A chi infine sarebbe mai consentito di tradurre in tedesco Petronio, il quale, più di qualsiasi grande musicista sino ad oggi, è stato un maestro del “presto”, con le sue invenzioni, lampi di genio, parole: - che importanza hanno, in definitiva, tutti i pantani del mondo malato e malvagio, e anche del «mondo antico», se si ha, come lui, piedi di vento, moto e respiro di vento, lo scherno liberatore di un vento che guarisce ogni cosa, costringendo ogni cosa a “correre”! E per venire ad Aristofane, quello spirito trasfigurante e complementare, per amore del quale si perdona all’intera grecità d’essere esistita, sempreché si sia compreso sino in fondo quante cose hanno bisogno di perdono e di trasfigurazione: - non saprei che cosa mi ha fatto sognare sul segreto di Platone e sulla sua natura sfingea più di quel “petit fait” miracolosamente tramandatoci: che sotto l’origliere del suo letto di morte non fosse stata rinvenuta alcuna «bibbia», nulla di egiziano, di pitagorico, di platonico -
bensì Aristofane. Come avrebbe mai potuto sia pure un Platone sopportare la vita - una vita greca, alla quale egli aveva detto no, - senza un Aristofane?
29. E’ cosa di ben pochi essere indipendenti: - è una prerogativa dei forti. E chi tenta di esserlo, anche con il miglior diritto, ma senza esservi “costretto”, dimostra con ciò che egli verosimilmente non è soltanto forte, ma temerario sino alla dismisura. Costui si infila in un labirinto, moltiplica in mille modi i pericoli che la vita, già di per se stessa, comporta: dei quali non è il minore l’impossibilità per ognuno di vedere con i propri occhi come e dove si stia smarrendo e resti isolato, come e dove venga dilaniato, membro a membro, da un qualche cavernicolo Minotauro della coscienza. Ammesso che un tale individuo perisca, questo evento è così lontano dalla comprensione degli uomini che essi non possono sentirlo né compatirlo: - e costui non può più tornare indietro, neppure alla compassione degli uomini!
30. Le nostre conoscenze più elevate risuonano inevitabilmente - e anzi deve essere così - come follie, in talune circostanze come delitti, allorché vengono indebitamente all’orecchio di coloro che non sono strutturati né predestinati per cose siffatte.
L’essoterico e l’esoterico, come venivano un tempo distinti tra i filosofi, presso gli Indiani come presso i Greci, i Persiani, i Musulmani, insomma ovunque si credeva in una gerarchia e “non già”
nell’uguaglianza e negli uguali diritti, - non spiccano l’uno rispetto all’altro per la sola ragione che l’individuo essoterico se ne sta al di fuori e osserva, valuta, misura, giudica dall’esterno e non dall’interno: il fatto più essenziale è che questi vede le cose dal basso, - mentre l’esoterico “dall’alto”!
Esistono altitudini dell’anima, guardando dalle quali perfino la tragedia cessa di avere un effetto tragico; e se si fa di tutti i dolori del mondo un dolore solo, chi potrebbe arrischiarsi a dichiarare che “necessariamente” questo spettacolo indurrebbe e costringerebbe alla compassione e quindi al raddoppiamento del dolore? Ciò che serve di nutrimento e di ristoro a un tipo superiore di uomini deve essere quasi un veleno per un tipo umano assai diverso e inferiore. Le virtù dell’uomo volgare significherebbero forse, in un filosofo, vizi e debolezze; potrebbe darsi che un uomo d’alto lignaggio, ove tralignasse e andasse in rovina, giungesse soltanto in tal modo a possedere quelle qualità in virtù delle quali, nell’ignobile mondo in cui è affondato, si sente la necessità di venerarlo ormai come un santo.
Vi sono libri che hanno per l’anima e la salute un valore opposto, a seconda che se ne serva un’anima ignobile, un’inferiore forza vitale, oppure invece quella più alta e più possente: nel primo caso sono libri pericolosi, frantumanti e dissolventi, nel secondo, sono appelli d’araldo, che invitano i più prodi alla
“loro” prodezza. I libri per tutti sono sempre libri maleodoranti: l’odore della piccola gente resta loro attaccato addosso. Dove il popolo mangia e beve, perfino là dove esso tributa la sua venerazione, c’è di solito del fetore. Non si deve andare in chiesa se si vuol respirare aria “pura”.
31. L’atteggiamento di venerazione e di disprezzo negli anni giovanili è ancora privo di quell’arte della “nuance” che costituisce il miglior profitto della vita, e bisogna pagare un prezzo giustamente duro per avere in tal modo aggredito uomini e cose con un sì e un no. Tutto è disposto in modo che il peggiore di tutti i gusti, il gusto dell’assoluto, venga crudelmente alimentato e sia sottoposto ad abuso, finché l’uomo non impari a riporre una qualche arte nei suoi sentimenti e preferisca arrischiarsi anche nel tentativo dell’artificioso: così fanno i veri artisti della vita. L’iracondia e lo spirito di venerazione, che sono propri della gioventù, non sembrano darsi pace se non hanno prima falsificato a dovere uomini e cose, cosicché sia possibile scatenarci contro di essi: - la gioventù è in se stessa qualcosa che falsifica e inganna. Più tardi, quando la giovane anima, torturata da acute disillusioni, finisce per rivoltarsi sospettosamente contro se stessa, ancor sempre ardente e selvaggia pur nella sua diffidenza e nei suoi rimorsi di coscienza: come si adira con se stessa, con quale impazienza si dilania, come si vendica per il suo lungo autoaccecamento, quasi fosse stata questa una volontaria cecità! In questo trapasso si castiga se stessi mercé la diffidenza verso il proprio sentimento: si tortura col dubbio il proprio entusiasmo, anzi si avverte già come un pericolo la tranquilla coscienza, quasi un velato eclissarsi dell’onestà più raffinata e un suo rilassamento; e soprattutto si prende posizione, una posizione di principio, contro la «gioventù».
Passeranno dieci anni, e si capirà che anche tutto questo era ancora gioventù!
32. Per tutto il periodo più lungo della storia umana chiamata èra preistorica il valore o il disvalore di un’azione veniva dedotto dalle sue conseguenze: in tal modo l’azione in se stessa, come pure la sua origine, non veniva presa in considerazione, bensì era la forza retroattiva del successo o dell’insuccesso che guidava gli uomini a pensar bene o male di un’azione, a un dipresso come ancor oggi, in Cina, il prestigio o la vergogna retrocede dal figlio ai genitori. Noi chiamiamo questo periodo il periodo
“premorale” dell’umanità: l’imperativo «conosci te stesso!» era allora ancora ignorato. Negli ultimi dieci millenni si è invece giunti, passo su passo, così lontano in alcune grandi plaghe della terra, da lasciare che l’origine dell’azione decida sul suo valore: un grande successo nell’insieme, un notevole affinamento dello sguardo e del criterio di valutazione, l’inconscia ripercussione del predominio di valori aristocratici e della fede nell’«origine», il segno distintivo di un periodo che in senso più stretto può essere qualificato come “morale”: con ciò il primo tentativo di conoscenza di sé è fatto. Invece della conseguenza, l’origine: quale rovesciamento di prospettiva! E un rovesciamento certo raggiunto soltanto dopo lunghe lotte e tentennamenti!
Indubbiamente, divennero appunto con ciò egemoniche una nuova fatale superstizione, una singolare angustia interpretativa: s’interpretò l’origine di un’azione nel senso più determinato possibile come origine procedente da un‘“intenzione”, si convenne di credere che il valore di un’azione fosse riposto nel valore della sua intenzione. L’intenzione quale integrale origine e preistoria di un’azione: sotto questo pregiudizio, quasi sino ai nostri giorni, si è moralmente lodato, biasimato, sentenziato e anche filosofato su questa terra. - Ma non dovremmo oggi essere arrivati alla necessità di risolverci, ancora una volta, per un rovesciamento e una radicale rimozione dei valori, grazie a una rinnovata autoriflessione e a un approfondimento dell’umanità -
non dovremmo trovarci alla soglia di un periodo che dovrebbe essere qualificato, negativamente, prima di tutto come
“extramorale”, un periodo in cui almeno noi immoralisti siamo mossi dal sospetto che proprio nell’elemento “non intenzionale” di un’azione sia riposto il suo valore decisivo e che tutta la sua intenzionalità, tutto quel che di essa può essere osservato, saputo, «reso cosciente» appartiene ancora alla sua superficie e scorza; - la quale, al pari di ogni scorza, tradisce l’esistenza di qualcosa, ma ancor di più la “nasconde”? Insomma, noi crediamo che l’intenzione sia soltanto un segno e un sintomo che esige in primo luogo una decifrazione, e oltre a ciò un segno che significa troppe cose diverse e quindi, per sé soltanto, quasi nulla; crediamo che la morale, nel senso avuto fino a oggi, dunque come morale di intenzioni, sia stata un pregiudizio, una cosa avventata e forse provvisoria, ma in ogni caso qualcosa che deve essere superato. Il superamento della morale, in un certo senso persino l’autosuperamento della morale: possa essere questa la denominazione di quel lungo lavoro segreto che è riservato alle più fini ed oneste e anche più maliziose coscienze d’oggi, quali viventi pietre di paragone dell’anima.
33. Non c’è niente da fare: si deve implacabilmente chiamare al rendiconto e portare in giudizio i sentimenti d’abnegazione e di sacrificio per il prossimo, tutta quanta la morale dell’autorinuncia; come pure l’estetica dell’«intuizione disinteressata», sotto la quale la svirilizzazione dell’arte cerca oggi, in maniera abbastanza fascinosa, di crearsi una tranquilla coscienza. C’è anche troppo incantesimo zuccherato in quei sentimenti del «per gli altri», del «non per me», perché non si debba sentire la necessità di diventare, a questo proposito, doppiamente diffidenti e chiedere: «Non sono forse tutti questi sentimenti… delle seduzioni?». - Il fatto che essi suscitino piacere - a chi li possiede e a chi assapora i loro frutti come anche al semplice spettatore, non è ancora argomento in loro favore, ma piuttosto un espresso invito alla cautela.
1 comment