Meno male... Che cosa, dunque, dicevi?”
“Dicevo che lei sarebbe capacissimo di mettersi in testa un cappello a tuba e di andare magari a farsi vedere da tutti!...”
“Sicuro che ci anderei.”
“Ma non pensa ai fischi e alle risate dei monelli di strada?”
“Dimmi, Veronica, che hai saputo per caso qualche cosa?...”
“Di che?”
“Meno male: non hai saputo nulla!... Dicevi dunque?”
“Dicevo che i ragazzacci di strada sono anche impertinenti... e non so se si contenterebbero soltanto di ridere e di fischiare.”
“E che vuoi tu che mi facessero di peggio?”
“Chi lo sa! Potrebbero alzare le mani e sentirsi il pizzicorino di lasciar cadere sul suo cappello qualche solennissima latta...”
“Latta?... E che roba sono le latte?”
“Sono quei colpacci a mano aperta affibbiati per celia o per davvero sul cappello degli altri.”
“E se qualche ragazzaccio si pigliasse la confidenza di sciuparmi il cappello, tu credi che io non ne avrei il coraggio?...”
“Il coraggio di far che cosa?”
“Di scappare e di andar subito a raccontarlo alla mamma?... Per tua regola, io non ho paura di nessuno.”
“Lo so che lei è dimolto coraggioso: tant'è vero che la sera, quand'è entrato a letto, vuol sempre la candela accesa. Guai a lasciarlo al buio!”
“Che cosa c'entra la candela col coraggio? Il coraggio è una cosa, e la candela è un'altra: ne convieni? E poi devi sapere che il mio maestro di ginnastica ha promesso fra sei o sett'anni d'insegnarmi la scherma... e quando saprò la scherma... allora, te lo dico io, non avrò più paura di nessuno. Ma insomma, Veronica, me lo fai questo piacere, sì o no?”
Gigino, mi dispiace a doverlo dire, aveva un altro difetto, comunissimo del resto a molti ragazzi, quello, cioè, che quando cominciava a chiedere una cosa, non la finiva più, fino a tanto che non l'aveva ottenuta. E a furia di ripetere e di pigolare la medesima cosa diventava così noioso e così seccatore, da sfondare lo stomaco.
Prova ne sia che la Veronica, pur di levarsi di torno quel tormento, prese dispettosamente il goletto, e tagliatone un pezzo e ricucitolo alla meglio con pochi punti, lo ridusse adattato al collo del suo padroncino.
Chi più beato, chi più felice di Gigino? Ballando e saltando corse a rinchiudersi nella sua camerina, e lì tanto fece e tanto annaspò, che finalmente poté guardarsi nello specchio col suo nuovo goletto intorno al collo.
Ma il nuovo goletto era così alto e così duramente insaldato, che il povero figliuolo sentiva tagliarsi la gola! Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo!
La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all'infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss'altro, scansando il pericolo d'incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto.
Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo.
“Che cos'ha Melampo?” gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. “Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?”
“Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola?... Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch'io... Da ieri a oggi, l'è così imbruttito... con rispetto parlando!”
“Imbruttito?... Sarebbe a dire?...”
“Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo... Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?”
“È meglio che me ne vada, senza risponderti... se no, te ne direi delle belle” masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato.
Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi passi in un secchione pieno d'acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale.
E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè, tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco.
Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c'è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!
4. La scherma.
E qui bisogna ritornare un passo indietro, come dicono i raccontatori di novelle.
Dovete dunque sapere, miei piccoli e carissimi lettori, che il brutto caso di quel povero cappello a tuba, strapazzato, percosso e diviso in due pezzi sulla pubblica via, non rimase un segreto per i compagni di scuola del nostro amico Gigino.
Uno scolaro, per combinazione, venne a saperlo: e quando un ragazzo sa qualche cosa, potete aspettarvi che dopo cinque minuti lo sanno anche tutti gli altri ragazzi. Così sapessero tutti l'Aritmetica, la Storia e la Geografia!
Fatto sta, che fra i compagni di scuola di Gigino trovavasi un certo Amerigo chiamato di soprannome il Biondo, perché di capelli e di carnagione era biondo come un cannello di brace.
Il Biondo non aveva che una sola passione (bruttissima passione): quella di divertirsi e di ridere alle spalle degli altri ragazzi. Inventava per tutti qualche canzonatura o qualche scherzo impertinente. A chi le dava, e a chi le prometteva.
Figuratevi la sua contentezza, quando gli raccontarono la storia della famosa latta cascata sul cappello a tuba del povero Gigino!
Prese subito di mira l'amico, e non gli dètte più pace; non lo lasciò più ben'avere un minuto solo.
Tutte le volte che nell'andare a scuola s'imbatteva in lui, affibbiavagli subito un bello scappellotto sul berretto: e poi, fingendosi dolente e mortificato, diceva con voce di piagnisteo:
“Scusa, sai: mi pareva che tu avessi in testa il cappello a tuba!... Non lo farò più!...”.
Il nostro Gigino, a questi scherzi sguaiati ci soffriva, proprio ci soffriva: e avrebbe dato volentieri una buona lezione al suo accanito persecutore: ma la paura era quella che lo tratteneva: e la paura è stata sempre una gran tara per tutte quelle persone che vorrebbero aver coraggio.
Alla fine, non potendone più, fece un animo risoluto, e disse al suo maestro di ginnastica:
“Senta, signor maestro, io vorrei che lei m'insegnasse subito la scherma”.
“Che cosa vuoi far della scherma?”
“Voglio battermi...”
“Con chi?”
“Con nessuno.”
“Benissimo: il signor Nessuno è l'unico avversario adattato per te!” urlò il maestro, dando in una gran risata.
“Eppure anche il babbo dice sempre che, quando sarò più grande, dovrò imparare la scherma...”
“Quando sarai più grande, sì: ma che cosa vuoi far oggi della scherma? oggi che sei un ragazzino alto poco più d'un soldo di cacio? oggi che non hai nemmeno la forza di reggere in mano il fioretto?...”
“Scusi: che cosa sarebbe il fioretto?”
“Te lo spiegherò un'altra volta.”
“Scusi, signor maestro: non potrebbe darmi qualche lezione, tanto per cominciare?...”
“Voglio contentarti. Per oggi t'insegnerò il modo di stare in guardia.”
“Mi dispiace... ma in guardia oggi non ci posso stare, perché dopo la scuola, mi aspettano a casa”.
Il maestro fece di tutto per non dare in uno scoppio di risa: quindi riprese:
“Animo! Mettiti là, ritto, impettito della persona. Benissimo! Ora porta la mano sinistra dietro la schiena... Nossignore! codesta non è la mano sinistra: codesta è la destra... Va bene così: ora con la destra impugna questo bastoncino, che farà da fioretto”.
“Scusi, signor Maestro, che cos'è il fioretto?”
“Te lo spiegherò un'altra volta.
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