Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. Non dovrebbe essere soprattutto l‘“antitesi” il giusto travestimento con cui incede il pudore di un dio? Una domanda problematica: e sarebbe curioso che un qualche mistico non avesse già osato con se stesso qualcosa di simile. Ci sono eventi di specie così delicata, che si fa bene a seppellirli e a renderli irriconoscibili con una grossolanità; ci sono azioni compiute dall’amore e da una traboccante magnanimità, a seguito delle quali non ci sarebbe nulla di più consigliabile che prendere un bastone e caricare di legnate i testimoni oculari, e così offuscare la loro memoria.
Taluni sono capaci di offuscare e bistrattare la propria memoria, per vendicarsi almeno di quell’unico testimone - il pudore è ingegnoso. Non sono le cose peggiori quelle di cui ci si vergogna nel peggior modo: dietro una maschera non c’è soltanto fraudolenza
- c’è molta bontà nell’astuzia. Niente mi impedisce di pensare che un uomo, il quale abbia da nascondere qualcosa di prezioso e di facile a guastarsi, rotoli attraverso la vita tondo e rozzo come una grande, vecchia botte di vino pesantemente cerchiata di ferro: così vuole la finezza del suo pudore. Un uomo che ha una profondità nel suo pudore incontra anche i suoi destini e le sue delicate decisioni su strade alle quali sono pochi a giungere, e la cui esistenza neppure agl’intimi e ai più fidati è dato sapere: si cela ai loro occhi tanto il repentaglio cui egli espone la propria vita, quanto la sua riconquistata sicurezza vitale. Un tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celare ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, “vuole” ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una sua maschera; e anche ammesso che egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno gli occhi sul fatto che a onta di ciò v’è laggiù una sua maschera
- e che è bene le cose stiano in questo modo. Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà.
41. Occorre dare a se stessi le prove che si è destinati all’indipendenza e al comando, e ciò a tempo giusto. Non bisogna sfuggire a queste prove, sebbene esse siano forse il gioco più pericoloso che si possa giocare, e siano infine soltanto prove che vengono fornite dinanzi a noi stessi, come testimoni, e a nessun altro giudice. Non si deve restare attaccati a una persona: fosse anche la più amata - ogni persona è un carcere e anche un cantuccio. Non si deve restare attaccati a una patria: fosse anche la più sofferente e la più bisognosa d’aiuto - è già meno difficile distaccare il proprio cuore da una patria vittoriosa.
Non si deve restar attaccati a un senso di compassione: anche se fosse rivolta a uomini superiori, nel cui eventuale martirio e abbandono sia stato il caso a farci gettare uno sguardo. Non si deve restar attaccati a una scienza: dovesse pure allettare qualcuno con le più preziose scoperte, riservate, in apparenza, proprio “a noi”. Non si deve restare attaccati alla propria liberazione, a quella voluttuosa lontananza ed estraneità dell’uccello che vola sempre più in alto per vedere sempre più sotto di sé il pericolo di chi vola. Non si deve restare attaccati alle nostre proprie virtù e sacrificare noi stessi come totalità a una qualche singola parte, per esempio, al nostro
«spirito d’ospitalità»: la qual cosa rappresenta il pericolo dei pericoli nelle anime ricche e di alto lignaggio, che trattano se stesse con prodigalità, quasi con indifferenza e spingono così avanti la virtù della liberalità da farla diventare un vizio.
Occorre saper “conservarsi”: è la più forte prova d’indipendenza.
42. Sta sorgendo una nuova stirpe di filosofi: oso battezzarla con un nome non esente da pericoli. Così come io li vado divinando, così come essi si lasciano divinare - giacché s’addice alla loro specie “voler” restare in un qualche punto degli enigmi -, questi filosofi dell’avvenire vorrebbero avere il diritto, forse anche il torto, di essere chiamati “tentatori”. Questo stesso nome è infine soltanto un tentativo e, se si vuole, una tentazione.
43. Sono forse questi filosofi, sul punto di sopraggiungere, nuovi amici della «verità»? Probabilmente lo saranno abbastanza: giacché tutti i filosofi sino a oggi hanno amato le loro verità. Certo, però, non saranno dei dogmatici. Dovrebbe essere incompatibile con il loro orgoglio, e anche con il loro gusto, l’eventualità che la loro verità debba ancora essere una verità per ognuno: ciò che è stato fino a oggi il segreto desiderio e il senso recondito di ogni aspirazione dogmatica. «Il mio giudizio è il “mio” giudizio: difficilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso»
- dirà forse un tale filosofo dell’avvenire. Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler andar d’accordo con molti. «Bene» non è più bene se suona sulla bocca del vicino.
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