L’elemento sostanziale e inestimabile di ogni morale sta nel fatto che essa è una lunga costrizione: per comprendere lo stoicismo o Port-Royal o il puritanesimo, si richiami alla mente la costrizione grazie alla quale ogni linguaggio ha raggiunto forza e libertà - la costrizione del metro, la tirannide della rima e del ritmo. A quante tribolazioni non si sono sottoposti, in ogni popolo, i poeti e gli oratori!
Senza eccettuare alcuni prosatori di oggi, nel cui orecchio dimora una coscienza spietata «per amore di una follia», come dicono i babbuassi utilitaristi, che con ciò arrivano al punto di ritenersi intelligenti -, «in ossequio a leggi arbitrarie», come dicono gli anarchici (19), che con ciò si illudono di essere «liberi», liberi spiriti. E’ tuttavia curioso il fatto che tutto quanto esiste o è esistito sulla terra di libero, di sottile, di ardimentoso, di danzante e di magistralmente sicuro, sia nel pensiero stesso che nel governare o nel discorrere e persuadere, nelle arti come nei costumi etici, si è sviluppato in virtù della «tirannide di tali leggi arbitrarie»; e, sia detto con tutta serietà, è molto probabile che proprio questo sia «natura» e «naturale», e “non già” quel “laisser aller”! Ogni artista sa quanto sia distante dal sentimento del lasciarsi andare il suo stato «più naturale», la libertà, cioè, con cui egli ordina, stabilisce, dispone, dà forma, negli attimi dell’«ispirazione» - e quanto rigorosamente e sottilmente, proprio in questo momento, egli obbedisca a mille molteplici leggi, le quali si burlano di ogni formulazione per concetti proprio sulla base della loro durezza e determinatezza (anche il concetto più stabile ha qualcosa di evanescente, di multiforme e di polivalente di fronte a esse). L’essenziale «in cielo e in terra» è, a quanto sembra, per dirlo ancora una volta, che si “ubbidisca” a lungo e in “una sola” direzione: ne risulta e ne è risultato, a lungo andare, sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere sulla terra, per esempio virtù, arte, musica, danza, ragione, spiritualità, qualche cosa di trasfigurante, di raffinato, di delirante e di divino. Il lungo asservimento dello spirito, la sospettosa costrizione nella comunicabilità dei pensieri, la disciplina cui si sottoponeva il pensatore nel meditare all’interno di una regola ecclesiastica o cortigiana o sulla base di certi presupposti aristotelici, la lunga volontà dello spirito di interpretare ogni avvenimento secondo uno schema cristiano e di riscoprire, giustificandolo, in ogni fortuita contingenza ancora una volta il Dio cristiano, - tutto quanto v’è in ciò di violento, di arbitrario, di aspro, di orribile e d’irragionevole è risultato essere il mezzo attraverso il quale fu istillata nello spirito europeo la sua forza, la sua spregiudicata curiosità e raffinata mobilità: pure ammettendo che in tal modo dovette essere conculcata, soffocata e corrotta una parte insostituibile della sua energia e del suo spirito (giacché anche in questo caso, come sempre, «la natura» si mostra quale essa è, in tutta la sua prodiga e “incurante” grandiosità, nobile grandiosità, anche se muove a sdegno). Il fatto che per millenni i pensatori europei meditarono soltanto di dimostrare qualcosa -
mentre oggi, viceversa, suscita i nostri sospetti ogni pensatore che «voglia dimostrare qualcosa» - il fatto che per costoro appare già sempre assodato quel che invece “doveva” scaturire quale risultato della loro più severa riflessione, a un dipresso come accadeva un tempo nella astrologia asiatica, o come accade ancor oggi nell’innocente interpretazione cristiano-morale dei più vicini avvenimenti personali «a lode di Dio» e «per la salvezza dell’anima» - questa tirannide, questo arbitrio, questa severa e grandiosa stoltezza hanno “educato” lo spirito; a quanto sembra la schiavitù, tanto per l’intelletto più grossolano quanto per quello più sottile, è il mezzo indispensabile anche della disciplina e dell’addestramento spirituale. Ogni morale può essere riguardata in questo senso: la «natura» in essa è ciò che insegna a odiare il
“laisser aller”, l’eccessiva libertà, e radica l’esigenza di limitati orizzonti, di compiti immediati - che insegna “la riduzione della prospettiva”, e quindi, in un certo senso, la stupidità, come una condizione di vita e di crescita. «Tu devi obbedire, a chicchessia, e per lungo tempo: altrimenti andrai in rovina e perderai l’ultimo rispetto per te stesso»- mi sembra che questo sia l’imperativo morale della natura, il quale indubbiamente non è «categorico» come pretendeva il vecchio Kant (di qui l’«altrimenti»), né è diretto al singolo (che importa a essa il singolo!), bensì ai popoli, alle razze, alle epoche, alle classi, e soprattutto a tutta quanta la bestia «uomo», agli uomini. -
189. Le razze industriose provano una grave molestia nel sopportare l’ozio: fu un colpo maestro dell’istinto “inglese”
santificare la domenica e renderla noiosa a tal punto che nel cittadino britannico nasce a sua insaputa la voglia di tornare ai suoi settimanali giorni lavorativi - in quanto è una specie di
“digiuno” saggiamente escogitato e saggiamente interpolato, di cui si possono trovare anche nel mondo antico abbondanti esempi (quantunque, come è logico nei popoli meridionali, non proprio in riferimento al lavoro). Occorre che esistano digiuni di diversa specie: e ovunque dominano possenti istinti e consuetudini, i legislatori devono provvedere a che siano introdotti dei giorni intercalari, in cui tali istinti vengono messi alla catena e imparano ancora una volta a soffrir la fame. Considerando la cosa da un superiore punto di vista, intere stirpi ed epoche, allorché risultano contagiate da un qualsivoglia fanatismo morale, hanno l’aspetto di questi intermezzi di costrizione e digiuno, durante i quali un istinto impara a umiliarsi e sottomettersi, ma anche a
“purificarsi” e ad “acuirsi”: anche alcune sètte filosofiche (per esempio la Stoa nel cuore della cultura ellenistica e della sua atmosfera, fattasi lasciva e sovraccarica di profumi afrodisiaci) consentono una interpretazione di questo genere. - Con ciò è dato anche un accenno, per spiegare il paradosso che proprio nel periodo più cristiano dell’Europa, e soprattutto sotto la pressione dei giudizi cristiani di valore, l’istinto sessuale si sia sublimato sino a divenire amore (“amour-passion”) (20).
190. V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico.
«Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a se stesso: non 1o farebbe se sapesse che il male è male.
Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore: se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente buono». Questo tipo di conclusione ha odore di “plebaglia”, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose e giudica propriamente in questo modo: «è da
“sciocchi” agire male»; mentre accetta senz’altro l’identità di
«buono» con «utile e gradevole». Si può supporre senz’altro che ogni utilitarismo della morale abbia la stessa origine e fidarsi del proprio fiuto: di rado si cadrà in errore. - Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarvi dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso; era il più ardimentoso di tutti gli interpreti, che aveva preso dalla strada tutto Socrate solo come il motivo in voga di una canzone popolare, per variarlo all’infinito, fino all’impossibile: cioè in tutte le sue proprie maschere e multiformità. Per dirla scherzosamente e alla maniera di Omero: che altro mai è il Socrate platonico se non
«Davanti Platone, dietro Platone e in mezzo la Chimera» (21).
191. L’antico problema teologico della «fede» e del «sapere» -
oppure, in maniera più chiara, dell’istinto e della ragione - la questione, quindi, se riguardo alla valutazione delle cose meriti maggiore autorità l’istinto della ragionevolezza, la quale vuole che si valuti e si operi secondo dei motivi, secondo un «perché?», quindi secondo l’opportunità e l’utilità, continua sempre a essere quel vecchio problema morale quale si presentò per la prima volta nella persona di Socrate e che già molto prima del cristianesimo ha prodotto una scissione negli spiriti. Effettivamente lo stesso Socrate si era posto, grazie al gusto del suo talento - il gusto di un dialettico superiore - dalla parte della ragione; e in verità che altro ha fatto durante tutta la sua vita se non prendersi giuoco della goffa inettitudine dei suoi nobili Ateniesi, i quali erano uomini d’istinto come tutti i nobili e non erano mai sufficientemente in grado di dar ragione dei motivi del loro operare? In definitiva, però, silenziosamente e in segreto, egli rideva anche di se stesso: dinanzi alla sua più sottile coscienza, interrogandosi intimamente, trovava in sé la stessa difficoltà e la stessa inettitudine. Ma a che scopo - diceva a se stesso - liberarsi perciò dagli istinti! Occorre aiutare questi, nonché la ragione, ad affermare i loro diritti - occorre seguire gli istinti, e tuttavia persuadere la ragione a dar loro man forte con buoni motivi. Fu questa la caratteristica “doppiezza” di quel grande misterioso ironista; portò la sua coscienza al punto di tranquillizzarsi raggirando in certo modo se stessa: in definitiva egli aveva penetrato a fondo l’irrazionalità insita nel giudizio morale. - Platone, più ingenuo in cose di questo genere e senza la scaltrezza del plebeo, impiegando tutta la sua energia - la più grande energia che sia mai stata fino a oggi prodigata da un filosofo! - volle dimostrare a se stesso che ragione e istinto tendono, di per se stessi, ad “una sola” meta, al bene, a «Dio»; e da Platone in poi tutti i teologi e i filosofi si sono messi sulla stessa strada - vale a dire, nelle questioni della morale ha fino a oggi prevalso l’istinto, o «la fede», come dicono i cristiani, oppure, come dico io, «l’armento». Si dovrebbe eccettuare Descartes, il padre del razionalismo (e quindi nonno della rivoluzione), il quale riconosceva soltanto l’autorità della ragione: ma la ragione è soltanto uno strumento, e Descartes era superficiale.
192.
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