Perciò, senza domandare il prezzo, fece portare dal suo tesoro tutto l'oro in moneta che vi si trovava, e ingiunse al mercante di prendere quello che voleva. Lo straniero obbedì, ne prese un poco, e rimase silenzioso.

Vathek, pensando che il silenzio del mercante fosse dovuto alla soggezione che la sua presenza ispirava, lo incoraggiò a farsi avanti e gli chiese con aria di condiscendenza chi era, da dove veniva e dove si era procurato oggetti cosi belli e preziosi. L'uomo, o meglio il mostro, invece di dare una risposta si grattò tre volte la testa che, come il resto del corpo, era più nera dell'ebano; si batté quattro volte la pancia che aveva enorme e prominente; spalancò i grandi occhi che ardevano come tizzoni; e cominciò a ridere con orribile rumore scoprendo i lunghi denti color d'ambra striati di verde.

Il califfo, benché alquanto turbato, ripetè la sua domanda senza riuscire a ottenere una risposta. Al che, cominciando a irritarsi, esclamò: — Sai tu, sciagurato, chi sono e di chi osi farti giuoco? — Poi, rivolgendosi alle sue guardie: — Lo avete udito parlare? E muto? — Ha parlato, — risposero le guardie, — ma senza senso. — Fatelo parlare di nuovo, — ordinò Vathek, — e poi ditemi chi è, da dove viene e dove si è procurato queste singolari curiosità; o giuro, per l'asina di Balaam, che lo farò pentire della sua pertinacia.

Questa minaccia fu accompagnata da uno degli atroci sguardi d'ira del califfo, che lo straniero sostenne senza la minima emozione, benché i suoi occhi fossero fissi su quello terribile di Vathek.

Le parole non possono descrivere la costernazione dei cortigiani quando si accorsero che quel rozzo mercante sosteneva inalterato il confronto. Tutti caddero prostrati con la faccia a terra, per non mettere a repentaglio la vita; e sarebbero rimasti in tale abietta posizione se il califfo non avesse esclamato in tono furibondo: — Su, codardi! prendete il miscredente! E guardate che sia messo in prigione e custodito dai miei migliori soldati! Fategli tuttavia tenere i denari che gli ho dati; non è mia intenzione togliergli quello che è suo: voglio solo che parli.

Non aveva ancora pronunciato queste parole che lo straniero fu circondato, afferrato, legato in ceppi; quindi trascinato alla prigione nella grande torre, che era tutta recinta da sette cancelli di ferro, irti in ogni senso di chiodi lunghi e grossi come spiedi. Il califfo nondimeno rimase nella più violenta agitazione. Si sedette a mensa; ma dei trecento piatti che si portavano tutti i giorni non potè assaggiarne più di trentadue.

Un digiuno a cui era cosi poco abituato sarebbe bastato da solo a impedirgli di dormire; quale doveva esserne l'effetto quando si univa l'agitazione che opprimeva il suo spirito? Al primo chiarore dell'alba egli si avviò in fretta alla prigione a interrogare di nuovo l'intrattabile straniero: il suo furore superò ogni limite quando trovò la prigione vuota, le inferriate divelte e la guardia stesa senza vita tutt'intorno. In un parossismo di rabbia si buttò furiosamente sulle povere carcasse e le prese a calci fino a sera senza interruzione. I cortigiani e i visir adoperarono tutti i loro sforzi per calmare questa stravaganza; ma trovando inefficace ogni espediente si unirono in un unico clamore: — Il califfo è diventato pazzo! Il califfo è uscito di sé!

Il grido, che presto risuonò per le strade di Samarah, arrivò infine alle orecchie di Carathis, madre di Vathek, che accorse nella più grande costernazione a spiegare il proprio potere sulla mente del figlio. Le lacrime e le carezze di lei richiamarono l'attenzione di Vathek, che si lasciò convincere dalle insistenze materne a farsi portare di nuovo al palazzo.

Carathis, preoccupata all'idea di lasciare Vathek a se stesso, lo fece mettere a letto e, seduta accanto a lui, tentò con la sua conversazione di pacificarlo e di placarlo. E nessuno avrebbe potuto tentarlo con più fortuna; perché il califfo non solo amava Carathis come madre ma la rispettava come una persona di genio superiore. Era lei che, essendo greca, lo aveva convinto a adottare le scienze e i metodi del suo paese, da cui i buoni musulmani aborrono cosi decisamente.

L'astrologia giudiziale era una di quelle scienze in cui Carathis era perfettamente versata. Cominciò quindi col ricordare a suo figlio la promessa che le stelle gli avevano fatta e lo informò della sua intenzione di consultarle di nuovo. — Ahimè! — disse il califfo appena potè parlare: — che pazzo sono stato! Non per aver dato quarantamila calci alle mie guardie che cosi supinamente hanno accettato la morte; ma per non aver considerato che quell'uomo straordinario era lo stesso annunciatomi dai pianeti: lui, che avrei dovuto conciliarmi con tutte le arti della persuasione invece di maltrattarlo.

—    Il passato, — disse Carathis, — non si può richiamare; ma ci esorta a pensare al futuro. Forse potrai vedere di nuovo la persona che rimpiangi tanto; può darsi che le iscrizioni sulle sciabole ci diano qualche indizio. Mangia quindi e riposati, mio caro figlio. Domani penseremo al modo di agire.

Vathek accondiscese come potè al consiglio della madre e la mattina si alzò con la mente più tranquilla. Si fece portare immediatamente le sciabole e, guardandole attraverso un vetro colorato perché, cosi lucenti, non dessero riflessi, si dispose con la più grande serietà a decifrare le iscrizioni. Ma i suoi reiterati tentativi furono tutti inutili, invano si batté la testa e si morse le unghie, non gli fu possibile riconoscere una sola lettera. Una delusione cosi amara lo avrebbe di nuovo stravolto se per fortuna Carathis non fosse entrata nell'appartamento.

— Abbi pazienza, figlio mio! — ella disse; — certo tu possiedi ogni scienza importante, e la conoscenza delle lingue è una futilità buona solo per pedanti. Annunzia in un proclama che conferirai ricompense quali si addicono alla tua grandezza a chi interpreterà quello che tu non capisci e che non è degno di te studiare; e la tua curiosità sarà presto soddisfatta.

— Può essere, — disse il califfo, — ma nello stesso tempo io sarò orribilmente disgustato da una folla di cialtroni che verranno alla prova sia per il piacere di raccontare le loro frottole, sia per la speranza di guadagnarsi la ricompensa. Per evitare questo fastidio sarà opportuno aggiungere che io manderò a morte chi non riuscirà a soddisfarmi; perché, grazie al cielo, sono abbastanza abile da distinguere se un uomo traduce o inventa.

— Su questo non ho dubbi, — disse Carathis, — ma mandare a morte gli ignoranti mi sembra piuttosto severo e può avere effetti nocivi. Contentati di fare bruciare loro la barba: le barbe in uno stato non sono cosi essenziali come gli uomini.

Il califfo si piegò alle ragioni della madre e, mandato a chiamare Morakanabad, il suo primo visir, disse: — Fa' proclamare dai pubblici araldi, non solo a Samarah, ma in ogni città del mio impero, che chiunque comparirà qui e saprà decifrare certi caratteri che si presentano incomprensibili avrà modo di sperimentare quella liberalità per cui sono famoso; ma tutti quelli che mancheranno alla prova avranno la barba bruciata fino all'ultimo pelo. Fa' aggiungere anche che assegnerò cinquanta belle schiave e altrettante ceste di albicocche dell'isola di Kirmith a chi mi porterà notizie dello straniero.

Ai sudditi del califfo, essendo come il loro sovrano ammiratori delle belle donne e delle albicocche di Kirmith, venne l'acquolina in bocca, ma furono assolutamente incapaci di soddisfare le loro bramosie perché nessuno sapeva che cosa fosse successo dello straniero.

Diverso fu il risultato dell'altra inchiesta del califfo. I dotti, i semidotti, e quelli che non lo erano affatto ma si ritenevano pari alle due prime categorie, vennero audacemente a mettere a rischio le loro barbe e tutti miseramente le perdettero. L'esazione di questo tributo, giudicato incarico adatto per gli eunuchi, diede loro una tale puzza di peli bruciati da disgustare oltremodo le signore del serraglio e da rendere necessario il trasferimento in altre mani di questa nuova occupazione dei loro custodi.

Finalmente si presentò un vecchio, la cui barba era un cubito e mezzo più lunga di tutte le altre apparse prima. Gli ufficiali del palazzo si sussurravano a vicenda mentre lo introducevano: — Che peccato, che gran peccato che una simile barba debba essere bruciata! — E anche il califfo condivise il loro rammarico quando la vide; ma la sua preoccupazione fu vana. Quel venerabile personaggio lesse i caratteri con facilità e li spiegò a voce come segue: — Noi siamo stati fatti dove ogni cosa è ben fatta, siamo l'ultima delle meraviglie di un luogo dove tutto è meraviglia e tutto merita lo sguardo del primo potente della terra.

—    Tu traduci mirabilmente! — gridò Vathek. — So a che cosa alludono questi meravigliosi caratteri.