180. Esiste un candore nella menzogna che è il segno della buona fede in una qualche causa.

181. E’ disumano benedire là dove qualcuno viene maledetto.

182. La familiarità del superiore amareggia perché non può essere ricambiata.

183. «Non il fatto che mi hai ingannato, ma che io non ti creda più, m’ha profondamente scosso».

184. C’è una tracotanza nella bontà che si presenta come malvagità.

185. «Non mi va a genio». - Perché? - «Non sono alla sua altezza».

- Ha mai un uomo risposto a questo modo?

CAPITOLO QUINTO.

PER LA STORIA NATURALE DELLA MORALE.

186. Il sentimento morale è oggi in Europa tanto sottile, tardo, multiforme, eccitabile, raffinato, quanto la relativa «scienza della morale» è ancora giovane, esordiente, goffa e grossolanamente maldestra - una antitesi attraente, che talora diventa essa stessa manifesta incarnandosi nella persona di un moralista. Già il termine «scienza della morale», per quanto riguarda quel che viene designato in tal modo, è fin troppo borioso e contrario al “buon” gusto: il quale di solito preferisce sempre parole modeste; si dovrebbe confessare a se stessi, con la massima severità, “che cosa”, a questo proposito, ci sarà necessario per molto tempo ancora, e “che cosa” per il momento ha una sua esclusiva legittimità: vale a dire la raccolta del materiale, la formulazione e organizzazione concettuale di un regno sterminato di delicati sentimenti e differenziazioni di valore che vivono, si sviluppano, generano e periscono, - senza escludere, forse, i tentativi di rendere evidenti le ritornanti e più frequenti configurazioni di questa vivente cristallizzazione -

quale preparazione di una “tipologia” della morale: fino a oggi non si è stati così modesti. Tutti quanti i filosofi con una rigida gravità pretesero da se stessi qualcosa di molto più elevato, di più presuntuoso e solenne, non appena si occuparono della morale come scienza: essi volevano la “fondazione” della morale - e ogni filosofo ha creduto fino a oggi di aver fondato la morale; ma la morale stessa valeva come «data». Quanto era lontano dalla loro goffa alterigia il compito, apparentemente insignificante e abbandonato nella polvere e nella muffa, di una descrizione, benché per un compito siffatto difficilmente avrebbero potuto essere abbastanza affinati le mani e i sensi più sottili! Appunto i filosofi della morale avevano una conoscenza soltanto grossolana dei fatti morali, nella forma di un compendio arbitrario o di una abbreviazione casuale, o qualcosa come moralità del loro ambiente, del loro ceto, della loro Chiesa, della loro epoca, del clima e del paese loro - appunto perché essi erano male istruiti e anche poco avidi di notizie sui popoli, sulle epoche, sulle trascorse età, non si trovarono mai faccia a faccia coi veri problemi della morale che emergono tutti soltanto da un confronto di “molte” morali. In ogni «scienza della morale»

esistita fino a oggi è sempre mancato, per quanto possa riuscire strano, il problema stesso della morale: è mancato il sospetto che ci potesse essere su questo punto qualcosa di problematico. Ciò che i filosofi chiamavano «fondamento della morale» e ciò che esigevano da se stessi, considerato nella sua giusta luce, era soltanto una forma erudita della loro “tranquilla” credenza nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua “espressione”, quindi uno stato di fatto esistente all’interno di una determinata moralità, anzi, in ultima analisi, addirittura una specie di negazione che questa morale “potesse” essere concepita come problema - e in ogni caso l’opposto di una verifica, di un’analisi, di una messa in questione, di una vivisezione, appunto, di codesta credenza. Si faccia caso per esempio all’innocenza quasi venerabile con cui anche uno Schopenhauer pone a se stesso il suo compito, e si traggano le proprie conclusioni sulla scientificità di una «scienza» i cui massimi maestri discorrono ancora come i bambini e le vecchie donnicciole: - «Il principio» egli dice (p. 136 [18] dei “Problemi fondamentali dell’etica”) «la tesi fondamentale sul cui contenuto tutti i teorici dell’etica sono “propriamente” d’accordo è: “neminem loede, immo omnes, quantum potes, juva” - è “propriamente” questa la proposizione, a cui tutti i maestri dell’etica si sforzano di dare un fondamento… il fondamento effettivo dell’etica che da millenni si va cercando come la pietra filosofale». - La difficoltà di fondare la citata proposizione è indubbiamente grande - è noto che non ci sono riusciti neppure gli schopenhaueriani; e chi ha avuto l’occasione di sentire in profondità, quanto assurda, falsa e sentimentale sia questa proposizione, in un mondo la cui essenza è volontà di potenza -, sarà bene si richiami alla memoria che Schopenhauer, sebbene pessimista, in verità suonava il flauto… Ogni giorno, dopo il pranzo: si consultino al riguardo le sue biografie. E sia detto di passata: un pessimista, un negatore di Dio e del mondo, che si

“arresta” di fronte alla morale - uno che afferma la morale e suona il flauto, che afferma la morale del “loede neminem” -

domando, è poi veramente un pessimista?

187. Anche prescindendo dal valore di affermazioni come «esiste in noi un imperativo categorico», si può sempre domandare ancora una volta: che cosa asserisce siffatta affermazione riguardo a colui che la fa? Vi sono morali che devono giustificare il loro autore di fronte ad altri; altre morali devono acquietarlo e metterlo in un felice accordo con se stesso; con altre morali l’autore vuole crocifiggere e umiliare se stesso; con altre vuole fare la sua vendetta, con altre nascondersi, con altre trasfigurarsi e andare ancora oltre fino a porre se stesso in alto e distante; ora una morale serve al suo autore per dimenticare, ora, invece, per far dimenticare se stesso o qualcosa di se stesso; taluni moralisti vorrebbero esercitare in questo modo sull’umanità la loro potenza e l’estro creativo; molti altri, tra cui forse proprio lo stesso Kant, dànno a intendere, con la loro morale: «Quel che v’è in me di rispettabile sta nel fatto che io so obbedire e per voi non

“deve” essere diverso da come è per me!». Insomma, le morali non sono nient’altro che un “linguaggio mimico delle passioni”.

188. Ogni morale, in antitesi com’è al “laisser aller”, rappresenta una buona dose di tirannide contro la «natura» e anche contro la «ragione»: ciò però non è ancora un’obiezione contro di essa, giacché si dovrebbe pur sempre, sulla base di una qualsiasi morale, decretare che non è permessa alcuna specie di tirannide e d’irrazionalità.