Sogno di una notte di mezza estate Read Online
SCENA I - Atene, sala nel Palazzo di Teseo
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Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO e seguito | |
TESEO - | La nostra ora nuziale, bella Ippolita, s’approssima: quattro giorni felici ci porteranno la novella luna… Oh, come questa vecchia pare lenta a dileguarsi, quasi a ritardare malignamente, come una matrigna,(2) l’appagamento dei miei desideri, o somigliante ad una ricca vedova ostinatasi a viver troppo a lungo per rendere a più a più sottili le rendite del suo giovane erede. |
IPPOLITA - | Quattro giorni faran presto a svanire con le lor notti, e queste a dileguarsi coi loro sogni; e la novella luna come un arco d’argento teso in cielo(3) salirà a contemplare sulla terra la notte dei solenni nostri riti. |
TESEO - | Va’, Filostrato, smuovi alla letizia la gioventù d’Atene, desta vivezza e gioia nei lor cuori, ricaccia ai funerali l’umor triste, ché quel pallido socio mal s’addice alla festosità del nostro rito. |
(Esce Filostrato) | |
Se con la spada, Ippolita, t’ho corteggiata e ho vinto l’amor tuo(4) con la forza, ora in ben diversa chiave voglio condurti sposa: con gran pompa e gran tripudio di festeggiamenti. | |
Entra EGEO, conducendo per mano sua figlia ERMIA; dietro di loro LISANDRO e DEMETRIO | |
EGEO - | Pace e gioia all’illustre nostro Duca! |
TESEO - | Grazie, mio buon Egeo. Che c’è di nuovo? |
EGEO - | Ecco, vengo da te col cuore amaro a lagnarmi di questa mia creatura, mia figlia Ermia. |
(A Demetrio, che è rimasto indietro) Vieni Demetrio, vieni pure avanti. | |
(A Teseo, indicando Demetrio) Signore, questo giovine, Demetrio, ha il mio consenso per condurla in moglie; quest’altro - vieni avanti, tu, Lisandro - me l’ha stregata, mio grazioso Duca. Sì, proprio tu, Lisandro, l’hai stregata! Hai profferto a mia figlia versi e rime, hai scambiato con lei pegni d’amore; sei venuto di notte, tu, Lisandro, sotto la sua finestra, al chiar di luna, a cantarle, con voce di lusinga, strofe di falso amore; ed hai rubato la sua fantasia coll’inviarle in grazioso regalo braccialetti di tuoi capelli in treccia, e con anelli e dolci paroline e chicche e zuccherini d’ogni sorta, tutti araldi di forte seduzione sulla sconsiderata gioventù, sei giunto con astuzia a catturare il cuore di mia figlia, fino al punto di volgere in aperta ribellione l’obbedienza di figlia che mi deve. | |
(A Teseo) E se ora, grazioso mio signore, ella non voglia acconsentire qui, dinanzi a te, a sposare Demetrio, io invoco per me l’applicazione dell’antico privilegio di Atene: poiché è cosa mia, io posso far di lei quello che voglio; o darla sposa a questo gentiluomo,(5) o ad immediata morte, come dispone in tal caso la legge. | |
TESEO - | E tu, Ermia, che dici? Pensaci bene, vezzosa fanciulla. Tuo padre dovrebb’essere per te un dio, perché è lui, fanciulla mia, che t’ha foggiata in questa bella forma; come un blocco di cera ch’egli con le sue mani ha modellato, e può quindi lasciar così com’è, o mandare distrutto, a suo talento. Demetrio è un giovane degno di te. |
ERMIA - | Lisandro non lo è meno. |
TESEO - | Non lo nego;(6) ma essendo necessario, in questo caso, l’assenso di tuo padre, più degno deve ritenersi l’altro. |
ERMIA - | Vorrei solo, signore, che mio padre potesse veder me con gli occhi miei. |
TESEO - | Eh, no, sono piuttosto gli occhi tuoi che devono vedere col suo senno. |
ERMIA - | Perdonami signore, io non so da quale misteriosa interna forza mi venga tanta temerarietà, né se s’addica alla mia pudicizia perorare a favor dei miei pensieri qui, dinnanzi a sì inclita presenza, ma voglio supplicarti, mio signore, di dirmi il peggio che mi può venire se mi rifiuto di sposar Demetrio. |
TESEO - | Esser mandata a morte, o segregata per sempre dal mondo in clausura. Perciò, ragazza mia, indaga a fondo nei tuoi desideri, considera la tua giovane età, esamina gli impulsi del tuo sangue e chiediti, qualora ti ostinassi a ricusar la scelta di tuo padre, se veramente ti senti la forza di sopportar la veste monacale restando chiusa per tutta la vita, sterile monaca, in un tetro chiostro, ad intonare notte e giorno cantici alla gelida ed infeconda luna.(7) Siano pure tre volte benedette quelle che così bene san reprimere e dominare gli impulsi del sangue da incamminarsi come pellegrine per il sentiero della castità; ma più felice è assai su questa terra la rosa che distilla il suo profumo di quella che sul suo virgineo spino avvizzendo, fiorisce, vive e muore in sacra virginale solitudine. |
ERMIA - | E così io, mio nobile signore, voglio crescere, vivere e morire, piuttosto che dover ceder la chiave del mio virgineo ingresso ad un signore, sotto il cui giogo non desiderato l’animo mio non intende restare. |
TESEO - | Prendi pure il tuo tempo per riflettere, ma non più tardi della luna nuova che vedrà suggellar solennemente il patto d’un legame imperituro fra l’amor mio e me. Dopo quel giorno, disponiti pur l’animo a morire per rifiutata obbedienza a tuo padre, o a vivere, com’è sua volontà, accettando d’andar sposa a Demetrio; o a pronunciar sull’altare di Diana i voti d’una vita austera e sola. |
DEMETRIO - | Piègati, dolce Ermia. E tu, Lisandro, desisti da un’invalida pretesa a confronto d’un mio diritto certo. |
LISANDRO - | Tu tieniti l’amore di suo padre - spòsati lui, se vuoi! - e lascia a me quello di Ermia. |
EGEO - | Insolente Lisandro! Sì, Demetrio sicuramente gode del mio affetto, e deve aver da me quello ch’è mio, e cosa mia è Ermia; e in testa a lui io voglio trasferire tutti i diritti miei sopra di lei. |
LISANDRO - | Io, signor mio, discendo come lui da nobili natali, e pari al suo è il mio stato sociale; ma più forte del suo è l’amor mio. Le mie fortune sono pari in tutto a quelle sue, se non anche maggiori; ma al disopra di tutti questi vanti quello che conta più di tutto il resto è ch’io sono riamato da Ermia bella. Perché dunque dovrei io desistere, non far valere questo mio diritto? Demetrio - glielo voglio dire in faccia - ha intrattenuto rapporti d’amore con la figliola di Nestore, Elena, e se n’è conquistato tanto il cuore, che quella dolce e bella creatura si strugge in un amore appassionato, devoto ed idolatra per quest’uomo leggero, screditato ed incostante. |
TESEO - | Di ciò, confesso, m’era giunta voce e m’ero già proposto, in verità, di parlarne a Demetrio; altre cure me n’hanno poi distolto. Ma venite di là, Egeo, Demetrio, che ho da darvi in privato a tutti e due qualche istruzione.(8) |
(A Ermia) Quanto a te, mia carina, sforzati di trovare nel tuo animo la forza di acconciare il tuo capriccio al desiderio del tuo genitore, altrimenti il rigore della legge che a noi non è concesso mitigare per alcun verso, ti consegnerà alla morte o alla vita monacale. Vieni, Ippolita. Come va, mia cara?(9) Voi, Demetrio ed Egeo, accompagnateci. Dovrò giovarmi dei vostri servigi per disbrigare più di un’incombenza in occasione delle nostre nozze. Eppoi ho da parlarvi di qualcosa che vi riguarda molto da vicino.(10) | |
EGEO - | È un gradito dovere accompagnarti. |
(Escono tutti meno Lisandro ed Ermia) | |
LISANDRO - | Ed ora, amore mio?… Perché sì pallida quella tua gota? Com’è possibile che quella rosa abbia perso sì presto il suo colore? |
ERMIA - | Forse perché le è mancata la pioggia; con la quale potrei ben irrorarla sfogando la tempesta dei miei occhi. |
LISANDRO - | Ahimè, per quanto io abbia udito o letto d’antiche favole o d’istorie vere, mai al mondo fu piano e senza ostacoli il cammino dei grandi amori, cara, o per disparità di condizione… |
ERMIA - | Oh, quale croce, stare troppo in alto e volersi legare troppo in basso! |
LISANDRO - | … o per l’ineguaglianza dell’età… |
ERMIA - | Oh, qual dispetto, stare in là con gli anni e impegnarsi con chi è assai più giovane! |
LISANDRO - | … o perché a scegliere sono i parenti… |
ERMIA - | Ah, qual maledizione, dover scegliere il proprio amore cogli occhi degli altri! |
LISANDRO - | … E quando pur vi sia stata fra i due perfetta intesa nella mutua scelta, o guerra o morte, o altra traversìa han sempre cinto d’assedio l’amore, sì da ridurlo aereo come un suono, fugace come un’ombra, labile, evanescente come un sogno, fulmineo come un baleno notturno che illumina d’un tratto e cielo e terra, e prima che tu possa dire “Guarda!” le mascelle del cielo son richiuse ad inghiottirlo rapide nel buio. Perché con questa subitaneità tutto che al mondo splende, si dilegua. |
ERMIA - | Se dunque al mondo tutti i grandi amori sono stati in eterno contrastati, vuol dire che è decreto del destino; e questa prova, cui siam sottoposti anche noi due ci sia di ammonimento che ci dobbiamo armare di pazienza, pensando ch’è retaggio dell’amore d’esser sempre impedito, come lo sono i sogni, i desideri, i pensieri, le lacrime, i sospiri che fan corteggio all’amore conteso. |
LISANDRO - | È vero.(11) Ordunque, Ermia, sta’ a sentire: io ho una ricca zia, rimasta vedova, erede d’un cospicuo patrimonio, e che mi tiene caro come un figlio; la casa dove abita è distante da Atene non più di sette leghe; ma quanto basta perché fin laggiù possa arrivare la legge di Atene. Se dunque mi vuoi bene, domani notte invòlati da casa; ad una lega fuori di città, nel bosco, dove t’incontrai con Elena quella mattina del Calendimaggio, sarò ad attenderti. |
ERMIA - | Mio buon Lisandro, per l’arco più robusto di Cupido, pel migliore dei suoi dorati strali, pel piumato candor delle colombe che fan corteggio a Venere celeste, per tutto ciò che al mondo unisce i cuori e alimenta gli amori, per quel fuoco che divorò d’amore la misera regina di Cartagine allorché vide allontanarsi in mare la vela del fedifrago Troiano;(12) pei giuramenti che da sempre gli uomini, assai più che noi donne, hanno violato, ti giuro ch’io domani, puntuale, ti verrò incontro al luogo che m’hai detto. |
LISANDRO - | Va bene, amore. Tieni la promessa. |
(Entra Elena) | |
Oh, guarda, viene Elena. | |
ERMIA - | Salute, Elena bella, dove vai? |
ELENA - | “Bella” dici tu a me?… Ritira il “bella”! “Bella”, Ermia, sei tu, ché della tua non della mia bellezza(13) Demetrio è innamorato, fortunata, fortunata davvero quella tua!! Hai due occhi che paiono due stelle ed il dolce alitar della tua voce suona all’orecchio suo più melodioso del canto dell’allodola al pastore nella stagione che verzica il grano e spuntano le gemme al biancospino. Se fosse contagiosa come un male la bellezza, Ermia bella, come vorrei attaccarmi la tua, e rapirti la voce col mio orecchio, lo sguardo col mio occhio, con la bocca la dolce musica di quella tua! Avessi in mio possesso tutto il mondo, lo darei via, tranne solo Demetrio, pur di potermi trasformare in te. Oh, insegnami il tuo modo di guardare, e l’arte che ti fa tenere avvinto il cuore palpitante di Demetrio! |
ERMIA - | Non lo so. Più gli faccio il viso duro, più lui mi si dimostra innamorato. |
ELENA - | Oh, potesse quel tuo duro cipiglio insegnare quell’arte ai miei sorrisi! |
ERMIA - | Più lo ricolmo di maledizioni, più mi ricambia con frasi d’amore. |
ELENA - | Oh, potessero mai le mie preghiere destare in lui una pari reazione! |
ERMIA - | Più lo detesto, più mi viene dietro. |
ELENA - | Ed io più l’amo, più lui mi detesta. |
ERMIA - | Di questa sua follia io non ho colpa. |
ELENA - | Tu no, ce l’ha però la tua bellezza. Come vorrei aver io questa colpa! |
ERMIA - | Rassicùrati, non mi vedrà più. Lisandro ed io ce n’andremo da qui. Atene, prima che incontrassi lui, era per me un vero paradiso… Quale incantesimo avrà preso stanza in questo amore da mutar così quel ch’era paradiso in un inferno? |
LISANDRO - | Elena, a te possiamo rivelare quello che abbiamo progettato insieme. Domani notte, appena giunta l’ora che Febe(14) specchierà l’argenteo volto nell’acque e spanderà liquide perle sovra gli steli dell’erba dei prati (l’ora adatta alla fuga degli amanti), noi varcheremo, come abbiam deciso, furtivamente le porte di Atene… |
ERMIA - | … e in quel boschetto dove tante volte ci siam sedute insieme, tu ed io, su molli e languidi letti di primule a versarci nel petto, una dell’altra, i più dolci segreti, c’incontreremo il mio Lisandro ed io, e volgerem per sempre là da Atene la vista, per cercare in altri luoghi nuovi amici ed ignote compagnie. Perciò, Elena, addio, dolce compagna dell’età mia tenera. Prega per noi, e a te la buona sorte faccia ottenere il cuore di Demetrio. |
(Accingendosi a partire, a Lisandro che la vuol baciare) No, Lisandro, mantieni la parola: fino alla mezzanotte di domani noi dobbiamo tenere gli occhi nostri a digiuno del cibo degli amanti.(15) | |
LISANDRO - | La manterrò, mia cara. |
(Esce Ermia) | |
Elena, addio. Possa Demetrio amarti di quello stesso amor che porti a lui. | |
(Esce) | |
ELENA - | Quanto può esser più felice al mondo un essere di un altro!… In tutta Atene io son tenuta bella almeno quanto lei. Ma a che mi vale? Tale non mi considera Demetrio; rifiuta di vedere coi suoi occhi quel che vedono tutti, meno lui. Ed io, lo stesso abbaglio ch’egli prende a infatuarsi degli occhi di Ermia, lo prendo ad ammirar le sue virtù. L’amore può dar forma e dignità a cose basse e vili, e senza pregio; ché non per gli occhi Amore guarda il mondo, ma per sua propria rappresentazione, ed è per ciò che l’alato Cupido viene dipinto col volto bendato. Né Amore ha il gusto del saper discernere: ali ed occhi bendati sono il simbolo d’irriflessività precipitosa. Perciò si dice che Amore è bambino: perché s’inganna spesso nello scegliere, e, simile ai bambini nei lor giochi, che fanno spensierati giuramenti, il fanciulletto Amore è sempre mancatore di parola. Così Demetrio. Prima che i suoi occhi incontrassero il bello sguardo d’Ermia, grandinava promesse e giuramenti d’essere solo mio; ma quella grandine appena che avvertì il calore d’Ermia si dissolse, con tutti i giuramenti. Voglio andare comunque ad informarlo della fuga della sua bella Ermia; così domani notte, già lo vedo, correrà per il bosco dietro a lei; e se in cambio di questa informazione avrò da lui un po’ di gratitudine, me la sarò acquistata a caro prezzo… anche se mi vedrò poi ripagata dal vederlo tornar senza di lei. |
(Esce) | |
SCENA II - Atene, in casa del falegname Cotogna | |
Entrano COTOGNA, CONFORTO, BOTTONE, FLAUTO, NASONE e IL LANCA(16) | |
COTOGNA - | Ci siamo tutti della compagnia? |
BOTTONE - | Farai meglio a chiamarli ad uno ad uno come figurano nella tua lista. |
COTOGNA - | Questo è l’elenco completo dei nomi di quelli reputati in tutta Atene adatti a recitare l’interludio davanti al Duca ed alla sua Duchessa alla sera del loro dì nuziale. |
BOTTONE - | Prima però, mio buon Piero Cotogna, dicci che cosa tratta la commedia; poi leggerai i nomi degli attori, e quindi arrivi al punto. Non ti pare? |
COTOGNA - | Ebbene, il titolo del dramma è questo: “La molto lamentevole commedia “con la crudele e tristissima morte “di Piramo e di Tisbe”. |
BOTTONE - | Roba buona! Un assai bel lavoro, v’assicuro, e allegro. Adesso, buon Piero Cotogna, puoi pure far l’appello degli attori nell’ordine di lista. E voi, maestri, verrete avanti come lui vi chiama. |
COTOGNA - | (Leggendo l’elenco) Ognun risponda quando chiamo il nome. “Bottone Nicoletto, tessitore”. |
BOTTONE - | Pronto, dimmi qual è la parte mia, e tira avanti. |
COTOGNA - | (Sempre leggendo) “Bottone Nicola”… Sei assegnato alla parte di Piramo. |
BOTTONE - | E che cos’è nel dramma questo Piramo? L’amoroso? Il tiranno? |
COTOGNA - | L’amoroso, che coraggiosamente s’uccide per amore. |
BOTTONE - | Questa parte, a volerla fare bene, richiederà ch’io versi qualche lacrima; e s’io mi metto a piangere, gli spettatori stiano attenti agli occhi, perché scatenerò coi miei lamenti dei veri temporali… Andiamo avanti, sentiamo quali sono le altre parti. Però, in coscienza, la mia vocazione sarebbe quella di fare il tiranno. Ti saprei fare un Ercole, mannaggia, come è difficile sentirlo altrove;(17) o una parte dal roboante eloquio(18) da far saltare in aria tutto e tutti. |
“Rocce ruggenti “massi frementi, “della prigione “rompo i battenti. “Di Febo il carro “dall’alto splende “e i folli fati “innocui rende”. | |
Eh, maestri, qui andiamo nel sublime! Bah!… Chiama pure adesso gli altri, va’! Eccolo, questo è il tono per un Ercole, il tono del parlare da tiranno. L’amoroso s’esprime più sommesso. | |
COTOGNA - | (Leggendo) “Flauto Francesco, mastro aggiustamantici”. |
FLAUTO - | Presente. |
COTOGNA - | Flauto, tu dovrai far Tisbe. |
FLAUTO - | E chi è Tisbe, un cavaliere errante? |
COTOGNA - | È la dama che deve amare Piramo. |
FLAUTO - | Ah, no! parti da donna per me, no! Non vedi che ho la barba? |
COTOGNA - | Non fa niente. Vuol dire che ti metterai la maschera, e farai la vocina che vorrai. |
BOTTONE - | Anch’io posso nascondermi la faccia. Lasciami far la parte anche di Tisbe: saprò fare un vocino prodigioso! |
(Con voce grossa, imitando Piramo) “Oh, Tisbe, Tisbe!”. | |
(In falsetto imitando la voce femminile) “Piramo, amor mio!”. “La tua Tisbe! La tua diletta Tisbe!”. | |
COTOGNA - | No, no, tu devi fare solo Piramo. Tisbe la farà Flauto. |
BOTTONE - | E sia così! Andiamo pure avanti. |
COTOGNA - | (Leggendo) “Robin Lanca, sartore”. |
LANCA - | Presente, Pier Cotogna. |
COTOGNA - | Robin Lanca, tu devi fare la madre di Tisbe. |
(Leggendo) “Conforto Felicetto, stipettaio”. A te tocca la parte del leone. Ecco, mi pare siate tutti a posto. | |
CONFORTO - | Ce l’hai scritta, la parte del leone? Se sì, ti prego di darmela subito, perché son tardo a mandare a memoria. |
COTOGNA - | Non c’è bisogno; questa la improvvisi. Non devi altro che emettere ruggiti. |
BOTTONE - | Senti, Piero Cotogna, lascialo fare a me anche il leone. So ruggire così meraviglioso, che sarà a tutti un vero godimento. Così bene, che il Duca dovrà dire: “Ancora, fatelo ruggire ancora!”. |
COTOGNA - | A ruggire però così terribile potresti spaventare la Duchessa e le sue dame, fino a farle urlare. Allora sì che n’avremmo abbastanza per finir tutti quanti sulla forca. |
TUTTI GLI ALTRI (meno Bottone) - | Eh, sì, impiccàti, poveretti noi! |
BOTTONE - | Ah, certo, se accadesse che le dame dovessero svenire di paura, non si farebbero davvero scrupolo a mandarci alla forca tutti quanti.(19) Ma io saprò aggravare(20) la mia voce da ruggire sì delicatamente, che sembrerà il tubar d’una colomba.(21) Ruggirò come fossi un usignolo. |
COTOGNA - | Che ruggire e ruggire, un accidente! Tu fai Piramo e basta. Ché Piramo ha da essere un bell’uomo, faccia fresca, pulita, un tipo amabile di quelli che si vedono d’estate, il tipo del perfetto gentiluomo. Questa parte la devi fare tu. |
BOTTONE - | Come vuoi. Quella parte la fo io. Con che barba conviene recitarla? |
COTOGNA - | Che domanda! Con quella che ti pare. |
BOTTONE - | Diciamo color stoppia?… O forse meglio un bel colore arancio?… O un color porporino… O un colore corona francese, quel bel giallo dorato… |
COTOGNA - | Già, ma attento, corone francesi ce ne sono anche che non han più peli, il che vuol dir che reciti sbarbato.(22) Amici, queste son le vostre parti, ed io vi chiedo, supplico e scongiuro che l’impariate per domani sera. Ci troveremo al bosco del palazzo, nel parco, a un miglio fuori di città; perché se ci riuniamo qui in città avremo dietro un codazzo di gente e tutti scoprirebbero in anticipo i nostri trucchi e le nostre intenzioni. Io mi dedico intanto a buttar giù un inventario di tutti gli attrezzi necessari alla rappresentazione. Mi raccomando a tutti, non mancate! |
BOTTONE - | Nessuno mancherà, sta’ pur tranquillo. Sì, là potrem provare a nostro agio oscenissimamente(23) e con coraggio. All’opera, mettetecela tutta. Dovete esser perfetti. Vi saluto. |
COTOGNA - | Domani sera, alla quercia del Duca. |
BOTTONE - | Basta così. O la va o la spacca!(24) |
(Escono) |
ATTO SECONDO
SCENA I - Bosco presso Atene | |
Entrano da parti opposte, una FATA e PUCK | |
PUCK - | Ehi, spiritello, dove vai girando? |
FATA - | “Vo’ per il folto della selva bruna, “per rovi, orti e valloni, “vo’ tra fulmini e tuoni “leggero come un raggio della luna, “a servir delle fate la regina; “ad imperlare di rorida brina “i sentieri dov’ella s’incammina “insieme con le sue dame e donzelle; “vo’ cercando le fresche campanelle “la cui veste leggera “spira profumo già di primavera. “Vo’ cercando stelline di rugiada “da appiccar con amore “come orecchini di pendula giada “alla corolla aperta d’ogni fiore”. |
Ma debbo andare, curiosone, addio, ché la regina sta per arrivare col suo corteggio, e intende qui restare. | |
PUCK - | Ma qui stanotte fa baldoria il re; e la regina se ne stia lontana, perché Oberon è infuriato con lei per via ch’ella si trattiene con sé come paggetto un vago fanciulletto da lei sottratto ad un regnante indiano. Mai fu rubato oggetto(25) a lei più caro, e Oberòn è in dispetto perché vorrebbe avere al suo servizio il ragazzetto, a far da battitore.(26) Ma, sorda al suo rancore, ella trattiene a forza il bel fanciullo, gli foggia una corona d’ogni fiore, e se ne fa gradevole trastullo. Così non c’è una volta che quei due, dovunque si ritrovino di fronte, che sia un bosco, un prato, un chiaro fonte, non sfoghino l’acerbo lor rancore, al punto che i lor elfi, impauriti, si vanno ad acquattare, al lor furore, nei gusci delle ghiande. |
FATA - | Tu, se dalle maniere e dal sembiante io non m’inganno, sei quel discolaccio, quel folletto bugiardo e malizioso che tutti chiamano Robin Bravomo.(27) Non sei tu quel bizzoso spiritello che al villaggio spaventa le ragazze, che fa cagliare il latte dentro i secchi, che armeggia tra le pale del mulino, e si rende molesto alle massaie vanificando la loro fatica a sbattere la crema nella zangola? Ed altre volte a far schiumar la birra, o a far smarrire il cammino ai viandanti di notte, e ridere del loro disagio? E t’adoperi, invece, premuroso, ad aiutare nel loro lavoro, ed a portar fortuna a quelli che ti chiaman vezzeggiandoti, “mio caro diavoletto”(28) e “dolce Puck”? |
PUCK - | Hai detto giusto: sono proprio io quell’allegro notturno vagabondo. Io faccio da buffone ad Oberon, e lo faccio morir dalle risate quando mi metto a far l’imitazione del verso d’una puledrina in foja, e uno stallone ben sazio di fava corre qua e là a cercarla e non la trova. Talvolta vado, quatto, ad appiattarmi, nella forma d’un granchiolino arrosto,(29) nel fondo del boccale d’una vedova, sì che al momento ch’ella fa per bere le salto sulle labbra all’improvviso, e la birra le si rovescia tutta giù giù per l’avvizzita pappagorgia. Talvolta una comare saccentona nel raccontare, tutta sussiegosa, una delle sue storie strappalacrime, mi scambia per un tripode sgabello: io, d’un tratto, le sguscio dalle natiche, quella va a gambe all’aria, e scatarrando grida: “Accidentaccio!”(30) e là tutti a crepare dalle risa ed a giurare, tra tossi e starnuti, di mai aver passato ora più allegra. Ma largo adesso, Fata, ecco Oberòn. |
FATA - | Ed ecco pure la padrona mia. Come vorrei che fosse già partito! |
Entrano, da parti opposte, OBERON e TITANIA coi rispettivi corteggi | |
OBERON - | Male incontrata, orgogliosa Titania; al chiaror della luna! |
TITANIA - | Anche tu qui? Andiamo, fate, andiamocene via! Di lui ho rinnegato letto e mensa!(31) |
OBERON - | Fèrmati, presuntuosa libertina! Non sono il tuo signore? |
TITANIA - | Com’io dovrei sentirmi tua signora, se non sapessi, ahimè, fin troppo bene di quando dal paese delle Fate ti sei allontanato di nascosto e, assumendo il sembiante di Corino, sei rimasto seduto tutto il giorno a zufolar su canne di granturco e rimeggiar d’amore alla tua Fillide!(32) Perché ti trovi qui? Sarai accorso chi sa da qual remota balza d’India(33) solo perché la tua spavalda Amazzone, il coturnato tuo amor guerriero è in procinto d’andar sposa a Teseo, e vieni a dispensare al loro talamo gioia e prosperità. Non è così? |
OBERON - | Ah, svergognata! Come puoi, Titania, alludere così malignamente alla mia amicizia con Ippolita quando sai ch’io conosco troppo bene l’antica tua passione per Teseo? Non l’hai condotto tu, di nottetempo, da Perìgone, ch’egli avea stuprato? E non sei stata tu a indurlo a romper la giurata fede ad Egle bionda, ad Arianna, ad Antiope?(34) |
TITANIA - | Queste son pure fantasticherie dettate a te dalla tua gelosia. Non c’è stata una volta, da quando è cominciata questa estate, che, ovunque c’incontrassimo, noi due, su un colle, a fondovalle, o dentro un bosco, o tra i giunchi alla riva d’un ruscello, tu non abbia turbato i nostri giochi con le tue solite baruffe. E i venti, sdegnati per dover fischiare invano per noi, per vendicarsi, si sono volti a suggere dal mare contagiosi vapori, e questi, poi, rovesciandosi in pioggia sulla terra, hanno talmente gonfiato di boria anche il più striminzito fiumiciattolo, da farlo tracimar fuori dagli argini; onde al bove s’è fatto adesso vano tirare avanti aggiogato all’aratro, e al contadino faticar sudando; e il verde grano è costretto a marcire prima che la sua spiga ha messo barba; e nei campi inondati dalle piene ora gli ovili son rimasti vuoti, mentre corvi e sparvieri si rimpinzano delle carogne delle bestie morte; e coperto di mota è il campo-giochi(35) e cancellati son tutti i sentieri segnati sopra il rigoglioso verde in forma d’ingegnosi labirinti, perché non più calcati da alcun piede; più non possono i poveri mortali goder dei passatempi dell’inverno, né più allietate son le loro veglie da canti e danze… Perfino la luna, la grande artefice delle maree, pallida d’ira, impregna tutta l’aria d’umidi umori, sì che per il mondo abbondano le malattie reumatiche. E per causa di queste disturbanze(36) noi vediamo alterarsi le stagioni: brine canute nel vermiglio grembo cadono della rosa mo’ sbocciata e sovra il capo calvo e raggelato del vecchio inverno sta, come per scherno, calcata un’odorosa coroncina di vivaci e leggiadri fiori estivi. La primavera, l’estate, l’autunno di messi gravido, l’irato inverno van mutando la lor consueta veste; e il mondo, sbalordito, non sa più riconoscere dai frutti qual sia questa stagione, qual quest’altra. E tutta questa progenie di mali è generata dai nostri litigi, dalle continue nostre ostilità; noi soli siamo i loro genitori, l’unica e sola loro scaturigine.(37) |
OBERON - | A te porre rimedio a tutto questo, allora: è in te la cagione di tutto! Perché deve Titania contrastare un desiderio del suo Oberòn? Io non ti chiedo in fondo che un bimbetto, un bimbetto rubato nella culla(38) da farne un mio paggetto… |
TITANIA - | Mettiti il cuore in pace: non basta tutto il regno delle fate a comprare da me quel fanciulletto. Sua madre era devota del mio ordine e, nelle profumate notti indiane, sovente conversava accanto a me; e spesso è stata seduta con me sulle pallide sabbie di Nettuno a contemplar le vele mercantili sull’onde: e allora insieme abbiamo riso al veder quelle vele concepire e inturgidire come messe incinte ad opera d’una lasciva brezza; ed ella, con grazioso e molle incedere, seguendole con l’occhio (già il suo ventre era ricco del giovin mio scudiero) sembrava ne imitasse l’ondeggiare, anch’ella veleggiando lungo il lido a raccoglier conchiglie ed altre inezie, tornando poi da me come da un viaggio stracarica di quella mercanzia. Ma era donna mortale, e partorendo morì, lasciando questo fanciulletto, che per amor di lei ho allevato, per non volermene più separare. |
OBERON - | Quanto intendi restare in questo bosco? |
TITANIA - | Fino a dopo le nozze di Teseo. S’hai voglia di restar, buono e tranquillo, a intrecciare carole insieme a noi e a prender parte al nostro tripudiar sotto la luna, resta pure qui; ma se tu non ne hai voglia, schiva la mia presenza, come io stessa farò dei luoghi da te frequentati. |
OBERON - | Se desideri ch’io resti con te, cedimi quel ragazzo. |
TITANIA - | Nemmeno in cambio di tutto il tuo regno! Fate, venite, andiamo, andiamo via! Se resto qui, si litiga di brutto! |
(Esce con tutto il seguito) | |
OBERON - | Va’, va’, vattene pur per la tua strada… Non uscirai però da questo bosco se prima io non abbia escogitato come farti pagare questo torto. Vieni, mio caro Puck. Ti rammenti, mio caro, quella volta ch’io, seduto su d’una roccia a picco sul mare, erta come un promontorio, ascoltavo, rapito, una sirena che assisa sulla groppa d’un delfino cantava sì soave ed armoniosa da far che fino il mare, assai ingrugnato, si placasse, cortese, ad ascoltarla? E quante stelle dalle loro sfere vedemmo irrompere, come impazzite, per venir più vicino ad ascoltare il canto dell’equorea fanciulla? |
PUCK - | Lo rammento. |
OBERON - | Io vidi, in quel momento, come veder tu non potevi certo, trasvolare Cupido tutto armato tra la gelida luna e questa terra, e drizzare la mira del suo arco su una bella vestale assisa in trono in occidente, e scoccar dalla corda un amoroso strale, e con tal forza da trapassare non un solo cuore, ma centomila cuori messi in fila. Ecco che invece l’infuocato dardo, com’io potei vedere, s’andò a spegnere tra i casti raggi dell’umida luna mentre quella real sacerdotessa restava a proseguire indisturbata le verginali sue meditazioni, immune da amorose fantasie. Vidi anche dove il dardo di Cupido era caduto: sopra un fiorellino che, prima bianco-latte, ora è purpureo per la ferita d’amor ricevuta. Le fanciulle lo chiaman “fior d’amore”.(39) Va’, cercami quel fiore. T’ho mostrato una volta la sua pianta. Il suo succo, spremuto sulle ciglia di chi dorme, sia esso uomo o donna, lo fa cadere innamorato folle del primo esser vivente che si trova davanti al suo risveglio. Va’, trovami quell’erba, e non metter più tempo, a ritornare, d’un leviatano(40) a nuotare una lega. |
PUCK - | In quaranta minuti metto un cinto tutt’intorno alla pancia della terra! |
(Esce) | |
OBERON - | Come avrò nelle mani questo succo, sorprenderò Titania addormentata e le distillerò sugli occhi il liquido, e la creatura viva che per prima le verrà innanzi agli occhi al suo risveglio, sia essa un orso, un lupo, od un leone, un toro od una scimmia ficcanaso, o un’irrequieta e garrula bertuccia, ella sarà costretta ad inseguirla con tutta l’ansia d’un’innamorata. E allora, prima ch’io le sciolga gli occhi da codesto incantesimo - e lo posso, servendomi del succo d’un’altr’erba - mi faccio cedere quel suo paggetto. Ma chi viene?… Rendiamoci invisibili,(41) e stiamo ad origliar quel che si dicono. |
Entra DEMETRIO seguito da ELENA | |
DEMETRIO - | Io non t’amo, lo sai, e dunque smetti di venirmi dietro. Dove sono Lisandro ed Ermia bella?… Lui lo ammazzo, ma lei ammazza me! M’hai detto che se n’erano fuggiti in questo bosco; ed eccomi ora qui, selvaggiamente folle in questa selva, per non riuscire a trovar la mia Ermia. Vattene, va’, non mi seguire più! |
ELENA - | Sei tu, cuor duro, a tirarmiti dietro come una calamita; ma in me tu non attiri del vil ferro, perché il mio cuore è acciaio temperato. Perdi questa tua forza d’attrazione, io perderò la forza di seguirti. |
DEMETRIO - | T’attiro, io? Son io che ti seduco parlandoti con voce di lusinga? O non son io che in piena lealtà ti dico e ti ripeto che non t’amo, e che sento di mai poterti amare? |
ELENA - | Ed è proprio per questo, vedi un po’, ch’io mi sento d’amarti sempre più. Son ridotta, Demetrio, il tuo segugio, che più lo batti e più ti viene intorno. Trattami come fossi il tuo spaniello, trascurami, disdegnami, percuotimi, smarriscimi; ti chiedo solo questo: che mi consenti, indegna come sono, di seguirti. Qual più modesto posto ti posso domandare nel tuo cuore che d’essere trattata come un cane (e ancor lo tengo come un privilegio)? |
DEMETRIO - | Non tentar troppo l’odio del mio animo; perché sto male soltanto a vederti. |
ELENA - | Ed io sto male solo a non vederti! |
DEMETRIO - | Hai già troppo invilito il tuo pudore uscendo sola fuori di città, affidandoti ad uno che non t’ama, esponendo alle insidie della notte e al mal consiglio di luoghi deserti il tesoro della tua castità. |
ELENA - | La tua stessa onestà m’è garanzia: non è più notte, se vedo il tuo volto, perciò non mi par più d’essere al buio; né questo bosco mi pare un deserto: se ci sei tu con me, c’è tutto il mondo. Perché sentirmi sola, se a proteggermi ho tutto intero il mondo? |
DEMETRIO - | Ma io ti fuggirò, andrò a nascondermi nella foresta, e ti lascerò sola, alla mercé delle bestie feroci. |
ELENA - | La bestia più feroce della terra non può aver cuore più crudo del tuo. Va’, va’, fuggi; sarà così invertita l’antica favola: Apollo che fugge e Dafne che lo insegue disperata:(42) la colomba che insegue il girifalco, la docile cerbiatta che si lancia per afferrar la tigre! |
Vana corsa, purtroppo, quando chi insegue è la timidità e chi fugge il coraggio. | |
DEMETRIO - | Non starò qui a sentir le tue querele! Lasciami andare, e non venirmi dietro; e poi non credere, se mi perseguiti, ch’io nel bosco non possa farti male. |
ELENA - | Male tu me ne fai sempre e dovunque, nel tempio, per le vie della città, in aperta campagna. Ahimè, Demetrio, i torti che mi fai sono vergogna non solo a me, ma all’intero mio sesso, perché a noi donne non è consentito combattere per ottenere amore, come a voi uomini; noi siamo nate per essere da voi desiderate, non per desiderarvi corteggiandovi. |
(Esce Demetrio) | |
Ti seguirò, Demetrio, ovunque vai, e farò dell’inferno un paradiso se morirò per mano di chi adoro. | |
(Esce) | |
OBERON - | (Ricomparendo) Addio, ninfa;(43) ma sarai tu a fuggirlo, prima ch’egli abbandoni questo bosco, e lui, innamorato, ad inseguirti! |
Rientra PUCK | |
Bentornato, mio caro giramondo. Quel fiore, allora, l’hai con te? | |
PUCK - | Sì, eccolo. |
OBERON - | Dammelo qua. C’è un posto in riva al fiume dove fiorisce del timo selvatico e rigogliose vi crescon le primule e le viole dal capo tentennante sotto il lussureggiante baldacchino formato da un aulente caprifoglio, e profumate rose borraccine. In quel luogo Titania suol mettersi a giacere e addormentarsi per una buona parte della notte, cullata, in mezzo a quel fiorito asilo, da danze, musiche ed altre delizie. Ivi anche è solita lasciar la serpe la sua veste smaltata, ampia abbastanza da ammantarci una fata. Io bagnerò col succo di quest’erba le sue palpebre e questo avrà il potere di riempirla di odiosi desideri. Prendine tu qualche stilla con te, e mettiti a cercare in questo bosco: una leggiadra fanciulla di Atene si strugge per un giovane sdegnoso; trovalo, e spalmargli questo sugli occhi. Ma fallo con la massima attenzione, così che al suo risveglio questo giovane si ritrovi di lei innamorato più di quanto non sia ella di lui. E torna qui prima che canti il gallo. |
PUCK - | Non dubitare, padrone: il tuo servo farà tutto a puntino, come dici. |
(Escono) | |
SCENA II - Altra parte del bosco | |
Entra TITANIA col suo corteggio di FATE | |
TITANIA - | Andiamo, su, alla svelta! Appena un girotondo e una canzone; venti secondi soli, e poi via tutte, quali ad uccidere i piccoli bruchi sui bocci delle rose damaschine, quali a dare la caccia ai pipistrelli (con le loro ali si fan bei corsetti di cuoio per i miei piccoli elfi); quali a cacciar la stridula civetta che strilla a notte la sua meraviglia vedendo i nostri strani spiritelli. Cantatemi la vostra ninna nanna, e poi, mentr’io riposo, tutte all’opera! |
CANZONE DELLE FATE | |
1a FATA - | “Voi, serpi maculate “dalle lingue forcute, “voi, irti porcospini, “voi, salamandre, voi, ciechi orbettini, “nelle tenebre mute “nascosti rimanete, “a Titania regina delle fate “offesa non recate”. |
CORO - | “Filomela, tu, carina “culla il sonno alla regina “con la melodiosa canna, “ninna nanna, ninna nanna. “Dal suo sonno lunge sia “ogni male, ogni malia, “dolce sia del sonno l’ora “all’amabile signora”. |
2a FATA - | “Voi, ragnetti tessitori, “zampalunga, andate via! “Via, lumache, scarafaggi, “via da questi suoi paraggi. “Vermi, via, non disturbate “la regina delle fate”. |
CORO - | “Filomela, tu, carina “culla il sonno alla regina “con la melodiosa canna, “ninna nanna, ninna nanna. “Dal suo sonno lunge sia “ogni male, ogni malia, “dolce sia del sonno l’ora “all’amabile signora”. |
(Titania s’addormenta) | |
2a FATA - | “Dorme. Via, sciamate lesti, “una qui a vegliarla resti”. |
(Escono tutte le fate) | |
OBERON compare, s’accosta a Titania che dorme e le spreme il fiore sulle palpebre | |
OBERON - | Pel primo che vedrai, aprendo gli occhi, insano amor ti tocchi. Sia pur mostro tutto orrore, languirai per lui d’amore. Sia pur orso, o pardo, o cervo, o cinghial dal pelo acerbo che al tuo occhio primo appare, quello tu dovrai amare. Perciò sol ti sveglierai quando quello accanto avrai. |
(Sparisce) | |
Entra LISANDRO con ERMIA appoggiata al suo braccio | |
LISANDRO - | Amore mio, tu svieni; questo lungo vagare per il bosco t’ha stancata, e, a dir la verità, ho smarrito il cammino. Riposiamoci qui, Ermia, se credi, a attendere il conforto del mattino. |
ERMIA - | Sì, Lisandro. Tròvati tu un giaciglio come puoi; io mi distendo qui, poggiata il capo sopra questo greppo. |
LISANDRO - | Questo ciuffetto d’erba, mia diletta, può servir da cuscino a tutti e due: un sol cuore, un sol letto, due anime, ed una stessa fede. |
ERMIA - | No, buon Lisandro, no; se mi vuoi bene, stattene più discosto, non ti giacer così vicino a me. |
LISANDRO - | Oh, dolcezza, non devi fraintendere l’innocenza di questa mia proposta! Amore coglie da se stesso il senso del parlare amoroso:(44) voglio intendere che il mio cuore è così legato al tuo che d’entrambi se ne può fare un solo; due cuori incatenati con voto, due anime congiunte in un sol nodo. Non negarmi perciò, Ermia, un giaciglio accanto a te, perché così giacendo non ti voglio ingannare, mia diletta.(45) |
ERMIA - | Lisandro sa giocare molto bene con le parole. Che siano dannate le mie brusche maniere e il mio orgoglio, se Ermia abbia mai potuto intendere che Lisandro volesse abbindolarla Ma se ti chiedo, gentile compagno, per un atto d’amore e cortesia, di metterti a dormire un po’ lontano, è per pudore: una separazione, com’essa può ben essere chiamata, qual si conviene a un giovane virtuoso e a una fanciulla vergine. Sta’ discosto, perciò, dolce compagno e buona notte. E mai l’amore tuo si guasti fino al fine di tua vita! |
LISANDRO - | Amen, amen, a questa tua preghiera io dico; e che finisca la mia vita se mai finisca la mia fedeltà! Qui è il mio letto; a te conceda il sonno il suo pieno ristoro. |
ERMIA - | Questo augurio riposi per metà sugli occhi di colui che me l’ha detto. |
(Si distendono e s’addormentano) | |
Appare PUCK | |
PUCK - | “Tutto il bosco, fino in fondo, “sono andato perlustrando, “l’ateniese invan cercando “sulle cui ciglia saggiare “il potere del mio fiore “a far nascere l’amore. “Notte… non uno stormire… |
(Vede Lisandro addormentato) | |
“Ma chi vedo qui dormire? “Sembra, all’abito, il garzone “che, a sentire il mio padrone, “tiene a sdegno la pulzella, “l’ateniese damigella”. “Ecco, infatti, che distesa “vedo ch’ella pur riposa “sopra queste umide zolle. “Pover’anima! Ella volle “certamente star lontano “da un tal fior di disumano “schiva-amore e gran villano”. | |
(S’avvicina a Lisandro che dorme, e gli spreme il succo sulle palpebre) | |
“Sui tuoi occhi, sciagurato, “verso il filtro mio fatato. “Quando ti sarai destato “sui tuoi occhi già insediato “sarà Amore, e da gran donno, “a impedirti e pace e sonno. “Or ti lascio, devo andare, “da Oberon devo tornare”. | |
(Sparisce) | |
Entrano DEMETRIO ed ELENA, correndo | |
ELENA - | Demetrio caro, fèrmati un momento, fosse pur solamente per uccidermi. |
DEMETRIO - | Va’ via di qui, te l’ordino, Elena! E smetti perseguitarmi! |
ELENA - | Vuoi dunque abbandonarmi qui nel buio? Ah, non farlo, Demetrio! |
DEMETRIO - | Rimani qui, se vuoi, ma a tuo rischio e pericolo. |
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