Ma è poi questa - una risposta?

Una spiegazione? O non piuttosto soltanto una ripetizione della domanda? Com’è che l’oppio fa dormire? «Grazie a una facoltà», cioè la

“virtus dormitiva” - risponde quel medico in Molière:

“quia est in eo virtus dormitiva,

cujus est natura sensus assoupire”.

Ma risposte di tal genere appartengono alla commedia, ed è tempo, infine, di sostituire la domanda kantiana, «come sono possibili giudizi sintetici “a priori”?», con un’altra domanda: «Perché è

“necessaria” la fede in siffatti giudizi?» - cioè è tempo di renderci conto che tali giudizi devono essere “creduti” come veri al fine della conservazione di esseri della nostra specie; ragion per cui, naturalmente, potrebbero anche essere giudizi “falsi”! Ovvero, per parlare più chiaro, rudemente e radicalmente: giudizi sintetici “a priori” non dovrebbero affatto «essere possibili»: non abbiamo alcun diritto a essi, nella nostra bocca sono giudizi falsi e nulla più.

Salvo il fatto che è indubbiamente necessaria la credenza nella loro verità, in quanto credenza pregiudiziale e immediata evidenza che rientra nell’ottica prospettica della vita. - Se si tiene, infine, presente anche l’enorme influenza che «la filosofia tedesca» - spero si comprenderà il suo diritto ad essere messa tra virgolette - ha esercitato sull’intera Europa, non si dubiterà che ne abbia fatto parte una certa “virtus dormitiva”: si era estasiati di possedere, grazie alla filosofia tedesca, in mezzo a nobili parassiti, virtuosi, mistici, artisti, cristiani per tre quarti e politici oscurantisti di tutte le nazioni, un contravveleno contro quel sensualismo ancora strapotente che dal secolo scorso irrompeva come un fiume nel nostro secolo, insomma - «sensus assoupire».

12. Per quanto riguarda l’atomistica materialistica, essa appartiene alle teorie meglio confutate che siano mai esistite, e forse non c’è oggi in Europa, tra i dotti, nessuno così indotto, da attribuirle ancora una seria importanza, salvo per comodità d’uso giornaliero e domestico (vale a dire come un’abbreviazione dei mezzi espressivi) -

grazie soprattutto a quel polacco, Boscovich [7], che insieme al polacco Copernico è stato fino ad oggi il più grande e il più vittorioso avversario dell’evidenza immediata. Infatti, mentre Copernico ci ha persuaso a credere, in opposizione a tutti i sensi, che la terra “non” è immobile, Boscovich ci insegnò a rinnegare la fede nell’ultima cosa della terra che «stava immobile», la fede nella

«sostanza», nella «materia», nell’atomo come residuo terrestre, come piccola massa; è stato il più grande trionfo sui sensi che sia mai stato ottenuto sino a oggi sulla terra. - Ma si deve ancora andar oltre e dichiarar guerra, una spietata guerra all’arma bianca, anche al «bisogno atomistico», che continua sempre ad avere una pericolosa sopravvivenza, in regioni insospettabili a chiunque, analogamente a quel più famoso «bisogno metafisico»: si deve prima di tutto dare il colpo di grazia anche a quell’altro e più funesto atomismo che il cristianesimo ci ha ottimamente e tanto a lungo insegnato, l‘“atomismo delle anime”. Ci sia consentito di caratterizzare con questa parola quella credenza che considera l’anima come qualche cosa di indistruttibile, di eterno, d’indivisibile, come una monade, come un

“atomon”; “questa” credenza deve essere estirpata dalla scienza! Non è assolutamente necessario, sia detto tra noi, sbarazzarci con ciò anche dell’«anima» e rinunziare a una delle più antiche e venerande ipotesi: come suole accadere all’imperizia dei naturalisti, ai quali basta sfiorare appena l’«anima» per perderla. Ma la strada per nuove forme e raffinamenti dell’ipotesi anima resta aperta: e concetti come «anima mortale» e «anima come pluralità del soggetto» e «anima come struttura sociale degli istinti e delle passioni» vogliono avere, sin d’ora, diritto di cittadinanza nella scienza. Col preparare una fine alla superstizione, che fino ad oggi ha lussureggiato con un rigoglio quasi tropicale intorno alla rappresentazione dell’anima, lo psicologo

“nuovo” si è certamente spinto, per così dire, in un nuovo deserto e in una nuova diffidenza - può anche darsi che la condizione degli psicologi più antichi fosse più comoda e allegra; - ma infine egli si rende conto che appunto con ciò è condannato anche a “inventare” - e, chissà, forse anche a “trovare”. -

13. I fisiologi dovrebbero riflettere prima di stabilire l’istinto di conservazione come istinto cardinale di un essere organico. Un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza - la vita stessa è volontà di potenza: - l’autoconservazione è soltanto una delle indirette e più frequenti “conseguenze” di ciò. - Insomma, in questo come in qualsiasi altro caso, guardiamoci dai princìpi teologici superflui! quale è quello dell’autoconservazione (lo dobbiamo all’inconseguenza di Spinoza -). Così infatti vuole il metodo, che deve essere essenzialmente economia di princìpi.

14. In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! -

con licenza parlando) e “non” già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita, l’evidenza visiva e la materiale tangibilità; e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo l’effetto d’un incantesimo, d’una persuasione, d’una “certezza infusa”, - si uniforma anzi istintivamente al canone di verità del sensualismo eternamente popolare. Che cos’è chiaro, che cos’è

«spiegato»? Soltanto ciò che si lascia vedere e toccare, - si deve spingere ogni problema fino a questo punto. Viceversa, proprio nel recalcitrare all’evidenza sensibile consisteva l’incantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare “aristocratico”,

- in mezzo ad uomini, forse, cui recavano diletto sensi persino più vigorosi ed esigenti di quelli che posseggono i nostri contemporanei, ma a cui era dato trovare un più alto trionfo nel conservare il dominio su questi sensi: e questo era reso possibile mediante una rete di smunti, freddi, grigi concetti, gettata da costoro sul variopinto vortice dei sensi - la plebaglia dei sensi, come diceva Platone - (8).

In questa sopraffazione e interpretazione del mondo alla maniera platonica, c’era una specie di “godimento” diverso da quello che ci offrono i fisici di oggi, come pure i darwinisti e gli antiteleologici tra i lavoratori della fisiologia, con il loro principio della «più piccola forza possibile» e della più grande imbecillità possibile.

«Quando l’uomo non ha più nulla da vedere e da afferrare, non ha neppure più nulla da cercare» - questo è indubbiamente un imperativo diverso da quello platonico, eppure per una rude, laboriosa stirpe di meccanici e costruttori di ponti dell’avvenire, i quali non hanno da sbrigare che un “grossolano” lavoro, può essere proprio l’imperativo giusto.

15. Per praticare con tranquilla coscienza la fisiologia, occorre tener presente il fatto che gli organi di senso “non” sono fenomeni nel significato della filosofia idealistica: come tali non potrebbero in alcun modo essere cause! Sensualismo quindi, almeno come ipotesi regolativa, per non dire come principio euristico. - Come? E altri dicono perfino che il mondo esterno sarebbe l’opera dei nostri organi?

Ma allora sarebbe perfino il nostro stesso corpo, come frammento di questo mondo esterno, l’opera dei nostri organi! Ma allora sarebbero i nostri stessi organi… l’opera dei nostri organi. Questo mi sembra una radicale “reductio ad absurdum”: posto che il concetto di “causa sui” sia qualcosa di radicalmente

assurdo. Di conseguenza, “non” è il mondo esterno opera dei nostri organi…?

16. Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano «certezze immediate», per esempio «io penso», o, come era la superstizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale «cosa in sé», e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell’oggetto. Ma non mi stancherò di ripetere che «certezza immediata», così come «assoluta conoscenza» e «cosa in sé», comportano una “contradictio in adjecto”: ci si dovrebbe pure sbarazzare, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che vuole il volgo, che conoscere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si esprime nella proposizione «io penso», ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, - come per esempio, che sia “io” a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un «io», infine, che sia già assodato che cos’è caratterizzabile in termini di pensiero, - che io “sappia” che cos’è pensare.