24. “O sancta simplicitas!” (12). In quale curiosa semplificazione e falsificazione vive l’uomo! Tosto che si comincia a farci l’occhio per un siffatto prodigio, non si finisce mai di meravigliarci! Come abbiamo reso tutto attorno a noi chiaro e libero e semplice! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un libero salvacondotto per ogni superficialità e al nostro pensiero una divina brama di capricciosi salti e paralogismi! - Come abbiamo saputo, fin da principio, conservarci la nostra ignoranza per godere di una libertà a stento concepibile, di spregiudicatezza, sventatezza, audacia, letizia di vita, per godere della vita! E

soltanto su queste basi d’ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto levarsi fino ad oggi la nostra scienza; la volontà di sapere sul fondamento di una volontà molto più possente, la volontà cioè di non sapere, d’incertezza, di non verità! Non già come sua antitesi, bensì come suo affinamento! Per quanto, anche il “linguaggio”, qui come altrove, non abbia la possibilità di evadere dalla sua goffaggine e debba continuare a parlare di antitesi, là dove esistono solo gradi e una sottile gamma di variazioni; per quanto, allo stesso modo, l’incarnata tartuferia della morale, che è divenuta oggi per noi, in modo insormontabile,

«carne e sangue», possa distorcere a noi sapienti persino le parole in bocca: di quando in quando ce ne rendiamo conto e ridiamo sul fatto che proprio la scienza migliore ci voglia ancora tener inchiodati nel miglior modo possibile a questo mondo

“semplificato”, artificiale da cima a fondo, poeticizzato e falsificato a dovere e che, volutamente o no, essa ami l’errore, dal momento che lei, la vivente, - ama la vita!

25. Dopo un così giocondo avvio una parola seria non vorrebbe restare inascoltata: si rivolge essa ai più seri. State in guardia, voi filosofi e amici della conoscenza; e guardatevi dal martirio! Dal soffrire «per amore della verità»! E perfino dal difendere voi stessi! Si corrompe, nella vostra coscienza, ogni innocenza e ogni delicata neutralità, diventate caparbi contro le obiezioni e i drappi rossi, vi ristupidite, v’imbestiate, vi trasformate in tori quando nella lotta contro il pericolo, la denigrazione, il sospetto, il rifiuto, finite per recitare giocoforza sulla terra anche la parte dei difensori della verità: come se «la verità» fosse una persona così sprovveduta e balorda da aver bisogno di difensori! E proprio voi, cavalieri dalla trista figura, signori parassiti e tessitori-di-ragne dello spirito! Infine lo sapete abbastanza bene voi, che non deve avere alcuna importanza il fatto che proprio voi abbiate ragione, e sapete pure che fino a oggi mai nessun filosofo ha avuto ragione e che potrebbe esserci in quel piccolo punto interrogativo, che voi mettete dietro le vostre parole favorite e dottrine predilette (e all’occasione dietro voi stessi) una più lodevole veridicità che non in tutti i solenni e baldanzosi atteggiamenti dinanzi agli accusatori e alle corti di giustizia! Fatevi piuttosto da parte!

Fuggite a nascondervi! E abbiate la vostra maschera e astuzia, perché vi si confonda con altri! Oppure perché vi si tema un poco!

E non mi dimenticate il giardino, il giardino con le sue inferriate d’oro! E circondatevi di uomini che siano come un giardino; - o come musica sopra le acque, al momento della sera, quando il giorno già diventa ricordo: scegliete la “buona”

solitudine, la libera animosa leggera solitudine, che vi dà anche un diritto di restare ancora, in qualche modo, buoni. Come rende velenosi, astuti e cattivi ogni lunga guerra che non si lascia condurre con aperta violenza! Come ci rende “personali” un lungo timore, un lungo tener d’occhio il nemico, un possibile nemico!

Questi ripudiati dalla società, questi lungamente perseguitati, ed anche gli eremiti per forza, gli Spinoza o i Giordano Bruno -

finiscono sempre per diventare, sia pure sotto i più spirituali camuffamenti, e forse a loro stessa insaputa, degli assetati di vendetta e dei raffinati avvelenatori (si dissotterri una buona volta il fondamento dell’etica e della teologia spinozista!) - per non parlare della balordaggine dell’indignazione morale, che è segno indefettibile, in un filosofo, del fatto che il filosofico senso del comico se n’è fuggito via. Il martirio del filosofo, il suo «olocausto per la verità», porta alla luce quel che di demagogico e d’istrionesco si annida in lui; e posto che sino ad oggi lo si sia riguardato soltanto con una curiosità artistica, può essere certo comprensibile, in rapporto a molti filosofi, il pericoloso desiderio di vederli una buona volta anche nella loro degenerazione (degenerati nella forma del «martire», dell’urlatore da ribalta e da tribuna). Soltanto che, avendo un tal desiderio, si deve essere chiari su “quel che” ci sarà da vedere: -

null’altro che una rappresentazione satiresca, una farsa da fine-spettacolo, la perpetua dimostrazione che la lunga vera tragedia è

“finita”: ammesso che ogni filosofia, nel suo nascere, sia stata una lunga tragedia.

26. Ogni persona squisita tende istintivamente alla sua rocca e alla sua intimità, dove trovare la “liberazione” dalla massa, dai molti, dal maggior numero, dove è possibile dimenticare la regola

«uomo», in quanto sua eccezione: - salvo l’unico caso, che da un istinto ancor più forte costui venga ricacciato direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza nel suo grande ed eccezionale significato. Chi nel frequentare gli uomini non si è cangiato secondo le circostanze in tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, compassione, tetraggine, squallidezza, non è certo un uomo di gusto superiore; ma posto che egli non prenda volontariamente su di sé tutti questi pesi e questo tedio, posto che li eluda perpetuamente e resti, come si è detto, tacitamente e superbamente annidato nella sua rocca, ebbene, una cosa è certa: costui non è fatto né predestinato alla conoscenza. Infatti, se così fosse, dovrebbe dire un bel giorno a se stesso «il diavolo si porti il mio buon gusto! la regola è più interessante dell’eccezione di me, l’eccezione!» - e si porterebbe giù “in basso”, soprattutto «addentro». Lo studio dell’uomo “medio”, un lungo severo studio, e a questo fine molti mascheramenti, autosuperamenti, molta fiducia, molte cattive compagnie ogni compagnia è cattiva, salvo quella con i propri simili -: tutto ciò costituisce un necessario frammento della biografia di ogni filosofo, forse il frammento più sgradevole, più maleodorante, più ricco di delusioni. Ma se ha fortuna, come si addice ad un beniamino della conoscenza, incontrerà effettivi abbreviatori e mitigatori del suo compito - intendo dire i cosiddetti cinici, quei tali appunto che semplicemente riconoscono in sé la bestia, la generalità, la «regola» e possiedono, nello stesso tempo, anche quel grado di spiritualità e di pruriginosa sensibilità necessario per parlare di sé e dei propri simili

“dinanzi a testimoni”: talvolta si crogiolano persino nei libri come nei loro stessi escrementi. Il cinismo è l’unica forma nella quale anime volgari sfiorano quel che è onestà; e l’uomo superiore deve aprire le orecchie ad ogni più rozzo e più sottile cinismo e congratularsi ogni volta con se medesimo, se proprio dinanzi a lui si fanno sentire lo spudorato pagliaccio o il satiro della scienza. Si dànno persino dei casi in cui alla nausea si mescola la fascinazione: tutte le volte, cioè, in cui il genio sia legato, per un capriccio della natura, a un siffatto indiscreto caprone e scimmia, come è accaduto per l’abate Galiani, l’uomo più profondo, più acuto e forse più sporco del suo secolo - egli era assai più profondo di Voltaire e quindi anche notevolmente meno loquace.

Accade già abbastanza di frequente che, come si è accennato, una testa di scienziato sia posta sopra un corpo di scimmia, un fine eccezionale intelletto sia congiunto ad un’anima volgare -

eventualità tutt’altro che rara specialmente per i nostri medici e fisiologi della morale. E dovunque uno parli non con animosità, ma piuttosto in modo mansueto, dell’uomo come di un ventre con una doppia specie di bisogni, e di una testa con un solo bisogno; dovunque qualcuno veda, cerchi e “voglia” vedere sempre null’altro che fame e libidine sessuale, quali molle peculiari ed esclusive delle azioni umane; insomma, dovunque si parli «male» dell’uomo e neppure in guisa “cattiva”, l’amante della conoscenza dovrà prestare un’attenzione sottile e scrupolosa, dovrà tendere le orecchie soprattutto laddove si parla senza indignazione. Giacché l’uomo indignato, e chiunque, con i suoi propri denti, laceri e smembri se medesimo (oppure, in sostituzione di sé, il mondo, Dio o la società), potrà anche, in realtà, secondo i calcoli della morale, starsene più in alto del satiro ridente e pago di sé, ma in ogni altro senso sarà il caso più consueto, più irrilevante e meno istruttivo. E nessuno “mente” tanto quanto l’indignato.

27. E’ difficile essere compresi: specialmente se si pensa e si vive “gangasrotogati”, in mezzo soltanto a uomini che pensano e vivono diversamente, cioè “kurmagati” o nel migliore dei casi, secondo il modo di camminare della rana, “mandeikagati” - faccio appunto tutto il possibile per essere anch’io «difficilmente compreso»! - e si deve essere riconoscenti di cuore già per la buona volontà d’interpretare con una qualche finezza. Ma per quanto concerne «i buoni amici», che sono sempre troppo comodi e credono di avere proprio in quanto amici un diritto alla comodità: sarà bene concedere loro, fin da principio, un libero campo e un’arena per i fraintendimenti - così avremo un altro motivo di riso - oppure converrà eliminarli del tutto, questi buoni amici -

e ancora riderne!

28. Ciò che di una lingua è traducibile nel modo peggiore in un’altra, è il “tempo” del suo stile, che come tale trova il suo fondamento nel carattere della razza o, per dirla in termini fisiologici, nel “tempo” medio del suo «metabolismo». Esistono traduzioni, fatte con onesti propositi, che sono quasi delle falsificazioni, in quanto involontarie volgarizzazioni dell’originale, semplicemente perché non poté essere tradotto anche il loro “tempo” ardimentoso e allegro, il quale salta a piè pari tutto quanto v’è di pericoloso in parole e cose, aiuta a tirarsene fuori. Il tedesco è pressoché incapace del “presto”

nella sua lingua: dunque, come si può logicamente concludere, è altresì incapace di molte delle più squisite e temerarie “nuances”

del libero pensiero, del pensiero proprio degli spiriti liberi.

Allo stesso modo gli sono estranei il buffo e il satiresco, e similmente Aristofane e Petronio sono per lui intraducibili. Ogni sostenutezza, pesantezza, pomposa goffaggine, ogni specie di stile interminabilmente prolisso e tedioso hanno trovato nei Tedeschi uno sviluppo estremamente ricco di varietà, - è un fatto, e ne chiedo venia, che la stessa prosa di Goethe, nella sua mescolanza di rigidezza e grazia, non costituisce un’eccezione, essendo un’immagine riflessa del «buon tempo antico» a cui appartiene, nonché un’espressione del gusto tedesco all’epoca in cui esisteva ancora un «gusto tedesco»: che era poi un gusto rococò “in moribus et artibus”. Lessing rappresenta un’eccezione, grazie alla sua natura di attore, la quale molto capiva e di molto s’intendeva: lui, che non invano fu il traduttore di Bayle, lui che amava rifugiarsi accanto a Diderot e Voltaire e ancor più tra i poeti della commedia romana: - Lessing amava anche nel “tempo” la libertà dello spirito, la fuga dalla Germania. Ma quando mai la lingua tedesca, sia pure nella prosa di un Lessing, riuscì a imitare il “tempo” di Machiavelli, che nel suo “Principe” fa respirare l’aria fine e asciutta di Firenze e non può esimersi dal riferirci il più serio dei casi in uno sfrenato “allegrissimo”: forse non senza avvertire maliziosamente, da quell’artista che è, quale contrasto stia egli osando, pensieri lunghi, difficili, duri, pericolosi, e un “tempo” da galoppo, assecondante l’estro migliore e più ardito.