mia voce

da ruggire sì delicatamente,

che sembrerà il tubar d’una colomba.(21)

Ruggirò come fossi un usignolo.

COTOGNA -

Che ruggire e ruggire, un accidente!

Tu fai Piramo e basta.

Ché Piramo ha da essere un bell’uomo,

faccia fresca, pulita, un tipo amabile

di quelli che si vedono d’estate,

il tipo del perfetto gentiluomo.

Questa parte la devi fare tu.

BOTTONE -

Come vuoi. Quella parte la fo io.

Con che barba conviene recitarla?

COTOGNA -

Che domanda! Con quella che ti pare.

BOTTONE -

Diciamo color stoppia?…

O forse meglio un bel colore arancio?…

O un color porporino…

O un colore corona francese,

quel bel giallo dorato…

COTOGNA -

Già, ma attento, corone francesi

ce ne sono anche che non han più peli,

il che vuol dir che reciti sbarbato.(22)

Amici, queste son le vostre parti,

ed io vi chiedo, supplico e scongiuro

che l’impariate per domani sera.

Ci troveremo al bosco del palazzo,

nel parco, a un miglio fuori di città;

perché se ci riuniamo qui in città

avremo dietro un codazzo di gente

e tutti scoprirebbero in anticipo

i nostri trucchi e le nostre intenzioni.

Io mi dedico intanto a buttar giù

un inventario di tutti gli attrezzi

necessari alla rappresentazione.

Mi raccomando a tutti, non mancate!

BOTTONE -

Nessuno mancherà, sta’ pur tranquillo.

Sì, là potrem provare a nostro agio

oscenissimamente(23) e con coraggio.

All’opera, mettetecela tutta.

Dovete esser perfetti. Vi saluto.

COTOGNA -

Domani sera, alla quercia del Duca.

BOTTONE -

Basta così. O la va o la spacca!(24)

(Escono)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I - Bosco presso Atene


Entrano da parti opposte, una FATA e PUCK

PUCK -

Ehi, spiritello, dove vai girando?

FATA -

“Vo’ per il folto della selva bruna,

“per rovi, orti e valloni,

“vo’ tra fulmini e tuoni

“leggero come un raggio della luna,

“a servir delle fate la regina;

“ad imperlare di rorida brina

“i sentieri dov’ella s’incammina

“insieme con le sue dame e donzelle;

“vo’ cercando le fresche campanelle

“la cui veste leggera

“spira profumo già di primavera.

“Vo’ cercando stelline di rugiada

“da appiccar con amore

“come orecchini di pendula giada

“alla corolla aperta d’ogni fiore”.

Ma debbo andare, curiosone, addio,

ché la regina sta per arrivare

col suo corteggio, e intende qui restare.

PUCK -

Ma qui stanotte fa baldoria il re;

e la regina se ne stia lontana,

perché Oberon è infuriato con lei

per via ch’ella si trattiene con sé

come paggetto un vago fanciulletto

da lei sottratto ad un regnante indiano.

Mai fu rubato oggetto(25) a lei più caro,

e Oberòn è in dispetto

perché vorrebbe avere al suo servizio

il ragazzetto, a far da battitore.(26)

Ma, sorda al suo rancore,

ella trattiene a forza il bel fanciullo,

gli foggia una corona d’ogni fiore,

e se ne fa gradevole trastullo.

Così non c’è una volta che quei due,

dovunque si ritrovino di fronte,

che sia un bosco, un prato, un chiaro fonte,

non sfoghino l’acerbo lor rancore,

al punto che i lor elfi, impauriti,

si vanno ad acquattare, al lor furore,

nei gusci delle ghiande.

FATA -

Tu, se dalle maniere e dal sembiante

io non m’inganno, sei quel discolaccio,

quel folletto bugiardo e malizioso

che tutti chiamano Robin Bravomo.(27)

Non sei tu quel bizzoso spiritello

che al villaggio spaventa le ragazze,

che fa cagliare il latte dentro i secchi,

che armeggia tra le pale del mulino,

e si rende molesto alle massaie

vanificando la loro fatica

a sbattere la crema nella zangola?

Ed altre volte a far schiumar la birra,

o a far smarrire il cammino ai viandanti

di notte, e ridere del loro disagio?

E t’adoperi, invece, premuroso,

ad aiutare nel loro lavoro,

ed a portar fortuna

a quelli che ti chiaman vezzeggiandoti,

“mio caro diavoletto”(28) e “dolce Puck”?

PUCK -

Hai detto giusto: sono proprio io

quell’allegro notturno vagabondo.

Io faccio da buffone ad Oberon,

e lo faccio morir dalle risate

quando mi metto a far l’imitazione

del verso d’una puledrina in foja,

e uno stallone ben sazio di fava

corre qua e là a cercarla e non la trova.

Talvolta vado, quatto, ad appiattarmi,

nella forma d’un granchiolino arrosto,(29)

nel fondo del boccale d’una vedova,

sì che al momento ch’ella fa per bere

le salto sulle labbra all’improvviso,

e la birra le si rovescia tutta

giù giù per l’avvizzita pappagorgia.

Talvolta una comare saccentona

nel raccontare, tutta sussiegosa,

una delle sue storie strappalacrime,

mi scambia per un tripode sgabello:

io, d’un tratto, le sguscio dalle natiche,

quella va a gambe all’aria,

e scatarrando grida: “Accidentaccio!”(30)

e là tutti a crepare dalle risa

ed a giurare, tra tossi e starnuti,

di mai aver passato ora più allegra.

Ma largo adesso, Fata, ecco Oberòn.

FATA -

Ed ecco pure la padrona mia.

Come vorrei che fosse già partito!

Entrano, da parti opposte, OBERON e TITANIA coi rispettivi corteggi

OBERON -

Male incontrata, orgogliosa Titania;

al chiaror della luna!

TITANIA -

Anche tu qui?

Andiamo, fate, andiamocene via!

Di lui ho rinnegato letto e mensa!(31)

OBERON -

Fèrmati, presuntuosa libertina!

Non sono il tuo signore?

TITANIA -

Com’io dovrei sentirmi tua signora,

se non sapessi, ahimè, fin troppo bene

di quando dal paese delle Fate

ti sei allontanato di nascosto

e, assumendo il sembiante di Corino,

sei rimasto seduto tutto il giorno

a zufolar su canne di granturco

e rimeggiar d’amore alla tua Fillide!(32)

Perché ti trovi qui? Sarai accorso

chi sa da qual remota balza d’India(33)

solo perché la tua spavalda Amazzone,

il coturnato tuo amor guerriero

è in procinto d’andar sposa a Teseo,

e vieni a dispensare al loro talamo

gioia e prosperità. Non è così?

OBERON -

Ah, svergognata! Come puoi, Titania,

alludere così malignamente

alla mia amicizia con Ippolita

quando sai ch’io conosco troppo bene

l’antica tua passione per Teseo?

Non l’hai condotto tu, di nottetempo,

da Perìgone, ch’egli avea stuprato?

E non sei stata tu

a indurlo a romper la giurata fede

ad Egle bionda, ad Arianna, ad Antiope?(34)

TITANIA -

Queste son pure fantasticherie

dettate a te dalla tua gelosia.

Non c’è stata una volta,

da quando è cominciata questa estate,

che, ovunque c’incontrassimo, noi due,

su un colle, a fondovalle, o dentro un bosco,

o tra i giunchi alla riva d’un ruscello,

tu non abbia turbato i nostri giochi

con le tue solite baruffe. E i venti,

sdegnati per dover fischiare invano

per noi, per vendicarsi,

si sono volti a suggere dal mare

contagiosi vapori, e questi, poi,

rovesciandosi in pioggia sulla terra,

hanno talmente gonfiato di boria

anche il più striminzito fiumiciattolo,

da farlo tracimar fuori dagli argini;

onde al bove s’è fatto adesso vano

tirare avanti aggiogato all’aratro,

e al contadino faticar sudando;

e il verde grano è costretto a marcire

prima che la sua spiga ha messo barba;

e nei campi inondati dalle piene

ora gli ovili son rimasti vuoti,

mentre corvi e sparvieri si rimpinzano

delle carogne delle bestie morte;

e coperto di mota è il campo-giochi(35)

e cancellati son tutti i sentieri

segnati sopra il rigoglioso verde

in forma d’ingegnosi labirinti,

perché non più calcati da alcun piede;

più non possono i poveri mortali

goder dei passatempi dell’inverno,

né più allietate son le loro veglie

da canti e danze… Perfino la luna,

la grande artefice delle maree,

pallida d’ira, impregna tutta l’aria

d’umidi umori, sì che per il mondo

abbondano le malattie reumatiche.

E per causa di queste disturbanze(36)

noi vediamo alterarsi le stagioni:

brine canute nel vermiglio grembo

cadono della rosa mo’ sbocciata

e sovra il capo calvo e raggelato

del vecchio inverno sta, come per scherno,

calcata un’odorosa coroncina

di vivaci e leggiadri fiori estivi.

La primavera, l’estate, l’autunno

di messi gravido, l’irato inverno

van mutando la lor consueta veste;

e il mondo, sbalordito,

non sa più riconoscere dai frutti

qual sia questa stagione, qual quest’altra.

E tutta questa progenie di mali

è generata dai nostri litigi,

dalle continue nostre ostilità;

noi soli siamo i loro genitori,

l’unica e sola loro scaturigine.(37)

OBERON -

A te porre rimedio a tutto questo,

allora: è in te la cagione di tutto!

Perché deve Titania contrastare

un desiderio del suo Oberòn?

Io non ti chiedo in fondo che un bimbetto,

un bimbetto rubato nella culla(38)

da farne un mio paggetto…

TITANIA -

Mettiti il cuore in pace:

non basta tutto il regno delle fate

a comprare da me quel fanciulletto.

Sua madre era devota del mio ordine

e, nelle profumate notti indiane,

sovente conversava accanto a me;

e spesso è stata seduta con me

sulle pallide sabbie di Nettuno

a contemplar le vele mercantili

sull’onde: e allora insieme abbiamo riso

al veder quelle vele concepire

e inturgidire come messe incinte

ad opera d’una lasciva brezza;

ed ella, con grazioso e molle incedere,

seguendole con l’occhio (già il suo ventre

era ricco del giovin mio scudiero)

sembrava ne imitasse l’ondeggiare,

anch’ella veleggiando lungo il lido

a raccoglier conchiglie ed altre inezie,

tornando poi da me come da un viaggio

stracarica di quella mercanzia.

Ma era donna mortale, e partorendo

morì, lasciando questo fanciulletto,

che per amor di lei ho allevato,

per non volermene più separare.

OBERON -

Quanto intendi restare in questo bosco?

TITANIA -

Fino a dopo le nozze di Teseo.

S’hai voglia di restar, buono e tranquillo,

a intrecciare carole insieme a noi

e a prender parte al nostro tripudiar

sotto la luna, resta pure qui;

ma se tu non ne hai voglia,

schiva la mia presenza, come io stessa

farò dei luoghi da te frequentati.

OBERON -

Se desideri ch’io resti con te,

cedimi quel ragazzo.

TITANIA -

Nemmeno in cambio di tutto il tuo regno!

Fate, venite, andiamo, andiamo via!

Se resto qui, si litiga di brutto!

(Esce con tutto il seguito)

OBERON -

Va’, va’, vattene pur per la tua strada…

Non uscirai però da questo bosco

se prima io non abbia escogitato

come farti pagare questo torto.

Vieni, mio caro Puck.

Ti rammenti, mio caro, quella volta

ch’io, seduto su d’una roccia a picco

sul mare, erta come un promontorio,

ascoltavo, rapito, una sirena

che assisa sulla groppa d’un delfino

cantava sì soave ed armoniosa

da far che fino il mare, assai ingrugnato,

si placasse, cortese, ad ascoltarla?

E quante stelle dalle loro sfere

vedemmo irrompere, come impazzite,

per venir più vicino ad ascoltare

il canto dell’equorea fanciulla?

PUCK -

Lo rammento.

OBERON -

Io vidi, in quel momento,

come veder tu non potevi certo,

trasvolare Cupido tutto armato

tra la gelida luna e questa terra,

e drizzare la mira del suo arco

su una bella vestale assisa in trono

in occidente, e scoccar dalla corda

un amoroso strale, e con tal forza

da trapassare non un solo cuore,

ma centomila cuori messi in fila.

Ecco che invece l’infuocato dardo,

com’io potei vedere, s’andò a spegnere

tra i casti raggi dell’umida luna

mentre quella real sacerdotessa

restava a proseguire indisturbata

le verginali sue meditazioni,

immune da amorose fantasie.

Vidi anche dove il dardo di Cupido

era caduto: sopra un fiorellino

che, prima bianco-latte, ora è purpureo

per la ferita d’amor ricevuta.

Le fanciulle lo chiaman “fior d’amore”.(39)

Va’, cercami quel fiore.

T’ho mostrato una volta la sua pianta.

Il suo succo, spremuto sulle ciglia

di chi dorme, sia esso uomo o donna,

lo fa cadere innamorato folle

del primo esser vivente

che si trova davanti al suo risveglio.

Va’, trovami quell’erba,

e non metter più tempo, a ritornare,

d’un leviatano(40) a nuotare una lega.

PUCK -

In quaranta minuti metto un cinto

tutt’intorno alla pancia della terra!

(Esce)

OBERON -

Come avrò nelle mani questo succo,

sorprenderò Titania addormentata

e le distillerò sugli occhi il liquido,

e la creatura viva che per prima

le verrà innanzi agli occhi al suo risveglio,

sia essa un orso, un lupo, od un leone,

un toro od una scimmia ficcanaso,

o un’irrequieta e garrula bertuccia,

ella sarà costretta ad inseguirla

con tutta l’ansia d’un’innamorata.

E allora, prima ch’io le sciolga gli occhi

da codesto incantesimo - e lo posso,

servendomi del succo d’un’altr’erba -

mi faccio cedere quel suo paggetto.

Ma chi viene?… Rendiamoci invisibili,(41)

e stiamo ad origliar quel che si dicono.

Entra DEMETRIO seguito da ELENA

DEMETRIO -

Io non t’amo, lo sai,

e dunque smetti di venirmi dietro.

Dove sono Lisandro ed Ermia bella?…

Lui lo ammazzo, ma lei ammazza me!

M’hai detto che se n’erano fuggiti

in questo bosco; ed eccomi ora qui,

selvaggiamente folle in questa selva,

per non riuscire a trovar la mia Ermia.

Vattene, va’, non mi seguire più!

ELENA -

Sei tu, cuor duro, a tirarmiti dietro

come una calamita;

ma in me tu non attiri del vil ferro,

perché il mio cuore è acciaio temperato.

Perdi questa tua forza d’attrazione,

io perderò la forza di seguirti.

DEMETRIO -

T’attiro, io? Son io che ti seduco

parlandoti con voce di lusinga?

O non son io che in piena lealtà

ti dico e ti ripeto che non t’amo,

e che sento di mai poterti amare?

ELENA -

Ed è proprio per questo, vedi un po’,

ch’io mi sento d’amarti sempre più.

Son ridotta, Demetrio, il tuo segugio,

che più lo batti e più ti viene intorno.

Trattami come fossi il tuo spaniello,

trascurami, disdegnami, percuotimi,

smarriscimi; ti chiedo solo questo:

che mi consenti, indegna come sono,

di seguirti. Qual più modesto posto

ti posso domandare nel tuo cuore

che d’essere trattata come un cane

(e ancor lo tengo come un privilegio)?

DEMETRIO -

Non tentar troppo l’odio del mio animo;

perché sto male soltanto a vederti.

ELENA -

Ed io sto male solo a non vederti!

DEMETRIO -

Hai già troppo invilito il tuo pudore

uscendo sola fuori di città,

affidandoti ad uno che non t’ama,

esponendo alle insidie della notte

e al mal consiglio di luoghi deserti

il tesoro della tua castità.

ELENA -

La tua stessa onestà m’è garanzia:

non è più notte, se vedo il tuo volto,

perciò non mi par più d’essere al buio;

né questo bosco mi pare un deserto:

se ci sei tu con me, c’è tutto il mondo.

Perché sentirmi sola,

se a proteggermi ho tutto intero il mondo?

DEMETRIO -

Ma io ti fuggirò, andrò a nascondermi

nella foresta, e ti lascerò sola,

alla mercé delle bestie feroci.

ELENA -

La bestia più feroce della terra

non può aver cuore più crudo del tuo.

Va’, va’, fuggi; sarà così invertita

l’antica favola: Apollo che fugge

e Dafne che lo insegue disperata:(42)

la colomba che insegue il girifalco,

la docile cerbiatta

che si lancia per afferrar la tigre!

Vana corsa, purtroppo,

quando chi insegue è la timidità

e chi fugge il coraggio.

DEMETRIO -

Non starò qui a sentir le tue querele!

Lasciami andare, e non venirmi dietro;

e poi non credere, se mi perseguiti,

ch’io nel bosco non possa farti male.

ELENA -

Male tu me ne fai sempre e dovunque,

nel tempio, per le vie della città,

in aperta campagna. Ahimè, Demetrio,

i torti che mi fai sono vergogna

non solo a me, ma all’intero mio sesso,

perché a noi donne non è consentito

combattere per ottenere amore,

come a voi uomini; noi siamo nate

per essere da voi desiderate,

non per desiderarvi corteggiandovi.

(Esce Demetrio)

Ti seguirò, Demetrio, ovunque vai,

e farò dell’inferno un paradiso

se morirò per mano di chi adoro.

(Esce)

OBERON -

(Ricomparendo)

Addio, ninfa;(43) ma sarai tu a fuggirlo,

prima ch’egli abbandoni questo bosco,

e lui, innamorato, ad inseguirti!

Rientra PUCK

Bentornato, mio caro giramondo.

Quel fiore, allora, l’hai con te?

PUCK -

Sì, eccolo.

OBERON -

Dammelo qua. C’è un posto in riva al fiume

dove fiorisce del timo selvatico

e rigogliose vi crescon le primule

e le viole dal capo tentennante

sotto il lussureggiante baldacchino

formato da un aulente caprifoglio,

e profumate rose borraccine.

In quel luogo Titania

suol mettersi a giacere e addormentarsi

per una buona parte della notte,

cullata, in mezzo a quel fiorito asilo,

da danze, musiche ed altre delizie.

Ivi anche è solita lasciar la serpe

la sua veste smaltata, ampia abbastanza

da ammantarci una fata.

Io bagnerò col succo di quest’erba

le sue palpebre e questo avrà il potere

di riempirla di odiosi desideri.

Prendine tu qualche stilla con te,

e mettiti a cercare in questo bosco:

una leggiadra fanciulla di Atene

si strugge per un giovane sdegnoso;

trovalo, e spalmargli questo sugli occhi.

Ma fallo con la massima attenzione,

così che al suo risveglio questo giovane

si ritrovi di lei innamorato

più di quanto non sia ella di lui.

E torna qui prima che canti il gallo.

PUCK -

Non dubitare, padrone: il tuo servo

farà tutto a puntino, come dici.

(Escono)




SCENA II - Altra parte del bosco


Entra TITANIA col suo corteggio di FATE

TITANIA -

Andiamo, su, alla svelta!

Appena un girotondo e una canzone;

venti secondi soli, e poi via tutte,

quali ad uccidere i piccoli bruchi

sui bocci delle rose damaschine,

quali a dare la caccia ai pipistrelli

(con le loro ali si fan bei corsetti

di cuoio per i miei piccoli elfi);

quali a cacciar la stridula civetta

che strilla a notte la sua meraviglia

vedendo i nostri strani spiritelli.

Cantatemi la vostra ninna nanna,

e poi, mentr’io riposo, tutte all’opera!

CANZONE DELLE FATE

1a FATA -

“Voi, serpi maculate

“dalle lingue forcute,

“voi, irti porcospini,

“voi, salamandre, voi, ciechi orbettini,

“nelle tenebre mute

“nascosti rimanete,

“a Titania regina delle fate

“offesa non recate”.

CORO -

“Filomela, tu, carina

“culla il sonno alla regina

“con la melodiosa canna,

“ninna nanna, ninna nanna.

“Dal suo sonno lunge sia

“ogni male, ogni malia,

“dolce sia del sonno l’ora

“all’amabile signora”.

2a FATA -

“Voi, ragnetti tessitori,

“zampalunga, andate via!

“Via, lumache, scarafaggi,

“via da questi suoi paraggi.

“Vermi, via, non disturbate

“la regina delle fate”.

CORO -

“Filomela, tu, carina

“culla il sonno alla regina

“con la melodiosa canna,

“ninna nanna, ninna nanna.

“Dal suo sonno lunge sia

“ogni male, ogni malia,

“dolce sia del sonno l’ora

“all’amabile signora”.

(Titania s’addormenta)

2a FATA -

“Dorme. Via, sciamate lesti,

“una qui a vegliarla resti”.

(Escono tutte le fate)

OBERON compare, s’accosta a Titania che dorme e le spreme il fiore sulle palpebre

OBERON -

Pel primo che vedrai, aprendo gli occhi,

insano amor ti tocchi.

Sia pur mostro tutto orrore,

languirai per lui d’amore.

Sia pur orso, o pardo, o cervo,

o cinghial dal pelo acerbo

che al tuo occhio primo appare,

quello tu dovrai amare.

Perciò sol ti sveglierai

quando quello accanto avrai.

(Sparisce)

Entra LISANDRO con ERMIA appoggiata al suo braccio

LISANDRO -

Amore mio, tu svieni;

questo lungo vagare per il bosco

t’ha stancata, e, a dir la verità,

ho smarrito il cammino.

Riposiamoci qui, Ermia, se credi,

a attendere il conforto del mattino.

ERMIA -

Sì, Lisandro.

Tròvati tu un giaciglio come puoi;

io mi distendo qui,

poggiata il capo sopra questo greppo.

LISANDRO -

Questo ciuffetto d’erba, mia diletta,

può servir da cuscino a tutti e due:

un sol cuore, un sol letto,

due anime, ed una stessa fede.

ERMIA -

No, buon Lisandro, no; se mi vuoi bene,

stattene più discosto,

non ti giacer così vicino a me.

LISANDRO -

Oh, dolcezza, non devi fraintendere

l’innocenza di questa mia proposta!

Amore coglie da se stesso il senso

del parlare amoroso:(44) voglio intendere

che il mio cuore è così legato al tuo

che d’entrambi se ne può fare un solo;

due cuori incatenati con voto,

due anime congiunte in un sol nodo.

Non negarmi perciò, Ermia, un giaciglio

accanto a te, perché così giacendo

non ti voglio ingannare, mia diletta.(45)

ERMIA -

Lisandro sa giocare molto bene

con le parole. Che siano dannate

le mie brusche maniere e il mio orgoglio,

se Ermia abbia mai potuto intendere

che Lisandro volesse abbindolarla

Ma se ti chiedo, gentile compagno,

per un atto d’amore e cortesia,

di metterti a dormire un po’ lontano,

è per pudore: una separazione,

com’essa può ben essere chiamata,

qual si conviene a un giovane virtuoso

e a una fanciulla vergine.

Sta’ discosto, perciò, dolce compagno

e buona notte. E mai l’amore tuo

si guasti fino al fine di tua vita!

LISANDRO -

Amen, amen, a questa tua preghiera

io dico; e che finisca la mia vita

se mai finisca la mia fedeltà!

Qui è il mio letto; a te conceda il sonno

il suo pieno ristoro.

ERMIA -

Questo augurio riposi per metà

sugli occhi di colui che me l’ha detto.

(Si distendono e s’addormentano)

Appare PUCK

PUCK -

“Tutto il bosco, fino in fondo,

“sono andato perlustrando,

“l’ateniese invan cercando

“sulle cui ciglia saggiare

“il potere del mio fiore

“a far nascere l’amore.

“Notte… non uno stormire…

(Vede Lisandro addormentato)

“Ma chi vedo qui dormire?

“Sembra, all’abito, il garzone

“che, a sentire il mio padrone,

“tiene a sdegno la pulzella,

“l’ateniese damigella”.

“Ecco, infatti, che distesa

“vedo ch’ella pur riposa

“sopra queste umide zolle.

“Pover’anima! Ella volle

“certamente star lontano

“da un tal fior di disumano

“schiva-amore e gran villano”.

(S’avvicina a Lisandro che dorme, e gli spreme il succo sulle palpebre)

“Sui tuoi occhi, sciagurato,

“verso il filtro mio fatato.

“Quando ti sarai destato

“sui tuoi occhi già insediato

“sarà Amore, e da gran donno,

“a impedirti e pace e sonno.

“Or ti lascio, devo andare,

“da Oberon devo tornare”.

(Sparisce)

Entrano DEMETRIO ed ELENA, correndo

ELENA -

Demetrio caro, fèrmati un momento,

fosse pur solamente per uccidermi.

DEMETRIO -

Va’ via di qui, te l’ordino,

Elena! E smetti perseguitarmi!

ELENA -

Vuoi dunque abbandonarmi qui nel buio?

Ah, non farlo, Demetrio!

DEMETRIO -

Rimani qui, se vuoi,

ma a tuo rischio e pericolo.